venerdì 15 febbraio 2019

TRENT’ANNI DI RICERCHE STORICHE ED ARCHEOLOGICHE CON QUALCHE AGGIUNTA

TRENT’ANNI DI RICERCHE  STORICHE ED ARCHEOLOGICHE

di GIUSEPPE SGUBBI Joselfsgubbus@libero.it 347 9438906

1. CIRCE, ULISSE ED ENEA IN ADRIATICO?     p. 2

2. ALLA RICERCA DEL TESORO DI SPINA NEL SANTUARIO GRECO DI DELFI           p. 16

3. SAN PROCOLO TITOLARE DI PIEVE PONTE     p. 41

4. ALLA RICERCA DEL TOPONIMO QUINTO OVE NEL 536 d.C. FU UCCISO IL RE DEI GOTI TEODATO     p. 54

5. NOTE SULLA GIURISDIZIONE CIVILE ED ECCLESIASTICA DI  IMOLA E FAENZA IN EPOCA ROMANA      p. 62

6. AL DI QUA E AL DI LÀ DEL SILLARO      p. 76

7. DALL’ANATOLIA ALL’ETRURIA E DA SPINA A PISA   p. 82

8. EVOLUZIONE ED ASPETTATIVE RIGUARDANTI L’ABITATO PREISTORICO SCOPERTO NEL TERRITORIO SOLAROLESE p. 85

9. IL QUINTARIO: UNA IMPORTANTISSIMA STRADA DELLA CENTURIAZIONE ROMANA       p. 90



10. LEGGENDO IL CATASTO FAVENTINO     p. 92

11. I QUINTARI: LORO FUNZIONE E COME RINTRACCIARLI  p. 96

12. TERREMOTI              p. 104. 
 Circe, Ulisse ed Enea in Adriatico? *

Al nipotino Viktor,  con la speranza di infondere in lui  l’amore verso la cultura classica.


Con gli indizi non si fa la storia, ma  sono utili per indirizzare le ricerche.  A. TORRE


ABBREVIAZIONI PP = La Parola del Passato; RAL = Rendiconti dell’Accademia dei Lincei; RIL = Rendiconti Istituti Lombardi; Dion. Alic. = Dionigi di Alicarnasso, Storia Romana Arcaica; Licofrone, Alex. = Licofrone, Alessandra (traduzione del Ciaceri); ENc Vir = Enciclopedia Virgiliana, CISA = Contributi dell'Istituto di Storia Antica, Università Cattolica di Milano; RFIC = Rivista di Filologia e Istruzione Classica; SCO = Studi Classici e Orientali; AAA = Antichità Alto Adriatiche; MEFRA = Melanges d'Archeologie de Ecole Francaise de Rome; Pds = Padusa.


SUNTO Questo articolo si fonda su alcune considerazioni: (I)che al seguito dei noti sconvolgimenti avvenuti nei secoli XIII° e XII° a.C., che interessarono tutte le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo, siano arrivati in Italia popoli di diversa provenienza e che questi arrivi possono essere ricordati da alcuni miti, con questo articolo saranno presi in considerazione quelli ricordati  dai miti di Ulisse ed Enea; II) che indipendentemente dalla provenienza o dai tragitti (marittimi o terrestri) (I) codesti popoli sono stati costretti a  passare dall'alto golfo Adriatico, arrivati poi alla foce padana potevano proseguire  lungo le coste adriatiche, oppure se intenzionati  ad andare nel Tirreno, scegliere fra due tragitti transappenninici: valle del Senio per valle Arno (2) oppure valle del Savio per valle Tevere; III) che   conseguentemente  le tracce di Ulisse e di Enea in Adriatico  possono testimoniare  presenze  di popoli in questo mare; IV) che  le tracce di Enea, alcune tracce  troiane e la totalità delle tracce Dardaniche  possano  testimoniare  la presenza Micenea in Adriatico.

"Omero 3OOO anni dopo" ; questo è il suggestivo titolo del convegno svoltesi a Genova nelle giornate del 6, 7 e 8  Luglio 2OOO che ha visto la partecipazione  di oltre 2OO studiosi provenienti  da ogni parte del mondo.


Merito di questo convegno è quello di aver  riaperto la "questione Omerica", un tema che nonostante i suoi 3OOO anni è sempre di grande attualità. Scopo di questo articolo è  di entrare  nel dibattito in corso per dare un contributo  al riguardo della "questione Adriatica". Per  la tradizione e conseguente toponomastica  i miti di Circe, Ulisse e di Enea sono ambientati nel Tirreno, ebbene nei limiti delle mie possibilità (3) riporterò alcuni indizi che se ulteriormente  approfonditi  potrebbero  far ritenere valida l'ipotesi  che tali miti  siano ambientati  anche in Adriatico, o meglio, che tale ambientazione abbia preceduto l'ambientazione tirrenica, con conseguente riconsiderazione delle vicende che hanno interessato il nostro mare. Conseguentemente ai già accennati obbligati tragitti(4), l'alto Adriatico è stato investito da influssi mitici, religiosi e culturali . -Miti: Fetonte, Elettridi, Iperborei, tre fatiche di Ercole (mandrie di Gerione, cerva Cerinea e pomi delle Esperidi), due Saghe Argonautiche( le Argonautiche di Apolonio Rodio e la così detta leggenda Minia), Dedalo ed Icaro, Cadmo ed Armonia, Gerione, Castore e Polluce;.  -Popoli: Pelasgi, Siculi, Sabini e Latini.  -Divinità: Artemide e Yupiter:   -Eroi troiani e greci: Antenore, Diomede, Odisseo ed Enea.(5). Per meglio introdurci nei temi specifici vediamo anzitutto come si sono al proposito  pronunciati gli studiosi moderni che si sono interessati di questi temi.  Circe: occorre tenere presente che  questa maga è protagonista sia col mito di Odisseo che col mito Argonautico, perciò qualsiasi riferimento  può risentire di questa doppiezza. Considerato che la Circe è ben documentata nel Tirreno, la stragrande maggioranza degli studiosi, considera, in riferimento alle vicende Odissiache, l'ambientazione  in quel mare la sede della Circe.  Non mancano come vedremo quelli che ritengono la Circe ambientata anche nell'Adriatico. Al riguardo di Odisseo:molti concordano sulla individuazione Odisseo = Nanas cioè con un personaggio  le cui gesta in Adriatico non possono essere messe in discussione, alcuni  riportano ripetutamente alcune testimonianze del passaggio di  Ulisse nell'Adriatico, ma forse perchè considerate di semplici passaggi, non vengono tenute in seria considerazione. Al riguardo di Enea: un solo autore cita una testimonianza antica che ne ricorda  la presenza in Adriatico, ma riporta tale testimonianza  al solo scopo di segnalarla come non degna di fede.(6) Vediamo ora le ambientazioni di questi miti nei mari italiani CIRCE: abbiamo già detto che per la stragrande maggioranza degli scrittori moderni, la Circe  è ambientata solo in Tirreno. Il primo ricordo sicuro di tale ambientazione risale al IV  secolo A.C.(7)  ma per moltissimi studiosi sarebbe già ricordata nel settimo secolo dal noto passo di Esiodo (Teogonia 1011 = 1016); ma, come vedremo, al riguardo della "fedeltà" di questo discusso passo  sussistono non pochi dubbi. Occorre al proposito tener presente che i tempi a cui si riferiscono  tali vicende (nel 13° e  nel 12° secolo A.C.)  sono molto anteriori alle testimonianze appena citate, conseguentemente dovremmo cercare testimonianze più antiche, ebbene queste testimonianze esistono ma dicono cose ben diverse. Per Omero(8) la sede della maga Circe era in "Oriente", in "terre basse", e in una "isola", caratteristiche che mal si adattano al promontorio del Circeo, per Euripide (le Troiane 437) la sede della  maga era in Liguria . La presenza della Circe in Adriatico, con riferimento alle vicende Odissiache, è riportata dal Graves (9), questo studioso, al seguito di una attenta lettura dei testi antichi, afferma  che in antico si trovava nei pressi del Po, o in  Istria, e che successivamente  è stata "trasferita" in Campania. Un’altra testimonianza della Circe in Adriatico, sempre con riferimento alle vicende Odissiache, potrebbe essere quella testimoniata da Partenio: questi dice che un Re della


Daunia, follemente innamorato della Circe, sarebbe stato da questa trasformato in maiale e che solo l'immediato intervento dell'esercito Dauno lo ha salvato (1O); considerato che i Dauni arrivarono "in brevissimo tempo" nella sede della maga, e liberarono il loro Re, fa pensare che Dauni e Circe fossero vicinissimi e perciò vicenda e protagonisti dovrebbero essere  ambientati in Adriatico. Alla luce del fin qui detto non esistono prove  di una "sicura" ambientazione  della Circe in Tirreno anche nei tempi antichi. ODISSEO,ULISSE NANAS, (tre nomi di un identico personaggio) Prima di passare in rassegna  le vicende italiane di Odisseo, sarà bene, per favorire la comprensione, fare un utile avvertimento: nel corso delle righe che seguiranno avremo più volte l'occasione di imbatterci nella voce "Tirreni" o "Tirreno", termini di significato in apparenza identici ma che in antichità  potevano a volte avere significati ben diversi, per esempio in vari passi antichi  capita spesso di leggere che  personaggi e popoli sono arrivati "fra i Tirreni", come logica dovrebbe significare  un arrivo in Etruria fra gli Etruschi, purtroppo non è così, o almeno non è sempre così, infatti se la dicitura non contiene  nessun altro riferimento, dal passo non si ricava nessun dato certo. "Fra Tirreni" era un termine molto indeterminato; poteva trattarsi di.un approdo nell'Etruria  Tirrenica al seguito di un tragitto  lungo le coste Tirreniche, come  poteva trattarsi di un approdo in Etruria Padana in seguito ad un tragitto  lungo le coste adriatiche, oppure di  un arrivo in una qualsiasi  località dell'antica Etruria lungo un tragitto terrestre. Come  avremo modo di vedere queste vaghe indicazioni sono molto frequenti. Passiamo ora alle peregrinazioni di Ulisse: tralasciando di commentare le sue peregrinazioni fuori del Mediterraneo in quanto per noi fuori tema (11 ), vediamo le sue vicende nei mari italiani. A parere della stragrande maggioranza degli studiosi la "tirrenicità" di Odisseo sarebbe testimoniata da alcuni antichi passi, riportiamoli quasi integralmente. Esiodo(Teogonia 1O11-1O16)           "Circe figlia del sole, stirpe di Iperione,unitasi           con Odisseo dal cuore che sopporta, generò        Agrio e Latino, irreprensibile e forte, questi              regnarono molto lontano nel mezzo delle isole             sacre, in un lontano  golfo, sugli illustri Tirreni".

Licofrone (Alex 8O6)                                 "sopraggiunto Odisseo a Itaca e scoperte                                   le colpe di Penelope, ripartì  diretto al paese dei                                   Tirreni, qui giunto risiedette a Cortona                                   ove morì onorato da tutti".

Licofrone (Alex 124O)                                  "Enea partito da Almopia sara' raccolto errabondo                                  dalla terra Tirrenica dove il Lingeo riversa in mare le                                   acque calde,Pisa e la valle di Agilla ricca di gregge ,                                  un nemico Nanas, dopo aver ascoltato suppliche e                                   giuramenti unirà amichevolmente  il suo esercito".

Ellanico di Mitilene(Dion. Alic. I-72, 2)                                                            "Enea con Ulisse trasferitesi dalla terra                                                             dei Molossi  in Italia fondano Roma".

Nella "Tabula Iliaca", bassorilievo che riporta a fumetti la caduta di Troia "secondo


Stesicoro"si intravedono  Ulisse ed Enea che partono in nave diretti in "Esperia" cioè  Italia.  Come già detto  questi sono i passi antichi che con più frequenza sono riportati dagli studiosi a conferma della "tirrenicità" di Odisseo(12),ma in particolare viene riportato il già citato passo di Esiodo, prima di passare ad una vera e propria "analisi logica" di questo passo, spendiamo qualche parola al riguardo del già ricordato Nanas, un personaggio particolarmente interessante per il nostro tema.

Ellanico di Mitilene (Dion-Alic I-28,3)                                                          "che i Pelasgi scacciati dal loro paese                                                            dai greci, arrivati al fiume Spinete lasciarono                                                            le navi, proseguirono il viaggio via terra e                                                             arrivati a Cortona, l'occuparono  come pure                                                            occuparono il territorio  che noi ora chiamiamo                                                            Tirrenia, questo accadde  sotto il regno                                                            del loro quinto Re Nanas".

Il nome Nanas compare pure in un vaso  trovato nei pressi di Chiusi, ora nel museo di Baltimora.(13)  Gli studiosi che condividono la individuazione Odisseo = Nanas (14) portano a loro sostegno la fondamentale testimonianza di Tzetze  in Licrofone (Alex  1244)                                                                         "Io so che Odisseo  era fra  i Tirreni  chiamato                                                                         Nanas ,ma ora è di nuovo chiamato Odisseo"

A riprova  della giusta individuazione vi sono pure alcune comuni vicende: ambedue risultano fondatori di Cortona e in quella città sarebbero ambedue sepolti.(14a) Stranamente, nonostante tale condivisa individuazione, nessun scrittore moderno afferma esplicitamente  che Odisseo "merita" anche una ambientazione Adriatica, se poi consideriamo che esistono anche altre testimonianze che la confermerebbe, come vedremo più avanti, non si può non chiederci la ragione  di questa  "latitanza", forse anche in questo caso  c'è lo "zampino" del famoso passo di Esiodo (14 b); ebbene a questo punto sarà bene, per fare chiarezza, discuterne un po’. Rileggiamolo di nuovo e facciamone una vera e propria analisi logica.

CIRCE figlia del sole stirpe di Iperione  unitasi in amore con ODISSEO dal cuore  che sopporta,generò AGRIO e LATINO, irreprensibile e forte, questi regnarono  molto lontano nel mezzo delle ISOLE SACRE  in un LONTANO GOLFO sugli illustri TIRRENI.

Riportiamo prima, a riprova della sua indeterminatezza, le testuali  parole del Braccesi che certamente è il più convinto sostenitore  della sua "genuinità" :                                                                   "siamo di fronte ad una tradizione antichissima                                                                     come denunzia  la stessa vaghezza  geografica                                                                     della  localizzazione dell'Etruria, connotata come                                                                    regione lontanissima situata  in un golfo ignoto                                                                    che ospita ancor più ignote isole sacre"(15).

 Analizziamo il testo parola per parola. CIRCE E ODISSEO:  Abbiamo già visto che vi sono  forti dubbi sul fatto che in antico la sede della Circe fosse nel Tirreno, come pure abbiamo visto, che Odisseo viene identificato con


Nanas cioè con un personaggio ben ambientato anche in Adriatico. AGRIO E LATINO: Questi sarebbero per Esiodo i figli che Odisseo avrebbe avuto con Circe ma passando in rassegna le testimonianze antiche ci renderemo conto che il numero ed i nomi non corrispondono quasi mai.  Per Igino (fab 125) si chiamavano Telegono e Nausitoo; per Plutarco (Rom 2)  era uno solo e si chiamava Romolo; per Apollodoro (Epit 7) Odisseo avrebbe avuto un solo figlio; Per Licofrone (Alex 8O9)  un figlio di nome Telemaco ed una figlia di nome Cassifone; per Xenagora (16) i figli sarebbero tre: Romolo, Ardeas e Anteias (17), Ma ammettiamo pure che i figli elencati da Esiodo siano quelli giusti, vediamo a chi corrispondono: AGRIO;  c'è chi dice che sarebbe stato male interpretato(18) ,ma c'è anche chi ha letto Adrio, (19) ebbene in tal caso,  avrebbero ragione Teoponto ed Eudosso nel considerare  Adrio discendente di Odisseo, sia come fondatore di Adria che come colui che avrebbe dato il nome all'Adriatico,(2O) LATINO; Oltre al Latino ricordato in questo passo risultano altri quattro personaggi vissuti in tale epoca con quel nome:  un Latino che Odisseo avrebbe avuto con Calipso,Apollodoro (Epit 7,24), un Latino che accoglie Enea (voce Latino in EN ,Virg), un Latino figlio di Eracle con  una ragazza iperborea Dion Alic (1,43) e un Latino ancora figlio di Eracle, ma avuto con la figlia di un Re Aborigeno(22). Non è facile capire di quale Latino si intenda, in verità dovrebbe trattarsi di un Re che ha avuto a che fare molto con gli Etruschi, ebbene il Pallottino, sulla cui autorità in materia non occorre soffermarsi, afferma che il Latino ricordato da Esiodo non era il Re dei Tirreni ma semplicemente un Re dei Latini(23). Ma ammettiamo pure che questo Re latino abbia avuto a che fare con gli Etruschi, rimane sempre il problema, oltre alla individuazione corretta, se all'epoca  i Latini erano già stanziati in loco. Purtroppo in materia le opinioni degli studiosi non sempre sono convergenti, c'è chi dice che questo popolo arrivato dal nord insieme ai Siculi si sarebbero stanziati in Adriatico(24) non a caso i Protolatini  sarebbero arrivati nel Lazio dopo essere stati per molto tempo nella Daunia(25), ISOLE SACRE IN UN LONTANO GOLFO: Già abbiamo sottolineato la indeterminatezza geografica di questi due termini, c'è chi ha provato a darne  una localizzazione, proponendo la Sicilia, Sardegna e Corsica(26)  ma non ha trovato seguaci, se proprio volessimo ubicarle in qualche luogo  cercando un eventuale ricordo nelle fonti antiche, dovremmo nominare le isole Elettridi che, come abbiamo già visto, si trovavano in Adriatico nella Foce del Po e spesso ricordate come isole sacre ad Artemide e per l'ambra, (27) in tal caso troverebbero una giusta ubicazione in un “lontano” cioè in alto Adriatico; tale area era in antico dai Greci considerato un “golfo” e non un mare (27a).  TIRRENI (28), Abbiamo già messo in evidenza l'indeterminatezza anche di questo termine, per  molti scrittori antichi  fra cui Tucidide), IV 1O9) Mirsilo di Lesbo apud Dion Alic (1,23), Sofocle e lo stesso Esiodo (29) i Tirreni venivano spesso identificati  con i Pelasgi (3O). Per il De Palma,  in antico, almeno per un certo periodo i Greci chiamavano Tirreni quasi tutti i popoli Italiani (Latini, Umbri, Ausoni ecc) (31). Ma al riguardo è significativo il passo di Stefano Bizantino                                                                                          "La Tirrenia trae il nome da Tirreno                                                                                            ed è posta  presso l'Adriatico"(32).

Al seguito di questa "analisi logica", ammesso che non vi siano altri elementi che mi sfuggono, la "Tirrenicità" di questo passo non mi sembra poi cosi sicura, mi conforta il constatare che di questo parere lo sia stato anche un antico commentatore di Esiodo(33) questi cosi si espresse al riguardo:  "Odisseo ed i suoi figli  avevano regnato sulle Isole Elettridi"


Considerato che il Mastrocinque riporta spesso il sopra accennato passo, fa pensare che anche per Lui  il passo di Esiodo non trovi una sicura localizzazione in Tirreno. Vediamo le altre tracce di Odisseo in Adriatico. Abbiamo già fatto presente la quasi unanime identificazione di Odisseo con Nanas, perciò un "approdo" o un semplice "passaggio" di Odisseo in Adriatico deve esserci stato,  non dimentichiamoci che come vide bene il Wilamowtiz(34), in una Odissea precedente alla nostra era scritto che Odisseo, Tracio di nascita, era arrivato in Italia via terra, perciò attraverso l'arco Alto Adriatico . La presenza di Odisseo in Adriatico,di permanenza o di semplici tappe, è documentata da varie fonti antiche: lo Ps Scilace (35) descrivendo le coste Adriatiche ricorda l'isola di Calipso ove l'eroe visse alcuni anni, l'ambientazione di tale isola in Adriatico è pure confermata da Plinio (III 96) da Tucidide (I-25) e da Apollodoro (epit 7-17): Una presenza di Odisseo in Adriatico,seppur solo come semplice passaggio, ce la documenta Strabone, dice infatti il grande geografo che Odisseo dopo un approdo in una località Adriatica passa da Felsina per andare a Cortona(36), come pure è documentato un suo sbarco in una località della Daunia.(36a) ENEA  IN ADRIATICO. Tralasciando di commentare le testimonianze antiche al riguardo della fine di Enea (37)  e limitandoci a sottolineare le riserve degli storici antichi e moderni al riguardo della sua presenza nel Lazio (38), soffermiamoci su una "sicura" ed antica testimonianza sulla sua presenza in Adriatico, dalla quale sono scaturite le azzardate ipotesi brevemente accennate nel sunto iniziale del presente articolo. Nei manoscritti dello Ps Aristotele, ignoto autore di una raccolta di "Cose Mirabili", vissuto probabilmente in Grecia fra il terzo ed il secondo secolo A.C.,era scritto  al cap 79  che  Enea Re di una isola dell'arcipelago delle Tremiti, aveva ucciso Diomede l'eroe greco che al seguito di peregrinazioni  era colà approdato. Arbitrariamente alcuni studiosi guidati dal filologo tedesco Ulrich von Wilamowitz, hanno  sostituito Enea con Dauno (39). Sarebbe interessante conoscere le motivazioni che hanno indotto gli studiosi a commettere tale arbitrio. Per quanto ne so questa sarebbe l'unica testimonianza "diretta" della presenza di Enea in Adriatico, vi sarebbe pure quella tramandateci da un certo Riccobaldo da Ferrara, concernente la presenza di Enea in vari luoghi della valle Padana; (4O) ma questo cronista del XV secolo è da tutti considerato "non degno di fede". Esistono invece tracce indirette di  possibili  presenze dell'eroe Troiano nel nostro mare: tutti i commentatori della Eneide (41) concordano che la struttura dell'opera di Virgilio riposa su una certezza: che Enea ha percorso a ritroso da Troia verso l'Italia il tragitto compiuto dal suo avo Dardano che dall'Italia, precisamente da Cortona, andò nella Troade. Se veramente Enea ha effettuato a "ritroso" questo viaggio, considerato che Dardano fece il tragitto Cortona –Adriatico - Troade, (42) una sua presenza in Adriatico, seppur solo di passaggio, potrebbe esserci stata. Una profezia riportata da tutti gli scrittori che si sono interessati al tema "Enea", dice che ove l'eroe Troiano farà tappa nel corso della sua fuga , fonderà una città che darà il nome di Troia, (43) ebbene una Troia risulta in Veneto (43a), una nel Lazio ed una nella Daunia (44). I Dioscuri (45), a parere di molti studiosi sarebbero stati portati in Italia da Enea, ebbene anche questo potrebbe essere una traccia dell'eroe Troiano in quanto tale culto è documentatissimo in Alto Adriatico. Nello stemma di Bagnacavallo c'è un cavallo bianco con la scritta Cillaro, ebbene quel cavallo potrebbe significare che in loco si curavano i cavalli, ma potrebbe invece essere un ricordo dei Dioscuri cioè dei gemelli Castore e Polluce che insieme agli Argonauti sbarcarono in una isola Elettride sacra ad Artemide. Vuole una antica tradizione che Bagnacavallo sarebbe stata fondata sopra ad una di queste isole, il cavallo Cillaro, uno dei tanti cavalli di Polluce, più volte ricordato da Stesicoro, presente nello


stemma, potrebbe esserne una "prova". Interessante anche la presenza in loco del culto di Feronia , che come è noto è la corrispondente latina della greca Artemide. In loco è documentato anche il culto di Jupiter  considerato, insieme ai Dioscuri, protettore dei naviganti. Qualcuno potrebbe obiettare che in considerazione del fatto che in Adriatico è ambientato anche  il troiano Antenore (46), eventuali tracce "Troiane" potrebbero essere addebitate a lui o ad altri Troiani questo non si può escludere , ma ci sono delle buone ragioni  per distinguerle. Considerato che le uniche famiglie salvatesi dalla distruzione di Troia sarebbero quelle di Antenore  e di Enea(47) si deve perciò supporre che eventuali tracce "Troiane" in Adriatico, quando non possano essere attribuite ad Antenore (48), debbano essere attribuite ad Enea.  Di queste tracce ce ne sono molte, particolarmente nella Daunia, ma anche altrove. Il già ricordato Ps Aristotele al cap 1O9 ricorda la nota vicenda del fuoco delle navi da parte delle donne troiane(49), ma diversamente dalle altre testimonianze riguardanti tale vicenda, le navi non sarebbero quelle guidate da Enea ma sarebbero guidate da Diomede e le donne che bruciano le navi sarebbero troiane ma schiave, Al riguardo della genuinità di questo passo sussistono seri dubbi avvalorati dalla testimonianza di Licofrone (Alex 1126) il quale documenta in loco  sia il culto della Cassandra (50), la nota  profetessa troiana, sia il culto di Atena Iliaca cioè la dea troiana raffigurata nel Palladio(51); ebbene questi elementi fanno pensare che anche questo passo possa essere stato  "arbitrariamente " manipolato  per meglio adattarlo  all'altro passo dello Ps Aristotele  (cap 79) ove il protagonista era sicuramente Enea che, come abbiamo detto, fu sostituito con Dauno. Se queste mie supposizioni sono esatte, il passo deve essere letto diversamente:                      le navi erano guidate da                      Enea e conseguentemente                      le donne non erano schiave.

Aggiungo anche un'altra traccia " troiana" che se giusta ci riguarda da vicino: il dio delle acque Tiberino, dio favorevole ai troiani, culto portato nel Lazio da Enea, oltre ad aver dato il nome al Tevere  potrebbe avere dato anche il nome al nostro Senio, infatti  in antico il suo nome era Tiberiacum (52). Anche le tracce Dardaniche in Adriatico potrebbero essere collegate con una probabile presenza di Enea nel nostro mare.  Mi rendo perfettamente conto della "debolezza" di questa ipotesi, ma essendone  personalmente convinto  riporto, seppur con le dovute riserve e cautele, alcune di queste tracce. Enea era detto "il Dardano"  in quanto faceva parte di detta stirpe, non a caso la profezia di Poseidone(53)  dice che Enea doveva salvarsi dalla distruzione di Troia in quanto in caso contrario la stirpe di Dardano si sarebbe  estinta(54). Spesso in antico “Troiani” significava “Cardani” o viceversa; per esempio i Romani, desiderosi di definirsi Troiani, dicevano di sé stessi “Dardanium” (54a). Dardano (55) è ben ambientato nel nostro mare; la Daunia era chiamata "provincia Dardensis"(56), e vi era una città chiamata Dardano(57), tracce evidenti non sono solo in basso Adriatico ma anche nel  Veneto, lo scrittore romano Claudiano ricordando la Font Aponi (58) probabilmente Abano Terme, la dice "gloria della terra dei Dardani", un Longarus Re Dardanico, risulta ambientato in Veneto(59), Armonia, sorella di Dardano sarebbe sepolta a Pola(6O).: Non è possibile ricordare Dardano senza parlare di  Creta. Il già ricordato culto dei Dioscuri verrebbe da Creta, la separazione dei gruppi di sillabe con un punto nella lingua venetica sarebbe opera dei Cretesi, (62)  Dedalo artigiano cretese è ambientato nelle Isole Elettridi( Ps Aristotele cap 81)questo passo ci fa sapere che siccome


Dedalo "fugge" a causa dell'arrivo dei Pelasgi, che questi ultimi ed i Cretesi sono nemici.     Non è possibile parlare di Creta senza fare qualche riferimento ai Micenei(63)  ebbene vi sono in  Adriatico abbondanti tracce, specialmente archeologiche, della loro frequentazione, tracce non solo esistenti nel basso Adriatico ma anche in alto Adriatico: Frattesina Terme, Vasi di Torcello, ceramica micenea trovata in vari luoghi, come pure l'ambra "tipo Tirinto"  trovata anche nella Valle del Senio(64). Riassumendo: il mito di Odisseo, associato a quello degli Argonauti, potrebbe contenere "ricordi" di migrazioni o semplice frequentazioni di popolazioni "Pelasgiche"-Egeo Anatoliche ed Indoeuropee , e questo potrebbe spiegare la presenza dell'eroe greco in Scozia, Germania Portogallo e Bretagna. Il mito di Enea, sia in Adriatico che altrove, anche tralasciando l'ipotesi del collegamento Enea-Dardano, potrebbe  contenere "ricordi" di migrazioni o frequentazione dei Micenei, altronde questo è anche il parere di molti studiosi (65).   APPENDICE Arrivato alla fine  mi rendo conto, considerati i miei "mezzi" - ho solo la licenza elementare, di essermi "spinto" ben oltre a quelle che sono le mie reali possibilità, ma tante sarebbero a mio parere le cose da dire al riguardo di questo troppo trascurato mare, che mi sono "lasciato andare", con tutte le conseguenze che  ne sono derivate, Chissà quante cose avrei potuto dire se avessi potuto attingere nel pozzo di notizie che è la Reale Inciclopedia  Pauly-Wissowa, chissà quanti spunti avrei trovato  nella sterminata bibliografia estera.Roscher, Jacoby, Briquel,  Beaumont,  Beloch,  Bethe,Weinstock, Heugon, Rossbach, Gagè, Stoll, Perret,, Horsfall, Galinsky,West,Gruppe,ecc. Aggiungo un altro "chissà", chissà  quante notizie "storiche" si potranno apprendere studiando a fondo i numerosissimi miti ambientati in Alto Adriatico: Eridano Iperborei, Ercole, Argonauti, Dedalo, Cadmo, ecc, speriamo che qualche qualificato  studioso  dia un contributo per una maggior conoscenza di questo mare.


NOTE *Si tratta di un articolo estratto da un libro che sto scrivendo, con taglio divulgativo, che ben presto darò alle stampe, dal titolo "Popoli e miti ambientati in area romagnola ed alto-adriatica dal XIII all’XI secolo a.C.” (1) Nel periodo a cui ci riferiamo ben difficilmente  la tecnica navale permetteva  attraversamenti di mari, dice Pausania che prima della guerra di Troia,  i lunghi viaggi erano effettuati  solo per via terra oppure  con navigazione di piccolo cabotaggio perciò per andare nel Tirreno venivano a volte  costeggiate sia le coste Adriatiche che quelle Ioniche, dice Strabone che in antico non si affrontava l'alto mare, occorre anche tener presente che  l'Adriatico è stato conosciuto dagli antichi prima del Tirreno. cifr Pareti Omero e la realtà storica 1979 pag 78, Strabone 1-3,2 . La presenza micenea in Sardegna già documentata archeologicamente nel 13^ secolo a.C. dimostra che questo popolo, diversamente da quelli Egeo-Anatolici, disponeva di una tecnica navale che gli permetteva di arrivare in Italia senza dover fare il periplo adriatico; potevano infatti effettuare il tragitto Grecia- Illiria – Puglia – Stretto di Messina – Sardegna, se non addirittura arrivare il Italia dalle coste africane. (2)  Non si può escludere che si tratti  del tragitto terrestre  segnalato  nel periplo dello PS Scilace  che, in tre giorni di viaggio, da Spina era possibile raggiungere Pisa .  Questo tragitto potrebbe essere confermato dagli abitati  preistorici esistenti  ai lati della via Lunga, una antichissima strada che  dalla valle del Senio  arrivava  nelle valli Spinetiche cifr Sgubbi “Il territorio Solarolese dalla più remota antichità all'anno mille”, uscito a dispense nel Confronto  periodico del PPI sezione di Solarolo (1992), e dall'ambra "Tipo Tirinto" 


rinvenuta  nel Monte Battaglia  alta valle del Senio. cifr Catarsi Storia di Bellaria 1993 pag 43. Una comoda rotta marittima consisteva in navigazione di cabotaggio lungo le coste  Dalmate in quanto favorevoli correnti marine portavano verso l'Istria  cifr Scuccimarra ;l'Adriatico dei greci in Storia di Ravenna 1990. (3) Non conoscendo alcuna lingua estera,eccetto qualche riga che mi sono fatto tradurre,non mi è stato possibile usufruire della sterminata bibliografia  straniera, si tratta di un vistoso handicap sulla cui consistenza non sono in grado di darne una reale valutazione. Non ho ritenuto opportuno entrare nel merito dei problemi riguardanti le motivazioni, i periodi e da chi questi miti sono stati portati in Occidente in quanto, a mio parere, non possono portare alcun contributo alla conoscenza di eventuali migrazioni avvenute nel II millennio a.C. che è poi lo scopo primario delle mie ricerche. (4) L'alto Adriatico  si distingue  dagli altri mari italiani  per una particolarità, uso le parole del Braccasi "come è avarissima  la documentazione letteraria di una frequentazione greca nell'età della colonizzazione , è ricchissima la memoria di tradizioni leggendarie  che ci rimandano al periodo della precolonizzazione", Braccesi  Indizi per una frequentazione Micenea nell'Adriatico in "Momenti  precoloniali  nel Mediterraneo  Antico1985.            (5) La  presenza di tutti questi "miti" potrebbe essere una conferma  di questi antichissimi  passaggi di popoli o di isolati navigatori, passaggi terminati allorquando la tecnica navale ha permesso gli attraversamenti marini.Non tutti gli avvenimenti accaduti nei secoli 13° e 12° a.C., che come detto interessarono tutte le nazioni che si affacciavano sul Mediterraneo, sono ricordati dai miti o dalle testimonianze antiche, alcuni di questi si conoscono al seguito di indirette testimonianze, ne ricordiamo alcune : quando i coloni greci arrivarono nella Magna Grecia furono sorpresi  dal constatare che quelle popolazioni che già vi abitavano, conoscevano la loro lingua, divinavano i loro dei, conoscevano alcuni dei loro racconti di eroi. Quando il console romano Mario affrontò i Cimbri nel 1O1 A,C,  nei pressi di Ferrara, rimase sorpreso nel constatare ,lo riferisce Plutarco , che l'urlo dei soldati Liguri e l'urlo dei Cimbri erano identici; questi due avvenimenti, ma se ne potrebbero portare altri, ci dicono, anche se questo non è riportato da nessuno storico antico, che queste popolazioni  provengono da una stessa zona. Sicuramente  nel corso degli sconvolgimenti sopraddetti accadde di tutto, crollo di imperi, invasioni, migrazioni che crearono altre migrazioni, , anche gli avvenimenti biblici accaddero in tale periodo: si tratta di avvenimenti confusi ma interessantissimi. In  quel periodo  occorre cercare le radici delle civiltà italiane, Umbri, Dauni, Etruschi,ecc, questa è una delle ragioni  per cui occorre indagare nei miti, . (6) Vanotti  De Mirabilibus Auscultationibus  1997   commento al cap 79. (7)Ampolo   La ricezione  dei miti greci nel Lazio: l'esempio  di Elpenore e di Ulisse  al Circeo  PP 1994.Eratostene dice che Esiodo è il primo autore che ricorda la Circe in Italia, ma non dice se in Tirreno o in Adriatico cif Strabone I,23. Prima di essere definitivamente trasferita nel Circeo, la Circe  si è trovata per un certo periodo nella isola di  Pandataria, cifr Capovilla La Tradizione Greca  e il Problema  degli Ambrontas-Ligyes 1953  pag 26O, ma ancora prima era nella Colchide (Mar Nero) poi, come dice Apollonio Rodio ( Argonautiche III 31O ) fu trasportata in Campania, qualcuno, non convinto della sede Campana , in quanto le testimonianze dicono chiaramente che era in un luogo diverso, si è chiesto la ragione per cui tutti la dicono "Tirrenica" questi è  il Terzaghi  Il miraggio dell’Odissea in Atene e Roma 19O7, ebbene, lui stesso si dà la risposta,"per forza!! Odisseo  viene considerato sempre e solo in Tirreno, conseguentemente viene ambientata in tale mare anche la Circe!!".  Per l'anonimo autore delle Argonautiche Orfeiche (12O5), la sede della Circe era nei pressi di Gibilterra. (8)Manfredi Braccesi Mare Greco  1992 pag 54. (9)Graves I miti greci 1995 pag 559 (1O) Giannelli culti e miti della Magna Grecia  1963 pag 98 (11) Delle peregrinazioni di Ulisse fuori del Mediterraneo, già ne discutevano Aristarco e Cratete cif Manfredi Braccesi Mare Greco 1992  pag 199, Portogallo per Pomponio Mela,


Plinio e Marziano Capella, Germania per Tacito, Scozia per Solino, Bretagna per Procopio da Cesarea, Plutarco e Claudiano. (12)  Esperia  significava "terra del tramonto" cifr Mastrocinque Ambra ed Eridano, 1991, pag 29. A volte vengono riportati  anche altri passi antichi, in  particolare  quello di Eugammone di Cirene,  ove  Telegono uccide suo padre  Ulisse  ad Itaca, poi porta il corpo in Etruria cif Manfredi Braccesi Mare Greco 1992 pag 92. (13)Colonna Gli Etruschi della Romagna Atti Romagna Protostorica  1987  pag 43 . Il nome Nanas è pure segnalato in  Frigia, Pisidia e in Licia , questo per dire che è un nome di persona e non come qualcuno propone  "un nano", (14)Braccesi Greicità di Frontiera 1994 pag 55 ; Magnani  I percorsi mitici nell'Adriatico  e il problema delle origini di Ravenna in Ravenna Studi e Ricerche 1998 pag 186.  (14a)Licofrone Alex 8O5-8O6, Braccesi Cortona e la leggenda di Ulisse  in Assisi e gli Umbri nell'antichità 1991, pure Aristotele sapeva di una sepoltura di Odisseo a Cortona cif Ciaceri Alex  commento passo 8O6, Capovilla L'inquadramento  Mediterraneo dei nomi  Pisa-Teuta in RIL 195O pag 3O2.  (14b) Riconoscere l’esistenza di Odisseo in Adriatico significa di fatto “smentire” il passo di Esiodo; forse è per evitare questo che gli studiosi moderni ricorrono a tale esagerata “titubanza”. (15)Braccesi Letteratura dei Nostoi e colonizzazione greca , in Atti Magna Grecia 1996 pag 83,  se si dà uno sguardo agli  scritti  ove si discute questo passo troveremo spesso questi termini: "vaghezza".  "indeterminatezza" "non degno di fede" anche perchè di fatto la Teogonia finiva al cap 965, perciò è chiaro che  il passo è stato aggiunto, magari da una altra mano, non a caso qualcuno lo chiama passo dello Ps Esiodo. Per il commento di tale passo vedere Portulas ;Una geografia dei limiti nell'immaginario dei Greci, in Kokalos XXXIX 1993,  con interventi di Mele e di Braccesi Dice il Mastrocinque ,Romolo e la fondazione di Roma 1993 pag 175, che quel passo non può essere di Esiodo  in quanto ben difficilmente poteva essere a conoscenza dei progenitori delle stirpi italiche. Il  soprannominato Portulas , rispondendo alla troppa " fiducia " del Braccesi, fa presente che a parere di Tucidide, Esiodo  "raccontava balle", (16) Zevi Sulla leggenda di Enea in Italia in Gli etruschi  e Roma  1981 pag 155 (17)Vi sono pure  i figli che Odisseo ha avuto con Calipso. (18) Durante  Note critiche e filologiche  in PP VI 1951 pag 216 (19)Cinti Dizionario Mitilogico 1998 pag 73. (2O)Briquel: Spina condita a Diomede in PP  1987 e Mastrocinque  Greci ed Illiri  al tempo di Dionisio di Siracusa in Aloni Dall'Indo al Thule  1996.pag 359 (22) Grimal Mitologia voce Latino. Per Igino (fab 127) il Latino capostipite dei Latini sarebbe figlio di Circe e Telemaco. (23)Pallottino  Storia primitiva di Roma 1993 pag 366. (24)Enciclopedia universale Larousse pag 622 (25)Capovilla Colchica  Adriatica Parerga  RIL 1957 pag 6.Devoto Gli antichi italici, 1967,  pag 35, 36, 48; Ronconi Da Omero a Dante 1981 (26) De Palma  La Tirrenia Antica 1983  pg 8 (27)Apollonio Rodio  le Argonautiche  4-5O4.,Per il Mastrocinque , Culti Pagani  nell'Italia Settentrionale  1994 pag 116 ,queste isole "sacre"  si trovavano in Adriatico. (27a) Grilli, L’arco adriatico fra preistoria e leggenda, in AAA 1991. (28)  Mi rendo conto che  parlando dei "Tirreni"  non si può sottacere il complesso  problema delle origini etrusche, o meglio come si dice ora  "origini e provenienza degli influssi che hanno  contribuito alla formazione della civiltà Etrusca." Mi limito solo a far presente  che il famoso passo di Erodoto  (1-94) non dice ove esattamente sono sbarcati questi Tirreni provenienti dalla Lidia, dice solo "nel paese degli Umbri", ma successivamente Erodoto (IV 49) precisa cosa intende per "Umbri", un popolo  settentrionale, perciò "Padano".


(29)Biancardi  I Pelasgi: nome etnografia, cronologia in SCO 1O 1961cifr Nava Appunto per il controllo con dati archeologici  della tradizione mitografica Alto Adriatica  inPds 1972, Anticlide  apud Strabone  V 2,4, (Plutarco rom 11,3.)  (3O) Niebur  Storia Romana 1831 pag 52 (31) De Palma La Tirrenia Antica 1983 pag 181, (32)Coppola  Adria e la tradizione siracusana in Pds 1991, idem  che erano detti Tirreni   anche gli abitanti di Adria, Dice Dionisio di Alicarnasso 1-25,5 che per Tirrenia si intendeva la parte occidentale dell’Italia;  per Licofrone era Tirreno anche lo stretto di Messina cifr Capovilla , Per l'inquadramento  Mediterraneo dei nomi Pisa-Teuta Ril 1959 pag 291. (33)Mastrocinque Appunti sulla storia di Spina, in Spina e il Delta Padano  1994. (34) Pavan Studi Ungheresi  4 1989  (35)Peretti, Teoponto e Ps Scilace in SCO 1963 (36) D'Aversa L'Etruria  e gli Etruschi  negli autori classici  1995 pag 29 (36b)Cogrossi Atena Iliaca ed il culto degli dei in CISA 1982   pag 97  (37) Per molti Enea sarebbe rimasto  nella Troade o nelle vicinanze, Bertolini  Storia antica d'Italia 186O Pag 5. Vanotti l'altro Enea 1995 pag 143                          (38)Per Strabone Enea non è mai andato nel Lazio cif Vanotti L'altro Enea  1995 pag 9O. Sarebbe una forzatura di Virgilio , il viaggio di Enea nel Lazio  cif Della Corte la Mappa della Eneide, 1972,  pag 197. (39) Vanotti  De Mirabilibus Auscultationibus 1997 commento al passo  79, (4O) Enc Virg  Leggenda di Enea. Probabilmente il Riccobaldo si riferiva alla presenza di Enea in Val Padana, alla ricerca di alleati per la guerra contro Turno, alla quale aderirono Lombardi, Veneti ed Emiliani. (41) Si veda per tutti: Colonna , Virgilio Cortona e la leggenda Etrusca di Dardano Arc. Class. 32 198O. (42) Molti lo propongono  in quanto avrebbe fatto a ritroso  il viaggio fatto dai Pelasgi.cifr Braccesi Coppola  I greci descrivono Pisa in Spina Storia di una città trà Greci ed Etruschi 1993 . Braccesi  Greicita di Frontiera 1994 pag 53.A parere del Capovilla , Convergenze Italiche in Archivio  per l'Alto Adige 196O pag 77, quando Enea arrivò in Etruria, passo di Licofrone (alex  124O), prima di arrivare a Pisa, arrivò alle acque termali che si trovavano in una collina, questo  significa che può non avere usato un tragitto marittimo ma  terrestre, cioè valle Senio- valle Arno. (43)Vanotti L'altro Enea pag 164; Musti Una città simile a Troia in Strabone e la Magna Grecia 1994. (43a) Per il Musti, Opera cit. nota 7, pag.99, cotesto toponimo in area veneta si dovrebbe riferire allo sbarco di Enea. (44)Vannucci  Storia della Italia Antica 1873 pag 356 (45)Mastrocinque L'ambra e l'Eridano 1991 pag  36; Carratelli  Achei nell'Etruria e nel Lazio? Scritti  sul mondo antico 1966 (46)Braccesi La leggenda di Antenore 1984 (47)Scuderi , Il tradimento di Antenore in  I canali della propaganda nel mondo antico 1976 pag 43 (48) Come è noto Antenore è ambientato in Veneto, e in Iugoslavia; ma c’è anche chi mette in discussione la sua presenza in Adriatico: Gitti, Op. Cit. nota 27a. (49) Ps Aristotele  Vanotti De  Mirabilibus Auscultationibus   pag 51, Dice la Coppola,  Aspetti della leggenda troiana in occidente, in Archeologia e Propaganda1995 pag 16, che l'incendio  delle  navi in Daunia potrebbe essere stato attribuito a Diomede  in quanto  in loco non era ambientato  alcun eroe Troiano,. Occorre prendere atto che l'aver levato Enea nel passo dello Ps Aristotele  ,ha creato non pochi "problemi", oltre a quello  riportato dalla Coppola, si può aggiungere quello riportato dalla  Pasqualini; Le tradizioni leggendarie sulla fondazione di Lanuvio in MEFRA 1998, che per giustificare il grande culto tributato ad Atena Iliaca ed a


Cassandra  a Lucera (Daunia),  si è dovuto  "pensare" a  un "bottino sottratto al nemico" pag 668 nota 41: Tutte queste ipotesi “discutibili” cadrebbero  da sole se si rimettesse la" voce " Enea nello Ps Aristotele passo 79. Il voler ad  ogni costo  addebitare  a Diomede i vari culti  troiani  ambientati in Daunia, significa non  voler tenere conto che  Diomede  è collegato a Era Argiva e non a Atena Iliaca. Che effettivamente in antico  nei manoscritti dello Ps Aristotele vi fosse Enea lo si sa da una circostanza: quando il Ciaceri traduceva l'Alessandra di Licofrone (19O1) ,  fra  le fonti antiche che ha riportato, al riguardo della presenza di Enea in Daunia , riporta pure  lo Ps Aristotele cap 79. Pure il Gruppe in un suo lavoro del 1906 (Griechische Mythologie und Religionsgeschiche) pag. 364 riporta una leggenda pugliese ove Diomede sarebbe stato ucciso alle spalle da Enea. Il Riconoscere l’effettiva presenza di Enea in quelle zone darebbe credibilità alla testimonianza del Ditti secondo il quale l’Eroe avrebbe fondato la cittadini di Corcira Melaina nell’omonima isola (Scuderi, op. cit. nota 47, pag.46). (5O) Berard La Magna Grecia 1963 pag 353; Giaceri, l'Alessandra di Licofrone, commento al passo126  (51)Il Palladio era un emblema con l’effige di Atena Iliaca; la città che lo deteneva diventava imprendibile ed immortale. Ove Enea sbarcava  veniva sempre eretto un tempio ad Atena Iliaca cifr Ciaceri com passo 1254. (52)Il toponimo Tiberiaco ,Tiberino,  è documentato lungo la vallata del Senio: Bagnacavallo si chiamava  Castrum Tiberiacum,  nei suoi pressi vi era il fondo Tiberino, nell'Alta valle del Senio  vi era la Pieve di Santa Maria in Tiberiaco, e nella media valle ,la grotta del re Tiberi. Molto probabilmente  questi nomi derivano  dal re troiano Tiberino e non come molti propongono, da  Tiberio  imperatore romano o dal suo omonimo  imperatore Bizantino. Occorre pure tener presente che il primitivo nome del Tevere era Spino, ebbene Spino  come abbiamo detto era il fiume in cui sbarcarono i Pelasgi. Dice il Veggiani che lo Spinete era formato da un fiume che arrivava dagli Appennini, forse il Vatreno, che poi diede il nome alla foce Vatrenica. Se diamo uno sguardo  alla idrografia padana ci renderemo conto che questo Spino può corrispondere benissimo ad un corso di acqua formato dal Senio, dal Santerno e forse dal Lamone, Perciò  il "problema" Tevere, Senio, Spino, Spinete, Tiberiaco, meriterebbe di essere approfondito. Come pure occorre approfondire il collegamento  Tiberino Yupiter  esistente anche questo a Bagnacavallo. (53) Graves Miti Greci  1983 pag 612 (54) Braccesi  Letteratura dei nostoi e colonizzazione greca  in Magna Grecia  1996 pag 87. (55) I Dardani, di cui Dardano sarebbe il progenitore, sono ricordati per la prima volta nelle iscrizioni egiziane di Medinet Habu (Pallottino, Etruscologia, 1990, pag. 95). Per la genealogia di Dardano, vedere Enciclopedia Reale Pauly-Wissowa, voce Dardani, pag.2160. (56) Berard  La Magna Grecia pag 375     .   (57) Berard Magna La Magna Grecia pag 353, In antico per Daunia si intendeva una area fra il Gargano e gli Umbri, perciò un buon tratto dell'Italia centrale gravitante sull'Adriatico cif En. Virg pag 1OO3.. (58)  Braccesi  La leggenda di Antenore  1984 pag  27. (59) Capovilla Colchica  Adriatica  Parerga  in RIL  1957 pag 783, (6O) Capovilla  La tradizione greca ed il problema  degli  Ambrontas-Ligyes in MAL 1953  pag 246.Dice Arctino che il Palladio lo aveva portato Dardano cifr Vanotti l'Altro Enea pag 234. 61) Castagnoli La leggenda di Enea nel Lazio Studi Romani XXX, Il culto del cavallo era usanza Micenea, cifr Braccesi  Indizi di freguentazione  ecc pag 144 .                (62) Kerenki Dei ed eroi greci 1972 (63) Che i micenei occupavano  Creta  non occorre riportare fonti. (64) Nella alta valle del Senio in località Monte Battaglia è stata trovata tale tipo di Ambra cif Catarsi  Dell'Aglio in Storia di Bellaria, 1993, pag  44. (65) Fra le indagini da fare al riguardo dei Micenei: il matriarcato romagnolo deriva forse da loro? L'affermazione dello Ps Aristotele che Dedalo  aveva "il potere" nelle isole Elettridi,


significa forse che i Micenei o addirittura i Minoici "comandavano" in quelle zone? In tal caso occorre  pensare a qualcosa di più di un semplice commercio? Forse gli Illiri sono dei Micenei? In tal caso Illirio figlio di Cadmo fondatore di Adria, può essere anche lui considerato un miceneo? Quanti altri collegamenti si possono fare?, Senza alcun dubbio la  preistoria dell'Alto Adriatico è ancora da scrivere!! magari, dopo una attenta indagine, ci renderemo conto che la sua "storia" era già stata scritta dagli autori greci, ma non se ne è tenuto conto in quanto si è pensato che fossero tutte " favole".

Per saperne di più Effettuando alcune campagne di scavo nell’area preistorica solarolese è possibile aprire una “finestra” nella protostoria romagnola.

ALTRA BIBLIOGRAFIA IN ARGOMENTO AAVV Enea nel Lazio, Archeologia e Mito, 1981 Ampolo  Enea  e Ulisse nel Lazio  da Ellanico a Festo  in PP 1992 Arrighetti Cosmologia mitica di Omero e Esiodo  in SCO  1966 Arrighetti Esiodo 1998 Antonelli  Sulle navi degli Eubei: Immaginario mitico e traffici di età arcaica  in Esperia 5 1995 Bosi I Greci dal Ponto all’Adriatico, Studi Storici, 1973 Braccesi Greicità Adriatica 1977 ,con moltissima bibliografia  Braccesi Coppola  I Greci e l'Adriatico in Prontera la Magna Grecia ed il Mare 1996 Carandini  La nascita di Roma 1997 , con moltissima bibliografia Castagnoli  Lazio arcaico e mondo greco PP 1977 idem  La leggenda di Enea nel Lazio Studi Romani XXX Capovilla  Saggio di  Geografia linguistica e mitica protostorica in Atti Istituto Veneto  di scienze1963 idem Praehomerica et Praeitalica  1964 idem  L'Odissea  e problemi sull'estremo occidente  in RIL 1958 idem Studi di Geolinguistica e Protostoria  Italica in Aevum  1957 idem Introduzione Miceneo-Italica  RIL 196O Cerrato ,Sofocle,Cimone,,Antenore e i Veneti in Athenaeum 1985 Colonna , I Greci di Adria in rivista storica dell'antichità  1974 idem Pelagosa ,Diomede, e le rotte dell'Adriatico in Arc Class 1999 Coppola Siracusa e il Diomede  Adriatico in Prometeus 1988 D'Anna  Il mito di Enea nella documentazione letteraria in Atti Magna Grecia 1979 Del Ponte, Dèi e Miti Italici, 1988 De Palma La Magna Grecia, 1990 De Simone, Il nome del Tevere, Studi Etruschi, 1975 Di Benedetto  Nel laboratorio di Omero 1994 Ferri Il problema di Ravenna Preromana in Opuscola SCO 1962 Ferri  La funzione dell'Adriatico  nel movimento  migratorio della protostoria in AAA 1977 Funaroli  La figura di Enea in Virgilio Atene e Roma  1941 Gabba  Mirsilo di Mitimma ,Dionigi  e i Tirreni in RAL 1975 Giardina  l'Identità incompiuta dell'Italia Romana in Atti conv  Italie d'Auguste a Diocletien 1992 Gitti, Sulla colonizzazione greca nell’alto e medio Adriatico, PP, 1952 Guglielmi Sulla navigazione in  età micenea PP 1971 Lazzaro, Fons Aponi: Abano e Montegrotto nell’antichità, 1981 Luppino i Pelasgi e la propaganda politica  del V secolo A.C. in CISA 1972 Mazzarino  Il pensiero storico classico  1966 Mastrocinque  Romolo e la fondazione di Roma 1993


idem Da Cnido a Corcira  Melaina  1988 idem Santuari  e divinità dei Paleoveneti 1987 idem La fondazione di Adria in Antichità delle Venezie  199O Medas, La navigazione adriatica nella prima età del ferro, in Genti e Civiltà, 1996 Nava Appunto per un controllo  con dati archeologici della tradizione mitografica alto Adriatica in Pds1972 Ostenberg Luni nel Mignone e problemi di preistoria d'Italia 1967 Pais Storia della Sicilia e della Magna Grecia 1894  Pallottino  Storia della prima Italia 1994 Palmer, Minoici e Micenei, 1969 Paratore  La leggenda Apula di Diomede in Archivio Storico Pugliese 1953 Pasquali  l'Idea di Roma in Terze pagine stravaganti 1942 Patroni  Studi di mitologia Mediterranea ed Omerica 195O Peretti Eforo e Ps  Scilace SCO 1961 idem Il Periplo di Scilace 1979 Ronconi Per l'Onomastica antica dei mari in Studi italiani di filologia classica 1931 Scuderi  Il mito eneico  in età Augusta in Aevun 1978 Sordi, Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma, 1989 Stella Miti Greci dall'Ionio  all'Alto Adriatico  in AAA 1977 Susini  Yupiter Serenus ed altri dei in Epigrafica  33 1971 Susini, Il santuario di Ferocia e delle divinità salutari a Bagnacavallo, in Studi Romagnoli, 1960 Terrosi Zanco Gli Argonauti e la Protostoria in SCO 1957 idem Diomede Greco e Diomede  Italico in RAL 1965 Vagnetti, I Micenei in Italia, PP 1970 Vinci  Omero nel Baltico  1998 .


 










Alla ricerca del Tesoro di Spina  nel santuario greco di Delfi (Appunti protostorici sul Delta Padano e sulla Romagna)

Ai nipotini WIKTOR ed ERIK Con la speranza che lo studio della Cultura Classica diventi per loro “RAGIONE DI VITA”
…purtroppo quelli che scavano e non pubblicano i risultati delle loro scoperte,continuano a godere credito e non vengono considerati quello che invece sono cioè “Criminali Accademici”. Rhys Carpenter

ABBREVIAZIONI AA=Antichità Altoadriatiche;  AMAP=Atti e MemorieAccademia Pad ASAA=Annuario Scuola Archeologica Atene;  ASNSP= Atti Pisa BCH =Bullettin de Correspondence Hellènique ;   CISA= Contributi Istituto Storia Antica: CCRB= Corsi di Cultura  sull’Arte Ravennate e Bizantina;  MEFRA = Melanges d’Archeologie de Ecole Francaise de Rome;   PP= Parola del Passato;  QUCC= Quaderni Urbinati di Cultura Classica;   RM= Mitteilungen des Deutschen Archaeologischen (Roma); RAL= Rendiconti Accademia dei Lincei;  RIL= Rendiconti Istituti Lombardi;  RFC=Rivista di Filologia Classica;   RSA=Rivista Storia della Antichità;  SCO=Studi Classici e Orientali; SE= Studi Etruschi. OPERE CONSULTATE - ALFIERI 1981= Strabone ed il delta del Po in” Padusa” - ALFIERI 1959= Spina e le nuove scoperte in” Spina e l’Etruria Padana” -ALFIERI 1959=Problemi di Spina in” Cisalpina” -ALFIERI 1988= Spina “polis Hellenis” in” La formazione della città preromana” -ANDRONICOS 1984= Delfi -AMANDRY 1988= A propos de Monuments de Delphes in «  BCH » -AMPOLO 1990= Storiografia Greca e presenze Egee in Italia in” PP” -ANDREOTTI 1956= Per una critica dell’ideologia  di  Alessandro Magno in  “Historia” -ANTONETTI 1997= il Dinamismo della colonizzazione greca -APOLONIO RODIO= Le Argonautiche -APOLLODORO= Biblioteca -ARGONAUTICHE ORFEICHE  -ARIAS 1945=  La Focide vista da Pausania -ASHERI 1996 =Identità Greca in” Settis”  -AURIGEMMA 1936= Il R . Museo di Spina  in” Ferrara” -BACCHIELLI 1983= Il tempio greco  sull’Acropoli di  Ancona in” Picus” -BALDONI  1989=   Dionisio si è fermato a Spina -BARATTA 1932 =Il sito di Spina in “Athenaeum”  -BARDETTI  1769=  Dei primi abitatori dell’Italia


-BEAUMONT 1936 =Greek Influence in the Adriatic Sea Before the Ivit Century B.C in” J.H.S” -BEARZOT 1989= Fenomeni naturali e prodigi nell’attacco celtico a Delfi in “CISA” -BECATTI  1954 =La Leggenda di Dedalo in “MR” -BERMOND MONTANARI 1986= Il popolamento pre  e protostorico  nell’area del Delta in” La civilta  comacchiese  e Pomposiana dalle origini   al medioevo” -BERARD 1963= La Magna Grecia -BERVE 1966= Storia Greca -BIANCARDI 1961= I Pelasgi :nome etnografia, cronologia in” SCO” -BIANCUCCI 1973= La via Iperborea in” Riv Fil Class” -BIETTI SESTIERI= 1975 Elementi di studio dell’abitato di Frattesina Terme in” Padusa” -BOARMAN 1986= I Greci sui mari -BOMMELAER 1991= Guide de Dephes Le Site -BRACCESI 1998= Ancora su Dedalo In “Atti Spina”
-BRACCESI 1977= Grecita Adriatica -BRACCESI 1988= Indizi  per una frequentazione micenea  dell’alto Adriatico in” Momenti precoloniali  nel Mediterraneo antico” -BRACCESI 1965=Lineamenti di storia greca dell’alto e medio Adriatico in” S R.” -BRACCESI 1994= Grecità di frontiera -BRACCESI –COPPOLA 1993= I Greci descrivono Spina in” Atti Spina” -BRACCESI COPPOLA 1993= I Greci e l’Adriatico in “  atti Spina” -BRACCESI 1996= Letteratura dei nostoi e colonizzazione greca in” M. Grecia” -BRAUDEL 1998 = Memorie del Mediterraneo -BRIGHI 2000=Le acque devono correre -BRIQUEL 1984= Les Pelasges en Italien -BRIQUEL 1987= Spina condita a Diomede in” PP “ -BRIQUEL 1994= Il mito degli  Iperborei da caput Adriae a Roma in” Atti Adria”  -BRIQUEL I988   Le città etrusche e Delfi (relazione tenuta  nel dicembre del I988 in occasione del VI convegno  della fondazione del museo Claudio Faina) -BRIQUEL 1986= Le fonti dei popoli del mare in” Cispadana e letteratura antica” -BURCKARDT 1955= Storia della civiltà Greca -BUNNENS 1985= I Filistei e le invasioni dei Popoli del mare -CAPOVILLA 1955= Eschilo, Eridanos Hiperborei in “RAL “ -CAPOVILLA 1957= Colchica –Adriatica  Parerga =CAPOVILLA 1960 =Introduzione  miceneo-Italica in” Ril” -CAPOVILLA  1953= La tradizione  Greca e il problema degli Ambrones- Ligyes in” RAL” -CAPOVILLA 1963= Saggio di geografia linguistica e mitica protostorica in” Atti  ist veneto di sc lettere ed arti” -CAPOVILLA 1958= Nuova interpretazione dell’etnico degli Aborigines in” Archivio alto Adige” -CAPOVILLA  1957= Studi  di Geolinguistica e protostoria italica in” Aevum” -CAPOVILLA 1964= Praeohomerica et praeitalica -CAPOVILLA 1960= Convergenze italiche in “Archivio per l’alto Adige” -CAPOVILLA 1951=    Studi sul Noricum  in “Miscellanea Galbiati” -CARLI 1785= Della spedizione degli Argonauti in Colco -CASSOLA 1975= Inni omerici -CASSOLA 1954= La leggenda di Anio  e la preistoria Delia in “PP” -CATARSI  DELL’AGLIO  I993 =Storia di  Bellaria -CIAMPI 1841=   La Grecia di Pausania -COLONNA I99I= Doni di Etruschi  e di altri barbari  occidentali in” I  Grandi santuari  della


Grecia e dell’occidente,” a cura di Mastrocinque   -COLONNA 1974= Ricerche  sugli Etruschi e sugli Umbri a nord degli Appennini in “SE” -COLONNA 1974=  I Greci di Adria in “RSA” -COLONNA 1984= Apollon, les Etruques et Lipara in” MEFRA” -COLONNA 1985= Santuari d’Etruria in” Catalogo mostra” -COLONNA 1987= Gli Etruschi della Romagna in “Romagna protostorica” -COLONNA 1989= Nuove prospettive  sulla storia etrusca tra Alalia e Cuma” Atti convegno” -COLONNA 1993= La società Spinetica e gli altri ethne in “Atti Spina” -COLONNA 1982= La Romagna fra Etruschi, Umbri e Pelasgi in”La Romagna fra il VI e il IV secolo a .C” -COPPOLA  1995= Arcaiologia e propaganda -COPPOLA  1990= Adria e la  tradizione siracusana in” Padusa”  -CORBATO 1993= Gli Argonauti in Adriatico in” Archeografo triestino”  -CORDANO 1989= Egineti ed Etruschi dall’Adriatico al Tirren in”Ann Macerata” -CRISTOFANI1983= Gli Etruschi del mare -CRISTOFANI  1993= Contributo per Spina in “Prospettiva”   -CRISTOFANI 1987= Saggi di storia etrusca  arcaica -CRISTOFANI 1975= Il dono in Etruria  nell’epoca arcaica in” PP” -DEFRADAS 1954= Les Themes  de la propagande  delphique -DEGRASSI 1971= Culti dell’Istria preromana in “Scritti  vari di antichità”  -DELCOURT 1955= L’oracolo di Delfi -DELLA SETA 1919= Erodoto ed Ellanico  sull’origine degli Etruschi in” RAL” -DE PALMA 1983= La Tirrenia antica -DEL PONTE 1999=  I Liguri -DIODORO SICULO=  Biblioteca storica. -DION 1976 = La notion d’Hyperborèèns ses vicissitudes au cours de l’Antiquitè in « Bullettin Budè » -DIONISIO DI ALICARNASSO= Antichità Romane -DINSMOOR  1912= Studies  of the delphian  treasuries  in” BCH” -DUMESIL  1977= La religione romana arcaica -ENCICLOPEDIA TRECCANI =voce Delfi. -ERODOTO = Storie  -FAURE 1985= Les Dioscure  a Delphes in L’antichite Classique -FELLETTI 1940= La cronologia della necropoli di Spina e la ceramica adriatica in” Atti Spina” -FERRETTI SPADAZZI I983= Spina senza vasi in” Storia di Comacchio 1” -FERRI 1959= Spina I, Spina II, Spina III in “Spina e l’Etruria padana” -FERRI  1960= Dodona in”EAA” -FERRI 1962 =Il problema di Ravenna preromana  in” SCO” -FERRI 1977= La funzione dell’Adriatico nel movimento migratorio della protostoria  in” Ant Altoadriatiche” -FERRI 1962 =Opuscola -FERRI 1968= Esigenze archeologiche VII in” SCO”  -FERRO 1973 =Considerazioni sull’origine di Adria in” AMAP” -FORREST 1957= Colonization and the rise  of Delphi  in” Istoria- - FOUILLE DE DELPHE  I e II volume” -FRAZER  1966=   Sulle tracce di Pausania -FUSCAGNI 1982= Il pianto ambrato  delle Eliadi, l’Eridano e la nuova stazione preistorica di Frattesina Terme  in” Qucc” -GABBA 1975= Mirsilo di Mitimma  Dionigi ed i Tirreni in “RAL “ -GIANGIULIO 1993 =  I grandi santuari della Grecia e l’occidente


-GILLES  1797= Storia della Grecia antica--------- -GITTI 1952= Sulla colonizzazione greca dell’alto Adriatico  in”PP” -GIUFFRIDA 1978= La pirateria etrusca fino alla battaglia di Cuma in” Kokalos” -GRACIOTTI 1998 = Homo Adriaticus -GRAF 1996= Gli dei e i loro santuari in”  Settis” -GRAS 1985= Trafics tyrrhèniens archaiques -GRAS 1996 =l’Occidente ed i suoi confini in” Settis” -GRAVES 1977= I miti greci -GRILLI in” Padusa “1975 = L’Eridano e le isole Elettridi   -GRILLI 1991= L’arco Adriatico fra preistoria e leggenda in” AA” -GRIMAL   1951= Dizionario di mitologia Greca -GUGLIELMI  197I= Sulla navigazione in eta micenea in” PP” -GULLETTA 1994= Eco di voci greche a Spina in “Studi offerti a Nenci” -GUZZO  1996 = Greci in val Padana in”Greci in occidente” -GUZZO 1996= Sulle tracce delle Elettridi in “RM” -HEURGON 1972= Il Mediterraneo occidentale dalla preistoria  a Roma -HERRMANN 1983= Altitalisches und etrusches in Olimpia in“ASAA“ -KARABATEA 2000 =Il museo Archeologico di Delfi -HOCKMANN 1988= La navigazione nel mondo antico -KERAMOPOULLOS 1909= Guide de Delphes -JACQUEMIN  1993 = Offrandes  monumentales a Delphes -LA COSTE  MESSELIERE 1969= Topografie delphiche in “BCH” -LA COSTE MESSALIERE 1946= Les alcmeonides  a Delphes in” BCH” -LA COSTE MESSALIERE 1936 = Au musee de Delphes -LA COSTE MESSALIERE 1943= Chapiteao  doriques de Delphes in” BCH” -LANZANI 1940= L’oracolo di Delfi -LAROCHE-NENNA 1991= Deux tresors archaiques  en poros a Delphes  in « Centenarie de la grand Fouille » -LATTES 1894= Due nuove iscrizioni preromane trovate  a Pesaro in” RAL”  -LAURENZI1962 Il problema di Spina  in “Hommages ad Albert Genie”   -LAURENZI 1958 Alla ricerca di Spina in il” Veltro” -LAZZARO 1981 Fons Aponi, Abano e Montegrotto  nell’antichità. -LEPORE 1962= Ricerche sul’antico Epiro -LEVEQUE 1996= Anfizioni  comunità concorsi e santuari panellenici in” Settis” -LICOFRONE =Alessandra -LOMBARDO 1972= La concezione degli antichi sul ruolo  degli oracoli  nella colonizzazione greca in ASNSP -LUPPINO 1972= I Pelasgi e la propaganda politica del V secolo  in” Con ISAUC” -MAGGIANI 1985= Pisa Spina e un passo controverso  di Scilace in” La Romagna tra il VI e il IV sec a.C”. -MAGNANI 1995= Dal Tirreno a Delfi in “Annali univ Ferrara” -MAGNANI 1998= I percorsi mitici nell’Adriatico e il problema di Ravenna -Preromana in “Rav studi e ricerche” -MALNATI-MANFREDI 1991= Gli  Etruschi in val Padana -MALNATI 1993= Le istituzioni  politiche e religiose a Spina e nell’Etruria Padana in “Atti Spina” -MANSUELLI 1970= Ravenna Sabinorum oppida in” CCRB” -MARAZZI 1985= Traffici minoici e micenei  d’oltremare in QUCC -MASTROCINQUE 1990= La fondazione di Adria in Antichità delle Venezie -MASTROCINQUE 1991= Ambra ed Eridano -MASTROCINQUE 1988= Da Cnido a Corcira Melaina


-MASTROCINQUE 1993= Artisti Sami in occidente in” I grandi santuari della Grecia e l’occidente” -MASTROCINQUE 1993= Appunti sulla storia di Spina in” Atti Spina”   -MAZZARINO 1970= Intorno  alla tradizione su Felsina “Princeps Etruriae” in “Studi sulla città antica” -MAZZARINO 1966= Il pensiero storico classico -MEDAS 1991= Elementi  di culture  orientali  in Adriatico  tra la fine del II e I  millennio AC.in Studi Romagnoli  -MEDAS 1996=La navigazione adriatica nella prima età del ferro in” Genti e civiltà” -MUSTI 1970= Tendenze sulla storiografia romana e greca  su Roma arcaica in”-Studi su Livio e Dionigi di Alicarnasso “QUCC” -MUSTI  1984= Una città simile a Troia  in “Strabone e la Magna Grecia” -NAVA 1972= Appunto  per un controllo  con dati archeologici della tradizione  mitografica  altoadriatica in “Padusa” -NEGRONI CATACCHIO 1975= Le vie dell’ambra ed i passi alpini in”AA I9”  -NIPPEL 1996= La costruzione “dell’altro”in “Settis” -OESTENBERG 1967=Luni sul Mignone e problemi della preistoria Italiana -OMERO= Iliade ed Odissea -PAIS  1916= Intorno alle genti degli Euganei  in” RAL” -PALLOTTINO= 1985 Proposte miraggi e perplessità nella ricostruzione della storia Etrusca  in “SE” -PALLOTTINO 1949= Erodoto Autoctonista? In”SE” -PALLOTTINO 1979= Saggi di antichità -PALLOTTINO 1984= Storia della prima Italia -PANCRAZZI 1982= Pisa,testimonianze di una rotta greco-arcaica in” PP” -PARETI 1918= Pelasgica in” RFIC” -PARETI 1961= La tradizione antica su Spina in Studi minori di storia antica -PATRONI 1950= Studi di mitologia Mediterranea ed Omerica -PAUSANIA = Descrizione della Grecia -PERETTI 1979= Il Periplo  di Scilace -PESTALOZZA 1957= Hera Pelasga in “SE “ -PLINIO =Istoria Naturalis. -PLUTARCO= Dialoghi delfici -PICCIRILLI 1972= Aspetti storico-giuridici  dell’amfizionia delfica e i suoi rapporti con la colonizzazione greca in”ASNSP” -PINDARO= Le Pitiche -POMTOW 1924=  voce Delphoi in” RE” supplemento IV (1189-1432) -POLEMONE= Frammenti  in Ateneo -POUILLOUX 1952= Promanties collectives  et protocole Delphique in « BCH » -PRAYON 1993= Dedalo a Spina in “ Atti Spina” -PS ARISTOTELE= De mirabilibus  auscultationibus -PUGLIESE CARRATELLI 1961= Prime fasi della colonizzazione greca in Italia  in “Atti CSMG” -PUGLIESE CARRATELLI 1992= I Santuari panellenici  e le apoikiai in occidente in” PP” -REBECCHI 1998= Grecità e Greci a Ravenna e dintorni in “atti Spina” -RENDIC MIOCEVIC 1963= L’Adriatico e la colonizzazione greca in” Preistoria dell’Emilia Romagna “ -RICHER 1989 = Geografia sacra  del mondo Greco -RICCI 1966=  Rotte e scali  dei Greci nel medio Adriatico  prima dell’intervento Siracusano in “Studi Romagnoli” -RONCONI 1931= Per l’onomastica antica dei marini” SIFC”


-SASSATELLI 1990= Culti e riti in Etruria Padana in “Scienze di antichità” -SASSATELLI 1993= La funzione economica e produttiva :merci, scambi, artigianato in “Atti Spina” -SASSATELLI  1998= Spina e gli Etruschi Padani in “Atti Spina” -SASSATELLI 1993= Spina nelle immagini Etrusche, Eracle, Dedalo ed il problema dell’acqua in “Atti Spina” -SBORDONE  1941= Il ciclo italico di Eracle in” Athenaeum” 19 -SCHMITT PANTEL  1996= Delfi ;Gli oracoli e la tradizione religiosa in “Settis” -SCUCCIMARRA 1990=  l’Adriatico dei Greci in “Storia di Ravenna” -SECCI 1959= Tradizioni culturali tirreniche e pelasgiche nei frammenti di -Callimaco in “SMSR” -SETTIS 1968 =  Un enigma delfico : Pausania  la Tholos e Phylakeion in” ASAA” -SFORZA 1993 =   Chi siamo -SGUBBI 1983= Contributo dell’antico corso del Santerno in” Archeologia fra Senio e Santerno” -SGUBBI 1992= Dalla più remota antichità all’anno mille  in” Il territorio Solarolese e le sue vicende” -SGUBBI 2000= Circe Ulisse ed Enea in Adriatico? -SGUBBI 2001=La centuriazione Solarolese nel contesto della centuriazione “Romana”.(c.s) -SGUBBI 2001 a= Miti e popoli nell’Alto Adriatico .(“ conferenza tenuta l’8 marzo presso la Casa Matha a Ravenna)” -SGUBBI 1999= Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica -SORDI 1979= Clistene di Sicioni a Delfi  in” Aevun” -SORDI 1966= Mitologia e propaganda nella Beozia  Arcaica in” Atene e Roma” -SORDI 1996= La Grecia degli enne in” Settis” -STELLA 1977= Miti greci  dallo Ionio all’alto Adriatico in” AA” -STRABONE= La Geografia -SUSINI 1971= Jupiter Serenus e altri dei in” Epigrafica” -SUSINI 1985= Gerione Atesino in” Gerion”  -TERROSI ZANCO 1957= Gli argonauti e la Protostoria in” SCO” -TERROSI ZANCO 1965= Diomede Greco e Diomede Italico in” Ral” -TORELLI 1975= Tyrranoi in” PP” -TORELLI 1997= Guida archeologica -TORELLI 1993= Spina e la sua storia in” Atti Spina «  -TREHEUX 1953= La rèalitè historique Hyperborèènns in » Studi Robinson » -TUCIDIDE= Storie -UGGERI PATITUCCI 1974= Topografia ed urbanistica  di Spina in” SE” -VALENZA MELE 1977= Hera ed Apollo nella colonizzazione   d’occidente in” MEFRA” -VAGNETTI 1993= I precedenti di Spina in”Atti Spina” -VATIN 1991= Monument votiv de Delphes -VATIN 1983= Etruschi a Delfi  in” Annali Claudio Faìna” -VETTA 2001= La civiltà dei Greci -WILLER 1996= Dedalo in” Settis” 

AL SEGUITO DI UN VIAGGIO IN GRECIA Lo spunto per  queste ricerche  l’ho avuto al seguito di un viaggio in Grecia, che ho effettuato  nel maggio  2OO1. Quattro autori antichi, nel corso delle loro opere, ricordano la presenza  del “tesoro” degli Spineti nel santuario  greco di Delfi. (Per “tesoro”si intende  una piccola  costruzione, quasi sempre a forma di tempietto, che, costruita dentro al recinto sacro, aveva la funzione di  custodire  i doni  offerti  ad Apollo  a


ringraziamento per i consigli ricevuti, perciò non un contenuto ma un contenitore.) Questi autori antichi sono: Strabone(V-I-I7) in occasione della descrizione  del Delta Padano, ancora Strabone(IX-3-8) in occasione della descrizione del santuario delfico, Dionigi di Alicarnasso(I-I7) in occasione della descrizione della fondazione  di Spina  da parte dei Pelasgi, Plinio (III-I6) in occasione   della descrizione  del Delta Padano, Polemone(Ateneo XVIII 6°6 A) in occasione della descrizione della Grecia. Nonostante queste inoppugnabili testimonianze, tre persone greche, “addette ai lavori”; la guida, il direttore del museo di Delfi e uno studioso locale, appositamente interpellati   riguardo della presenza del tesoro di Spina, non hanno saputo dirmi  alcunchè, infatti ho avuto da loro  l’identica risposta:  mai sentito nominare! Ritornato a casa  ho ritenuto opportuno  fare  le  necessarie ricerche, questi sono i risultati. Lo studio riguardante  la possibile individuazione  del tesoro degli Spineti a Delfi, comporta anche l’approfondimento  di vari temi ad esso  collegati: antiche rotte Adriatiche, antiche migrazioni, rapporti fra Greci ed Etruschi,ecc. Si tratta di vicende, che  senza alcun dubbio, hanno condizionato  la storia e la protostoria, sia dell’area Spinetica che Romagnola.

IL TESORO DEGLI SPINETI NELLE TESTIMONIANZE ANTICHE.  Strabone(V-I-7); “Anche Altino è situata nelle paludi  in una posizione somigliante a quella di Ravenna, fra mezzo trovansi Butrio  castello di Ravenna e Spina che ora è un borgo  ma anticamente fu una città Ellenica famosa. Però a Delfi  suol farsi  vedere il tesoro degli abitanti di Spina ed altre cose sogliono farsi raccontare intorno ad essi siccome di un popolo stato una volta potente in mare. E dicono  che anticamente  questa città era situata  lungo il mare, ma ora è invece  dentro terra e distante dal mare  circa novanta stadi”.

Strabone (IX-3.8);  La ricchezza  suol essere invidiata  perciò è difficile da custodirsi anche quando è sacra. Però il tempio di Delfo è al presente poverissimo, giacchè i suoi voti consacratvi, i più preziosi furono portati via e se ne rimangono ancora sono quelli di minor pregio, Anticamente però questo tempio fu ricchissimo lo attesta anche Omero, ma delle ricchezze da lui menzionate non ne rimane nessuna vestigia, erano quasi tutti voti consacrati  da vincitori  come primizie  del bottino guadagnato nelle loro guerre e vi si leggevano ancora  le iscrizioni che attestavano l'’origine di quei doni ed i nomi dei donatori, per esempio dei Sibariti e degli “Spineti sul golfo Adriatico ". Chissà perché Strabone sente il bisogno di aggiungere  dopo la parola “Spineti” anche la voce “ dell’Adriatico”, ha forse voluto dire che sapeva della esistenza di due città con tale nome? In verità in Licia vi era una altra Spina, (Lattes 1894 pag 35) questo potrebbe significare che il nome alla Spina adriatica è stato dato da popolazioni provenienti dall’Egeo e non che ha preso il nome dal ramo del Po chiamato Spinete. Plinio il Vecchio (III-I6); “Il Po porta a Ravenna per mezzo della fossa Augusta  dove ora è chiamato Padusa e un tempo Messanico, vicino  è la foce che ha la grandezza di un porto che, è detto Vatreno da un fiume che scende dalle colline imolesi. Questa foce era detta prima Eridanica  e da altri Spinetica, dalla città di Spina, fondata da Diomede,la quale primeggiò nei dintorni come induce a  credere  il “tesoro” esistente a Delfi”. Dionisio di Alicarnasso(I-I7); “Alcuni di quei Pelasgi che abitavano nella Tessaglia, stirpe greca proveniente dal Poloponneso, costretti ad abbandonare le loro terre, dopo alterne vicende trovarono rifugio  nell’interno  presso gli abitanti di Dodona, ma si fermarono solo  per un tempo ragionevole, e lasciarono quindi la zona  seguendo l’indirizzo dell’oracolo  di navigare verso l’Italia  chiamata a quel tempo Saturnia:costruirono molte navi  e salparono verso lo Ionio, ma a causa dei forti venti del Sud  e della scarsa conoscenza di quei luoghi, furono portati  oltre ed ormeggiarono in


prossimità  di una delle foci  del fiume Po  chiamata Spinete.  Fondarono Spina, ebbero molta fortuna certo molto più delle altre città dello Ionio divenendo per lungo tempo  i più potenti dominatori  del mare  tanto da essere in condizioni di portare al santuario di Delfi  decime piu belle quanto mai, ricavate dalle  loro attività marinare, successivamenti attaccati  da barbari che abitavano in zone confinanti, furono costretti  ad abbandonare la città. Cosi scompare  la stirpe dei Pelasgi che si era stabilita a Spina “.      

 Polemone(Ateneo  XVIII  606) ; “A Delfi  nel tesoro degli Spinati, vi sono due statue in marmo di fanciulli dicono gli abitanti  di Delfi che un visitatore  del santuario si sarebbe innamorato  di una delle due immagini, ragion per cui si sarebbe fatto chiudere nell’edificio e per questo  amplesso avrebbe  lasciato  una corona”. IL SITO DI SPINA Nonostante che la città di Spina sia stata, seppur solo in parte trovata, come pure sono state trovate  le oltre 4OOO tombe che facevano parte del suo sepolcreto, nonostante che questa città sia ricordata da  molti scrittori antichi; oltre ai già ricordati Strabone, Plinio e Dionisio di Alicarnasso, occorre aggiungere Stefano Bizantino(v Spina), PsScilace (I7) e TrogoGiustino(XX-I-II), nonostante  la sterminata bibliografia che questa città puo vantare; basti pensare ai numerosi  atti di convegni a lei dedicati Spina (I959), Spina (I96O), Spina (I992), Spina(I993), Spina (I994), Spina(I998), ebbene nonostante tutto questo, di Spina si sa poco: poco  sul suo nome, sulla sua origine, sul suo sviluppo, sulla etnia dei suoi abitanti e sulla sua fine. Giustamente qualcuno  ha definito questa città una “sfinge”. Una delle ragioni per cui  le sue vicende sono rimaste tanto enigmatiche è dovuta  al fatto che   nella  stessa area deltizia, ma distanziate da almeno  5 secoli, sono esistite due città con lo stesso nome (Ferri I959 pag 59-63). Una è la Spina “etrusca”, cioè la città in parte trovata e che dalla ceramica risulta esistente  dalla fine del VI all’inizio del III secolo a.C, l’altra  è la Spina “pelasgica” ricordata  da Dionisio di Alicarnasso, che sarebbe stata fondata dai Pelasgi all’epoca della guerra di Troia, (I2 secoli a,C). Si tratta  di due realtà diverse, da qui le incertezze, da qui la confusione. Vediamo con l’ausilio delle testimonianze antiche dove è possibile localizzare  la “pelasga”. Sappiamo da   Ellanico (apud  Dionisio di Alicarnasso I-28)   e dallo stesso Dionisio, che  sarebbe stata fondata  in un ramo del Po detto Spinete; da Stefano Bizantino si apprende che  era collegata al ramo Spino; nel periplo dello Ps Scilace (17) è scritto che per arrivare a detta città occorreva  risalire  un corso di acqua per almeno tre km, di quale corso si trattava  ce lo dice Plinio,(  cit,) si trattava di un ramo  del Po, detto Spinete, alimentato  da un fiume, proveniente dalle colline imolesi, chiamato Vatreno(Santerno), che successivamente  darà il nome  alla foce. Da queste antiche testimonianze, come si può vedere, non è possibile sapere con esattezza   a quale delle due Spina essi si riferiscono. Dubbioso è anche il riferimento di Strabone, quando dice che al suo tempo, I secolo dopo Cristo,oppure al tempo della sua fonte, (Artemidoro I secolo a. C), la città di Spina distava dal mare oltre I5 km. Al riguardo della localizzazione della Spina “pelasgica”, la stragrande maggioranza degli studiosi moderni  ha preferito non prendere posizione, uno di loro il Ferretti Spadazzi(I983 pag 80), ha proposto  che potrebbe  corrispondere all’abitato venuto alla luce a Frattesina Terme, prov Rovigo. La motivazioni che lui riporta è  che questo è il maggiore insediamento di epoca pelasgica della zona e che  si trovava in un ramo del Po ora estinto.  Questa sua proposta “cozza” contro  una  incongruenza difficilmente superabile; la Spina “pelasgica” doveva per forza trovarsi collocata a meridione del Po; non si vede diversamente come i  Pelasgi  potessero  dirigersi  in Etruria passando da Cortona. Difficilmente perciò  Frattesina corrisponde al luogo dove era  questa primitiva Spina. Magari potesse trovarsi


tanto lontano dal mare! perché in tal caso  potrei proporre, con maggior probabilità, che possa  anche corrispondere all’abitato preistorico venuto alla luce  dove io abito, cioè a Solarolo prov Ravenna. Si tratta di un abitato  che  ha le stesse caratteristiche di Frattesina, l’unica diversità è che, nonostante  sia stato scoperto da quasi venti anni, di questo abitato non si sa quasi niente, mentre invece di Frattesina, si sono sapute molte cose  dopo solo due mesi che era stato scoperto. Non  propongo Solarolo come l’area dove potrebbe essere ubicata la Spina “Pelasga”, anche se non si può escluderla, in quanto  intendo fare una supposizione più credibile. Da tempo sostengo(Sgubbi I992), purtroppo inascoltato dagli “addetti ai lavori”, che ove ora è tracciata  l’antica via Longa, (una strada che partendo  dalla  via Emilia in corrispondenza della valle del Senio, arriva  fino ai lati meridionali delle valli di Comacchio,) vi era da tempi antichissimi una striscia di terra  alta, esente da alluvioni, che senza alcun dubbio  è stata usata in antico  come importante direttrice terrestre. L’antichità di questa via è archeologicamente documentata  dalla presenza ai suoi lati di numerosi insediamenti  del Bronzo e Villanoviani, venuti alla luce al seguito di arature, perciò a piccole profondità. Questo antico tragitto terrestre  ha tutte le caratteristiche per corrispondere al tragitto ricordato dallo Ps Scilace (Sgubbi I992), che con tre giorni di cammino, era possibile congiungere Spina con Pisa. Pur avendo forti dubbi sulla possibilità che in soli tre giorni di viaggio si potessero percorrere oltre 2OO km, tale percorso  può  segnare la strada che collegava Spina con Felsina, una strada  più volte cercata, ma mai trovata in quanto si è cercata dove  assolutamente non poteva trovarsi. Che questo tragitto terrestre era per gli Spineti il più comodo per arrivare alla via Emilia,( e poi deviare verso Bologna), lo dimostra anche il fatto che i sassi trovati a Spina provengono, o dalle Alpi o dall’ Appennino Romagnolo, questo significa che non vi era una strada che congiungeva in linea diretta,  Spina e Bologna, in quanto in  tal caso, sarebbe stata usata anche per  il trasporto dell’indispensabile materiale sassoso, che  sarebbe stato di provenienza appenninica, ma del  bolognese. Indipendentemente da tutto ciò, il ritrovamento in tale direttrice,  di ambra tipo “Tirinto”(Catarsi  Dell’Aglio I993 pag 43) e due frammenti di ceramica, da alcuni considerati Micenei, a cui  naturalmente vanno aggiunti anche i reperti micenei venuti alla luce  nel Mugello, cioè nel versante toscano, dimostrano che in antico  questa via era molto praticata. Ed è proprio lungo questa direttrice  che a mio parere occorre cercare la Spina “pelasgica”. ma dove esattamente? Forse ci può essere di aiuto la testimonianza di Plinio il Vecchio: questi  come in parte abbiamo già visto, dice  che il ramo Spinete , ove venne fondata Spina, era formata da un corso di acqua proveniente dall’imolese;il Vatreno (Sgubbi I983), ebbene questo corso di acqua formato in antico dal Santerno, dal Rasena(Marziale  Epigrammata) e dal Senio, ( che potrebbe corrispondere  alla attuale foce del Reno,) non dovrebbe essere, con l’ausilio delle foto aeree, difficile rintracciarlo, ebbene una volta rintracciato,  occorrerebbe trovare  dove incrociava la  sopra citata antica direttrice, ed è proprio li, che a mio parere, occorre cercare la Spina “pelasgica”. Dicono Uggeri Patitucci(1974 pag 70-91)che 3000 anni fa la linea di costa si trovava ad almeno 30 Km dall’attuale. Se cosi  è, questa Spina “pelasga” occorre cercarla molto più lontana dalla Spina Etrusca. Dice il Ferri (1957 pag 97)   di cercarla a 4 o 5 Km ad ovest, personalmente credo che dovremmo cercarla più lontano. Ciò che consiglia il Ferri( cit.) potrebbe essere valido ritenendo che Spina sia stata costruita come Ravenna e Venezia sopra  delle isole, ma come abbiamo visto, Dionisio di Alicannaso dice che questi Pelasgi  “salirono” il ramo dello Spinete; da questa testimonianza non è possibile sapere  di quanto risalirono  questo corso d’acqua,  ma sicuramente  fino a che non trovarono molta terraferma. Ebbene la terraferma  non era lontana, infatti, senza alcun dubbio, trovarono la striscia di terra prima ricordata, e sicuramente in quel luogo fondarono Spina.  Si deve anche tener presente che in antico gli abitati venivano costruiti un po’ all’interno  per  non dover  subire le scorrerie piratesche. Perciò se io avessi il compito di cercarla  inizierei senzaltro dall’arco  di terreno, S’Alberto, Madonna del Bosco, Longastrino. e verrei molto in su, anche


perché, come è noto, fra il periodo Protovillanoviano ed il periodo Etrusco, vi fu un lungo peggioramento climatico che fece avanzare di molto la linea costiera.

IL SANTUARIO DI DELFI : STORIA E FUNZIONI L’attività religiosa a Delfi è archeologicamente documentata già nel I4OO a.C . Non molto dopo  risulta  pienamente funzionante  anche l’attività oracolare, infatti  tale oracolo  viene consultato da Giasone alla vigilia della avventura Argonautica,( Apollonio Rodio 1,414), fu interpellato da Atamante,(Carli 1785 pag 49)  ed altrettanto ha fatto Agamennone prima  della partenza   per la guerra di Troia.  Pure a tale periodo risalgono  i doni  offerti al Santuario  per “consigli ricevuti”; lo sappiamo da Strabone,(cit.) quando, descrivendo le ricchezze del santuario, fa presente che quelle del periodo Omerico  non sono più esistenti.  La millenaria attività oracolare, ben attiva anche in epoca romana, termina  definitivamente  nel 394 quando Teodosio il Grande, con un decreto, proibisce qualsiasi culto pagano. Nonostante che  le sue vicende fossero scritte in tutte le opere degli antichi scrittori Greci, per molti secoli Delfi non viene più ricordata, è ignorata anche la sua antica ubicazione, solo nel XV secolo  viene trovata grazie alle ricerche di Ciriaco, mercante di Ancona, dopodichè ha avuto inizio un ininterrotto “pellegrinaggio” in cui scopo principale  era quello di trovare  i magnifici monumenti e tesori  ricordati da Erodoto e da Pausania. Nell’area del santuario,  era stato da tempo costruito  il villaggio di Kastri; ebbene, prima che nel I891  iniziassero gli scavi, il villaggio fu “smontato” e costruito ad alcuni Km di distanza. Nonostante i molti saccheggi  che il santuario ha dovuto subire;( Nerone portò via oltre 5OO statue, Costantino  lo depredò per abbellire Bizanzio,)(Lanzani 1940 pag 82) gli scavi hanno portato alla luce  interessantissime vestigia del passato, ma è forte la convinzione che  Delfi nasconda ancora molti segreti.

SUA FUNZIONE. Delfi, dio titolare Apollo, era  senza alcun dubbio, il più famoso santuario della antica Grecia, molto più famoso di Olimpia, dove come è noto,  oltre al fatto, che vi si svolgevano le Olimpiadi, il titolare era Zeus. La  fama di Delfi era dovuta alla consultazione, quasi “obbligata”, che quasi tutti popoli della terra, allora conosciuta, effettuavano in occasione di migrazioni  e colonizzazioni. Infatti come hanno detto Cicerone, Plutarco  e Giustino, (Piccirilli 1972 pag 45)  nessun popolo si allontanava dalla propria terra, senza prima avere consultato l’oracolo Delfico. La consultazione, che ovviamente riguardava anche altri aspetti della vita collettiva,( guerre , calamità,ecc), consisteva in domande, orali o scritte, indirizzate alla sacerdotessa di turno, a Delfi chiamata Pizia, le cui risposte, quasi sempre enigmatiche, venivano spiegate dai sacerdoti del santuario. Quando si parla di santuari ed oracoli, entra sempre in “ballo” la “ingenua credulità  degli antenati”, ebbene, indipendentemente dalle nostre personali opinioni, occorre  tener presente che, salvo alcune eccezioni, questo santuario era dagli scrittori antichi tenuto nella massima considerazione. Forse potrà sorprendere il fatto  che era oggetto di grande venerazione anche da parte  dei filosofi greci. Basti pensare che  i famosi “sette saggi”, che in verità erano solo cinque;Talete, Solone, Periandro, Biante e Pittaco, scelsero Delfi per immortalare  le loro famose “sentenze”; conosci te stesso, nulla di troppo, ecc. Abbiamo già detto che il dio titolare  era Apollo, ma nei tre mesi di ogni anno in cui Apollo si trasferiva nel paese degli Iperborei, il titolare diventava Dionisio.

 TRACCE DEL TESORO DI SPINA NEL SANTUARIO DI DELFI Anzitutto una premessa; oltre al tesoro degli Spineti, Strabone (V-2), ricorda pure   l’esistenza in questo santuario del tesoro di Caere (Cerveteri); considerato che come vedremo, molte affinità  accomunano questi due tesori,  nel corso delle ricerche  per tentarne 


l’individuazione, citerò spesso  anche  questo tesoro. Se diamo uno sguardo  ad una delle tante piante del santuario di Delfi constateremo  che vi sono  segnate  le tracce  o presunte tali di tantissimi tesori, ben 38, un numero elevatissimo specialmente  se confrontati con i 16 di Olimpia. Purtroppo  solo 8 di questi sono stati correttemente, o almeno si pensa, identificati: Sicioni, Sifni, Potidei, Cnidi, Ateniesi, Acanti, Corinti  e quello di Cirene. Ad altri 15  si è cercato, ma con molti punti interrogativi, di dare una “paternità”, tutti gli altri, compresi  quelli di Spina e di Cerveteri, pur non essendo mancate  lodevoli ipotesi, sono tuttora anonimi. Due sono le ragioni per cui si incontrano tante difficoltà  nei tentativi di identificazione; una è la già accennata  costruzione nel  santuario del villaggio di Kastri che ha impedito   una sicura attribuzione  di iscrizioni e dediche  ai rispettivi tesori, l’altra  ragione, forse  la più importante, è che  gli scrittori antichi, che  nel corso delle loro opere hanno ricordato  questi tesori, non hanno fatto  quella particolareggiata descrizione che invece  sarebbe stata utile per individuarli. Le uniche descrizioni che sono state di qualche utilità sono quelle di Pausania, ma, il percorso che questi avrebbe fatto nel santuario, non è da tutti accettato. Breve elenco  dei tesori Delfici  citati dagli  autori antichi.: Pausania(X, II) Sicioni, Sifni, Tebani, Ateniesi, Cnidi, Potidei, Siracusani e Corinto; Erodoto (I-14 e I-51), Corinzi, Clazomerai; Plutarco (de Pitia Oracoli I2)Acanti; Diodoro Siculo( Biblioteca Storica XIV 93) e Appiano, (Storia Romana II-8 )Marsiglia; Ancora Diodoro Siculo, (XXVIII-IO)Tebani; Senofonte (Anabasi V-3) Ateniesi; Polemone (frammento XXVII) Sicioni ; a questi naturalmente vanno aggiunti il  tesoro  di Spina  che come abbiamo già detto è ricordato da Strabone, Plinio, Dionigi di Alicarnasso,   Polemone, e quello di Cerveteri ricordato da Strabone (op.c). Non mancano  altri incerti riferimenti antichi  di altri tesori, ad esempio quello di Turi per Elliano. Naturalmente questo elenco non ha nessuna pretesa di completezza.Vediamo quali potrebbero essere quelli di Spina e di Cerveteri. Da quello che mi risulta, salvo  ritrovamenti archeologici  dell’ultima ora, due sarebbero i resti di tesori  che potrebbero essere a loro attribuiti; uno è (vedere cartina N° 1) il  N° X, l’altro è il N° XII, a questi aggiungo io, perciò con tutte le riserve del caso, il N° IX. Questi tre tesori  hanno  una caratteristica comune; sarebbero gli unici del santuario Delfico considerati dagli archeologi “stranieri”, cioè aventi  una caratteristica costruttiva diversa dagli altri tesori. Vediamo cosa si è detto al riguardo di questi tesori. Per venire a conoscenza delle varie attribuzioni occorre prendere visione delle piantine  che quasi sempre ogni studioso allega  ai suoi lavori; ogni piantina riporta le tracce dei tesori, ogni tesoro è segnalato con un numero, ogni numero corrisponde ad un offerente, se l’offerente non stato ancora individuato viene scritto anonimo, oppure   viene segnalato con un aggettivo derivante da qualche sua particolarità





Piantina n. 1 TESORI ESISTENTI NELL’AREA NORD OVEST DEL SANTUARIO DELFICO. ……………… = probabile tragitto di Pausania.









Rassegna  ed attribuzioni riportate in alcune piantine Piantina  Andronicos (1984): tesoro X=”tesoro arcaico in rovine Aslepio”; XII= Tesoro Eolico ; IX = non citato Piantina Settis (1996): come la piantina precedente con la sola eccezione che il  tesoro XI è detto”tesoro anonimo”. Piantina   La Coste Messaliere (1936): come le precedenti  con la sola eccezione del tesoro IX detto “tesoro distrutto”. Piantina Bommelaer(1991):Tesoro X= “tesoro etrusco  nell’Asclepio,”; tesoro XII=”tesoro Anonimo”; Tesoro IX=”tesoro anonimo”. Piantina Roux(1976): Tesoro X=”tesoro arcaico nell’Asclepio; tesoro XII=”anonimo”;  tesoro X=”tesoro arcaico anonimo”. Piantina Ferri(1960); tesoro X=”Tesoro Etrusco”( ma con punto interrogativo) tesoro XII=”tesoro eolico anonimo”;  tesoro IX=”vecchio tesoro degli Ateniesi”. Piantina Torelli (1997); tesoro X=”Spina”; tesoro XII=”Caere”; tesoro IX=”piccolo Potidei”. Piantina Karabatea;(pubblicazione senza data, attualmente in vendita nelle librerie)Tesoro X= “etrusco”; Tesoro XII=Siracusani; Tesoro IX =Potidei. Occorre tener presente che, in questa ultima piantina, diversamente dalle altre, alcuni tesori  si trovano ubicati in altri luoghi, ma non è possibile sapere se si tratta di errore topografico o se  siano i risultati di nuovi scavi, perciò  è difficile fare il confronto con le altre piantine. Vediamo ora i commenti  dei vari studiosi al riguardo  di ogni singolo tesoro. TESORO X. Come abbiamo visto nelle cartine, questo tesoro è detto “costruito nell’Asclepio,” effettivamente sarebbe stato  distrutto nel IV secolo a.C per  fare posto al tempio di Asclepio,(Briquel 1988 pag 150); forse era caduto in disuso? Per la sua costruzione era stato usato un travertino giallo di sicura provenienza toscana, in un suo masso è stata trovata una iscrizione “tirrenica”, alcuni suoi massi  contengono scanalature e fori  identici a quelli trovati in Etruria, la misurazione corrisponde al “piede Italiano”(Pomtow 1924), conseguentemente da quasi tutti è detto “Etrusco”. Il Pomtow (1924) prima dice “Caere”, poi successivamente dice “Spina”; per il Messaliere (1936) “Spina”; per il Dismoor(1912) “Caere”, altrettanto dice il Keramopoullos(1909); per il Briquel (1988 pag 155) questo tesoro non può essere di “Spina” in quanto fu visto da Polemone e da Strabone, perciò, per questo studioso, può essere solo quello di Cere.   TESORO XII. Dice il Briquel(o.c. pag 154) che questo tesoro  ha delle caratteristiche diverse dagli altri tesori delfici; larghezza superiore alla lunghezza, colonne separate dal resto dell’edificio, orientamento anomalo,( ma  su questo ultimo punto vedremo più avanti, che vi è una buona ragione), aggiunge poi che potrebbe essere etrusco e propone “Spina”. Il Messaliere (cit.) dice “Caere”, oppure “Clazomenai”;  per il Pomtow(cit,) “Cnidi”; per il Dismoor(cit,)potrebbe essere “Spina”.

TESORO IX. Come abbiamo visto dalle piantine, per molti questo tesoro “non esiste”. Vediamone alcune caratteristiche; alcuni suoi massi provengono dal tesoro X, come pure sarebbe stato costruito sullo stesso piano, assomiglierebbe molto al XII,  e sarebbe stato costruito con materiale italiano. Le attribuzioni dei pochi che lo ricordano, non sono concordi; per il Ferri(1960) era il vecchio “degli Ateniesi” per il Pomtow(cit,) poteva essere la continuazione  del “Potidei”; per il Dismoor(cit,) era il “Siracusano”, ma non esclude che potesse  essere  di “Spina”. Il Briquel (cit,) non ne parla,  questo fa pensare che non lo considera dei “nostri”. Come ho detto in precedenza, ho ritenuto opportuno inserire anche questo tesoro  fra i “papabili”. Vediamone le ragioni: nel maggio del 1893( Faure1985 pag 65) a pochi metri  dal muro Est di questo tesoro, fu rinvenuta una statua marmorea    intatta,   raffigurante un


ragazzo; nel 1984,  pochi metri più ad ovest, è stata rinvenuta un’altra statua quasi identica, ma rotta in alcuni punti. Nella sala IV del museo di Delfi, in un unico piedistallo, vi sono due statue di ragazzi, opera dello scultore Polimede, una intera ed una, si noti  bene, è rotta in più punti. Non si sa di sicuro che cosa e chi queste due statue rappresentino, per qualcuno sarebbero  i fratelli Argivi Cleobi e Bitone, ma per altri, anche al seguito di una dicitura che è stata messa nella targhetta, si tratterebbe dei Dioscuri, cioè Castore e Polluce. Pensando a queste due statue,che vi sono buone ragioni per considerarle quelle trovate nei pressi del tesoro X, non si può non pensare al racconto di Polemone (op.c), che riguardava le due statue raffiguranti due ragazzi, esistenti nel tesoro degli “Spinati”, che per molti, come si è detto  sarebbe quello di Spina. Se queste fossero quelle ricordate da Polemone, l’ipotesi  tesoro IX= “Spina”, sarebbe da prendere in seria considerazione. Riassumendo le ipotesi di attribuzioni; pur nelle incertezze si può dire che sicuramente il X  è dei “nostri”, ma ben difficilmente  è quello di Spina, infatti tale attribuzione  incontra un ostacolo difficilmente superabile, come giustamente ha detto il Briquel, (1988) che non poteva essere visto  da Polemone e Strabone in quanto  al loro tempo  detto tesoro non era più visibile. Non tutti gli studiosi hanno tenuto conto di questa valida  considerazione; non ne ha tenuto conto il Torelli(1997; infatti, come abbiamo visto nella piantina allegata  al suo libro, identifica Spina col tesoro X, forse il Torelli non ritiene sufficentemente sicura la testimonianza di Polemone; effettivamente  la parola “Spinati”  da Polemone  riportata,  potrebbe voler dire “Spineti”, ma potrebbe anche significare  una cosa diversa. Aggiunge il Briquel (1988) che al riguardo vi è comunque anche la testimonianza di Strabone, cioè la lettura della iscrizione nel tesoro degli Spineti  una lettura fatta al “presente” cioè quando detto tesoro era ancora  ben visibile. Perciò quasi sicuramente  si tratta di quello di Cere. Per quanto riguarda il IX e il XII, si può solo dire che uno di questi “dovrebbe “ essere quello di Spina, ma solo grazie a nuove scoperte archeologiche sarà possibile dire qualcosa di più. Abbiamo già accennato al “percorso”  che Pausania effettuò nel santuario Delfico e che vari studiosi hanno usato per l’identificazione di alcuni tesori.  Purtroppo  in qualche caso  sono stati, portati “fuori strada”; per esempio il Pomtow, tenendo per buona l’indicazione che  aveva avuto da Pausania, aveva erroneamente  attribuito ai Cnidi  il tesoro XII. Altrettanto è accaduto all’autore della voce “Delfi” nella Enciclopedia Treccani, questi, seguendo Pausania, propone anche lui Cnidi al tesoro XII  e, conseguentemente, attribuisce a questo tesoro l’appartenenza di interessanti reperti archeologici, in loco trovati, fra cui  le famose Cariatidi. Purtroppo, al riguardo dell’effettivo tragitto di Pausania, vi sono più versioni, (Arias 1945 pag 44) e non è ancora chiara quale sia la giusta.Il già citato Pomtow  è del parere che Pausania abbia ricordato vari tesori, per esempio quello dei Potidei, senza averli effettivamente visti. Rintracciare l’esatto percorso di Pausania significa anche conoscere  quali piccole strade, oltre alla via sacra, erano alla sua epoca  frequentate; probabilmente queste ultime erano le più antiche, non a caso confluivano verso l’antica porta. Probabilmente ai lati di queste strade furono costruiti vari tesori, come per esempio  i “nostri” e questo può forse spiegare l’anomalo orientamento del XII, messo in evidenza dal Briquel (1988).

CHI HA ERETTO QUESTO TESORO? Se facciamo il “punto”  a cui siamo arrivati con le nostre ricerche, dobbiamo constatare che disponiamo di una sola certezza: gli abitanti di Spina hanno eretto un tesoro  a Delfi! Non sappiamo esattamente quale sia; non sappiamo se questi abitanti erano Greci oppure Etruschi; non sappiamo in che epoca lo hanno eretto; non sappiamo da  chi successivamente sia stato gestito; non sappiamo in occasione di quale avvenimento sia stato eretto. Purtroppo, nonostante che al riguardo di questi quesiti, si possa disporre anche dei “pareri” degli scrittori italiani, non è possibile dare risposte sicure. Passare in rassegna ciò che è stato detto al riguardo della Grecità e della Etruschicità di Spina è il primo passo che occorre fare


per approfondire l’argomento. Per tutti gli scrittori antichi, Spina  era una “polis Hellenis”, cioè una città Greca. Per la stragrande maggioranza dei scrittori moderni, Spina era una città Etrusca. Come mai questo contrasto così netto?La ragione può essere una sola; gli antichi probabilmente parlavano della Spina “Pelasga”, cioè quella che all’epoca della guerra di Troia  fu fondata nel ramo del Po detto Spinete; gli scrittori moderni  parlano della Spina che è venuta alla luce nel secolo scorso  e che dai reperti, risulta essere stata abitata dal V al III  secolo a.C. Sembra strano, ma hanno ragione entrambi, infatti, parlano di due “cose “diverse. Nonostante questa precisazione, il “problema” merita di essere   approfondito, perciò ridiamo uno sguardo alle testimonianze antiche. Per i già ricordati  Strabone, Ps Scilace e Giustino, Spina era Greca. Plinio( III 16) la dice” Spina fondata da Diomede,” perciò anche per lui era Greca, Dionisio di Alicarnasso  la dice fondata dai “Pelasgi” perciò Greca. Abbiamo già detto che nessuno scrittore antico ricorda una Spina” Etrusca”. Non dobbiamo pensare che questo sia dovuto al fatto che all’epoca non si pensava alla possibile esistenza  nella Padania  di qualche città Etrusca, infatti  sono dagli antichi ricordate e dette Etrusche  le città di  Felsina(Plinio III,115); Adria (Livio V,33); Mantova (Servio Aeneide X,200) e Melpum (Cornelio Nepote in Plinio III,21). A questo punto, occorre chiederci  se il tesoro a Delfi lo hanno eretto i Greci o gli Etruschi. Prima di cercare di dare una possibile risposta, occorre mettere in risalto due “aspetti” di una certa importanza, I°: a quanto pare in tutti i santuari Greci vigeva un  regolamento  che impediva alle città non Greche di erigere un tesoro nell’interno del recinto sacro. Spina e Cere, che non sono mai state colonie,  sono le due sole eccezioni. II°: nelle gare “ufficiali”, cioè Olimpiadi o Pitiche  potevano partecipare solamente gli abitanti delle città Greche. Per Erodoto (V,22), nessun “barbaro” ha mai messo piede nelle arene in occasione, di tali gare.  Commissioni opportunamente indette avevano l’incarico di  controllare il rispetto di queste  pratiche. Per essere più chiari: chiunque poteva fare doni;  per esempio,  i reggenti di Roma, al seguito della presa di Veio, vollero fare un dono al dio Apollo, ma dovettero metterlo, per testimonianza di  Diodoro e di Appiano,(Settis1968 pag 361) nel tesoro di Marsiglia.Non mancano anche  presenze di atleti  di città non greche, come per esempio  quello  ucciso dal Greco Telemacos, in una gara di lotta, ma come è noto, non si trattava di una gara ufficiale. Polibio mette giustamente  in evidenza che  quando i Romani, dopo aver conquistato la Grecia, parteciparono alle Olimpiadi, fu considerata una novità. Oltre a questi non secondari  aspetti, se ne può riportare un altro non meno importante: i reperti trovati nel “presumibile” tesoro di Spina sono molto più antichi della Spina “etrusca”, o perlomeno all’epoca di tali reperti(VI secolo a.C), la Spina “Etrusca” non poteva assolutamente  aver già raggiunto uno sviluppo da permettersi  tale erezione. La non possibilità  di erigere tesori, se non  essendo città greche, e reperti  più antichi della Spina stessa, creano problemi non facilmente superabili agli studiosi moderni, che,  come abbiamo detto, sono tutti concordi  nel  ritenere che il tesoro a  Delfi, sia stato eretto dalla Spina “Etrusca”. Questi studiosi, nel corso delle loro ricerche riguardanti le vicende Spinetiche, si sono limitati a cercare la provenienza delle decime, che periodicamente  si dovevano mandare a Delfi. Per qualcuno potevano essere proventi da attività commerciali, per altri proventi da atti di pirateria, per altri ancora proventi da“pulizia dei mari”,  ma non hanno approfondito, come forse invece  ce ne sarebbe stato tanto bisogno, il problema del “chi” avesse eretto il tesoro. Anni fà, alcuni scrittori, fra cui  il Braccesi(1977 pag 151), avevano  ventilato la proposta, che  l’erezione del tesoro a Delfi, fosse opera della forte, ma sempre minoritaria, componente greca  della Spina Etrusca, ebbene, ultimamente a questa  ipotesi, non crede più nessuno.   Quello che sorprende, da quello che mi risulta, è  che nessuno  studioso ha  messo in discussione la città”offerente”, per tutti e senza alcun dubbio,  questa può essere solo la Spina Etrusca! Vediamo se ci sono delle ragioni che possono spiegare questo unanime convincimento:  vado a “ tasto” in quanto  dai loro scritti non sono riuscito a capirlo:  probabilmente una delle ragioni


può essere questa: non si è mai creduto che  la Spina “Pelasga” potesse avere  raggiunto una tale floridezza che le permettesse di poter erigere un tesoro in quanto, fino al IV secolo a.C, la frequentazione in Adriatico era solo di passaggio e perciò non vi sarebbero stati insediamenti stabili, né di Spina né di altre città. Se questa è una ragione significa che non si  sono tenute nel debito conto le testimonianze antiche, che invece dicono ben altro. Per esempio; oltre a quelle che abbiamo già visto, occorre  aggiungere quella di Diodoro Siculo (XIV,113,) dice questi che nella pianura Padana, vi erano 12 città fondate dai Pelasgi, preesistenti di ben 7 secoli alla dominazione Etrusca. Come è noto era “usanza” dei Pelasgi costruire delle dedecapoli, infatti così fecero anche nella Ionia, nel Peloponneso e nella Etruria storica . Perciò, che degli insediamenti stabili  ve ne fossero già da molto tempo, lo si apprende anche dalle scoperte archeologiche. Oppure la ragione è un’altra: a Delfi sono state trovate delle iscrizioni “Etrusche” e dei reperti “Etruschi” che confermerebbero  i   buoni rapporti esistenti fra la Delfi greca e le ’Etrusche” Spina e Cere, rapporti  che avrebbero permesso  l’erezione dei tesori. Vediamo se veramente, alla luce di queste  testimonianze archeologiche, i tesori di Spina e di Cere possono essere, senza qualche dubbio, addebitati agli Etruschi . Iniziamo con le iscrizioni; due sono quelle  più volte ricordate dagli studiosi. Una è il famoso “Cippo dei Tirreni”, l’altra è la non meno nota dei “Tessali di Farsala”. Vediamo se queste  possono testimoniare  “sicuri”  contatti fra  Delfi e gli Etruschi. Il  Briquel (1988 pag 150-161) , incaricato nel corso di quella conferenza,  di “segnalare” eventuali  contatti frà Greci ed Etruschi, dopo aver passato in rassegna queste due iscrizioni, mette in evidenza che per la questione che si sta trattando, è “difficile  trarne elementi sicuri”.  Non diversamente si esprime al riguardo dei reperti archeologici  trovati  nel santuario di Delfi, dice infatti “che attualmente è molto difficile  utilizzare il dato fornito  dall’indubbia presenza  di oggetti Etruschi a Delfi in epoca  “alta””e conseguentemente  mette in discussione tali rapporti. Il Briquel dice reperti di“epoca alta” in quanto effettivamente si tratta di materiale   cronologicamente anteriore a quello di cui parlano i testi letterari, infatti, dando uno sguardo all’elenco fattone dal Gras(op. c pag 667-668), si constata che come minimo risalgono al VII secolo a.C. Giustamente dice il Herrmann (1983) che questi reperti  dimostrano  solamente contatti” precoloniali” con l’occidente, perciò in una epoca  che non corrisponde  all’esistenza della Spina e della Cere Etrusche. Il Magnani  (1993 pag 80), in un articolo  riguardante i contatti fra Delfi e gli Etruschi, porta anche come  “prova” l’ambasciata che Tarquinio il Superbo avrebbe mandato a Delfi, ma per   il Dumesil (1977 pag 384) sarebbe una leggenda. Tutto questo ci dice  che anche dalle testimonianze archeologiche e dalle iscrizioni, non è possibile attribuire  agli Etruschi  l’erezione dei due tesori. Occorre anche mettere in evidenza un particolare; per far sì che tali iscrizioni  siano credibili occorrerebbe che i “Tirreni”  ricordati corrispondano sempre e solo ad “Etruschi”italiani”, ma, come è noto a tutti, nelle antiche testimonianze, il termine  “Tirreni”, si riferiva a due popoli,uno in Italia e l’altro in Egeo. Non solo: nelle antiche testimonianze,“Tirreni” non sempre significava “Etruschi”, spesso significava invece “Pelasgi”.Vediamole; Ellanico di Mitilene(Dion Alic I,23) dice che i Pelasgi  fondatori di Spina, iniziarono a chiamarsi  “Tirreni”, solo dopo essere arrivati in Italia. Per Mirsilo di Lesbo(Dion Alic I,23)i  Pelasgi iniziarono a chiamarsi “Tirreni”solo quando ritornarono in Grecia.Indipendentemente da chi ha ragione, la sostanza non cambia. L’equivalenza “Pelasgi”=”Tirreni” risulta pure testimoniata da altri scrittori antichi;Tucidide(IV,109), Anticlide apud Strabone(V,2), Sofocle apud Dion Alic(1,28), Callimaco (framm Ossirinico, ed  altri. Interessante per le nostre zone è pure la testimonianza che al riguardo  ha portato Diodoro Siculo,(XIV 113); dice questi che gli “Etruschi” cacciati dai Galli  dalla valle Padana, erano di fatto i discendenti dei Pelasgi a suo tempo  arrivati dalla Tessaglia. Perciò, nonostante che questi ultimi, come abbiamo visto, fossero dagli antichi nominati “Etruschi”, di fatto erano Pelasgi. Che i “Tirreni” erano detti “Pelasgi” e viceversa, si deduce anche dalle testimonianze del più “Tirrenico”degli autori antichi, cioè Erodoto. Questi in verità ha sempre tenuto  distinto  i


“Pelasgi” dai “Tirreni”, ma se analizziamo bene  i suoi racconti, ci renderemo  facilmente conto che sta parlando sempre dello stesso popolo. Infatti come dice Plutarco (Rom II,3 che)”i Tirreni ricorda Erodoto sono di fatto i Pelasgi”. L’unico degli autori antichi, che tiene ben distinto i Tirreni dai Pelasgi, e non lascia intendere diversamente, è Dionisio di Alicarnasso, ma, come  tutti gli studiosi sanno, questi, avendo bisogno di dimostrare la “Grecità” dei soli Romani, dovette smantellare  la teoria Pelasgi=Tirreni e dire che gli Etruschi erano autòctoni.   Al punto in cui siamo arrivati occorre  onestamente prendere atto che ci troviamo in un  “impasse” e che per uscirne occorre prendere in seria considerazione la possibilità che il tesoro degli “Spineti” a Delfi  sia stato eretto dai  suoi primitivi fondatori, cioè dai “Pelasgi”. Vediamo perciò se ci sono antiche testimonianze che ricordino  rapporti fra “Pelasgi” e Delfi, e se vi siano stati avvenimenti che abbiano creato le premesse per l’erezione  di un tesoro. Alcune di queste testimonianze  esistono. Passiamole in rassegna  ed analizziamole. Abbiamo già accennato alle testimonianze di Dionigi di Alicarnasso e di Ellanico di Mitilene, (I-I8 e I-28 , )ma è bene riportarne ancora una volta il contenuto: un popolo di” Pelasgi”partiti da Argo in Tessaglia, ma provenienti da Argo del Peloponneso, guidati da Nanas, seguendo i consigli dell’oracolo di Dodona, approdano alle foci del Po e risalgono  un ramo detto Spinete. Una parte di loro fonda Spina, gli altri proseguendo  arrivano a Cortona  e più tardi occupano un territorio detto successivamente Tirrenia.  Non è chiaro a quale epoca risalga  questa migrazione“Pelasga”, ma considerato che per testimonianza di Tzetze(Licofrone Alex 1244) ), il Nanas sarebbe Ulisse, deve essere avvenuta nel periodo della guerra di Troia, perciò all’inizio del dodicesimo secolo a.C. Un arrivo di Pelasgi nei pressi delle foci padane è pure testimoniato dallo Ps Aristotele (80).   Mirsilo di Lesbo, riportato da Dionisio di Alicarnasso(I-23) dice che questi “Pelasgi”, dopo aver vissuto in Italia un lungo periodo di prosperità, vengono fatti segno di sventure, (nascite deformi, frequenti siccità ecc), decidono perciò di rivolgersi all’oracolo di Apollo, per chiedere la ragione di queste disavventure ed che fare  per arrestarle. La risposta oracolare che ricevono  è che non avendo mantenute le promesse a suo tempo fatte a Zeuz, ai Cabiri di Samotracia e ad Apollo, di dare la decima dei prodotti, sarebbero per questo stati puniti e che per porre termine a tali sventure occorreva dare ad Apollo  le decime anche dei nati. Al seguito di questa sentenza e dei litigi che ne seguirono, molti di questi “Pelasgi” ritornarono in Grecia. Da questa testimonianza apprendiamo  cose molto interessanti: questi Pelasgi prima di arrivare in Italia, si erano rivolti a Dodona, perciò a Zeuz; ai Cabiri di Samotracia,( dice  Diodoro Siculo( V,47) che in quell’isola tale culto fu portato da Dardano, mentre invece per Erodoto (II,51) sarebbe stato portato dagli stessi Pelasgi,) e che per ben due volte si erano rivolti ad Apollo, che per il Gabba( 1975 pag 40) era il Delfico). Questo perciò significa che questi Pelasgi  sono “portatori” di questi culti in Italia.( Licofrone (Alex 1240) è invece del parere che  il culto dei Cabiri sia stato portato in Italia  da Enea). Ma la testimonianza di Mirsilo è importante  per un altro aspetto; il ritorno dei Pelasgi in Grecia, un ritorno ricordato anche da Pausania (I 38) e per ben due volte testimoniato da  Strabone; partiti da Regisvilla( V,2) e da Ravenna(V,214), un ritorno che può aver favorito o creato le premesse per l’erezione dei tesori. Gli avvenimenti appena ricordati; Pelasgi =Tessali arrivati in Italia, Tessali che ritornano in Grecia, Pelasgi che si rivolgono all’oracolo Delfico, sono testimoniati anche da altri autori antichi; Erodoto(VI-139), Strabone (V-226)Licofrone, (Alex 1357) Ferecide(apud Dion Alic 113), Anticlide (apud StraboneV-2), PS Scimmo (vv 227), Apollonio Rodio (I-18), Diodoro Siculo (XIV- 113), e  l’elenco sarebbe lunghissimo. In queste ultime testimonianze, a volte si parla di Pelasgi, altre volte si parla di Tessali, si può pensare che contengono delle contraddizioni e che si annullano a vicenda. Non è così, seppur con parole diverse, dicono tutte le stesse cose. Per esempio; Strabone, identifica  i Pelasgi con i Tessali, infatti dice Ravenna fondazione Tessala (StraboneV,214). Altrettanto  dice Zosimo(V,


27).  Alla luce di queste testimonianze, non si può affatto escludere che il tesoro degli “Spineti” sia stato eretto dai “Pelasgi”, ( i vari ritorni hanno creato le premesse per farlo), e  che successivamente  questo tesoro sia stato gestito  dalla numerosa componente Greca della  Spina Etrusca. I rapporti fra Pelasgi Italiani e Delfi, o rapporti fra popolazioni Italiane  e detto santuario in epoca precoloniale, sono confermati  come già detto dalla archeologia;( i reperti“Villanoviani” del Hermann 1983). Di questi rapporti precoloniali ne è convinto pure il Cassola(1975 pag 95). Occorre precisare che molti studiosi moderni, nel tentativo di dimostrare l’erezione dei tesori da parte delle città “ Etrusche  di Spina e Cere”, affermano che  ciò sarebbe stato possibile grazie alle loro “tradizioni Pelasgiche”. Il significato di questa frase  non è chiara, significa forse che le città fondate dai Pelasgi, poi diventate Etrusche, potevano erigere tesori nei vari santuari Greci? Dovremmo allora chiederci la ragione per la quale fra le tante  città che potevano vantare  tale fondazione, solo Spina e Cere ne hanno “approfittato”! Oppure “tradizione Pelasgica”significa altra cosa? Purtroppo  questo concetto non è stato dagli studiosi  ben chiarito.

ULTERIORI POSSIBILI COLLEGAMENTI  FRA DELFI ED IL TERRITORIO SPINETICO. Considerata la poca credibilità di una eventuale erezione del tesoro da parte della Spina Etrusca,(reperti più antichi della città, iscrizioni“etrusche” molto dubbie, regolamento che impediva l’erezione di tesori alle città non Greche ecc,  e considerato che è difficile dimostrare  una “ sicura “ erezione “Pelasga”, sarà bene passare in rassegna le testimonianze storiche antiche  per vedere se tale erezione può essere opera di altre popolazioni. Tralascio di approfondire  le vicende “Adriatiche”  delle popolazioni che risultano operanti  nel corso della cosi detta “età del mezzo”(VII-X secolo a.C), cioè Egineti, Corinzi, Focei, Rodii, Sami, Cnidi, ecc, anche se non si può escludere  un loro apporto a detta erezione. Intendo invece  passare in rassegna    i numerosi “indizi di frequentazione”  di popoli che avrebbero operato  nelle zone “Spinetiche”  a “cavallo “della guerra di Troia.  Mi rendo perfettamente conto che queste  testimonianze, più che storiche sono mitologiche e che perciò è estremamente difficile distinguere ciò che può essere veramente accaduto, da ciò che è un avvenimento leggendario, ma essendo anche vero che  i “problemi” che stiamo affrontando  sono ben lontani dall’ essere risolti, si rende necessario  indagare su tutti i “fronti”, con la speranza  di trovare qualcosa che possa fare un po’ di “luce”in un “buio” quasi totale. Molti sono  gli “indizi di frequentazione”che possono dimostrare probabili collegamenti  fra Delfi   e Spina. Abbiamo  già messo in evidenza i “Pelasgi Tessali Tirreni”, a questi si può aggiungere gli Argonauti, gli Iperborei, i “Siculi Liguri Lelegi”, Dedalo ed Icaro, i Dioscuri, i Micenei  e naturalmente i personaggi collegati alle vicende “Omeriche” cioè ;Circe, Ulisse, Enea, Antenore e Diomede.Tutti questi “indizi” saranno presi in considerazione, mentre invece per  gli “Omerici”  sarà fatto solo un breve accenno in quanto, le vicende di questi Eroi, in particolare di Odisseo e di Enea, sono  già state oggetto di  mie recenti ricerche (Sgubbi 2000).



GLI IPERBOREI Abbiamo già detto che Apollo si assentava da Delfi per tre mesi all’anno e si trasferiva nel paese degli Iperborei , ove aveva un giardino(Delcourt1955). Difficile dire  dove esattamente si trovava questo  popolo. Le località testimoniate dagli storici antichi sono molto indeterminate;per Damaste (Jacoby Fgr  h I )e per Pindaro(Pitiche X 29), si trovavano “al di là  dove soffia il vento di Borea”, sempre Pindaro aggiunge “che è difficile trovare la strada sia per terra che per mare per andare nelle terre degli Iperborei”; per le Argonautiche Orfeiche (1080) questo popolo si trovava in un non precisato “mare


settentrionale”; per la stragrande maggioranza dei  Greci questo popolo si trovava “ove spariva il sole”,  perciò a Nord Ovest.  Non si poteva comunque trovare molto a Nord, in quanto nelle sue terre veniva coltivato sia il grano che  l’ulivo. Considerato che vi si recava Apollo nei mesi invernali, si potrebbe pensare che si trovava a sud della Grecia, ma c’è chi dice   che questi andava dal “suo” popolo per portarvi l’estate. Non mancano testimonianze antiche  che localizzano  geograficamente questo popolo. Per Posidonio di Apamea, riportato da Apollonio Rodio(II,675), si trovava  nelle Alpi; per  Esiodo(framm 150) nei pressi dell  Po, altrettanto lascia intendere Apollodoro(II,5). Numerose sono le testimonianze antiche  ove gli Iperborei  risultano identificati    con popoli storici; per Eraclide Pontico, (Plutarco vita di Cam 22) erano i Celti. Stefano bizantino dice che i Tarquinati erano Iperborei, per Servio(Aen IO )la città di Pisa sarebbe stata fondata da Piso re degli Iperborei, per Filostefano, riportato  da Pindaro (Olimpiche 3,58), il popolo Iperboreo avrebbe preso tale nome da un Tessalo di nome  Iperboreo. Dice il Capovilla (1968 pag 169) che per alcuni questo popolo era identificato con i Liguri. L’elenco potrebbe continuare, basti sapere che spesso questo popolo era  identificato con   popolazioni  provenienti dalla Tessaglia e arrivate nelle nostre zone su consiglio di Apollo. Sia Erodoto(Iv 33), che Pausania(1,31), che Callimaco, (inno a Delo 275)  riportano  le “tappe” effettuate dai portatori dei doni“Iperborei”destinati al santuario Apollineo di Delo; doni in onore di Artemide, sorella di Apollo(.Erodoto IV 34). Il resoconto più interessante e dettagliato  di tale tragitto è sicuramente quello di Erodoto, anche perché, dice egli stesso, che ha effettuato personali ricerche al riguardo di questo popolo in tutte le parti del mondo al suo  tempo conosciuto.  Vediamo questo tragitto; dopo agli Sciti, questi portatori di doni facevano tappa in Adriatico.Per qualcuno  si trattava nelle Elettridi,(isole sacre ad Artemide che si trovavano  alla foce del Po), per altri a Caput Adria, Briquel (1994 pag 189), poi proseguendo verso Sud, arrivavano presso i Dodonei (abitanti di Dodona),  e  dopo aver attraversato il golfo  Maliaco, arrivavano  all’isola di Delo. Alcuni degli studiosi moderni che si sono interessati di questo tragitto, si sono chiesti invano la ragione della  “tappa “ a Dodona, infatti significava  un inutile ed inspiegabile allungamento del tragitto . Forse  la risposta esiste;  le Dodone erano due, una era in Epiro e una era in Tessaglia, la attuale Bebula( Capovilla (1958 pag 193) e, aggiunge  il Capovilla,( 1960 pag 25)  quest’ ultima  è di origine  Lelegica, e, vedremo più avanti, di che popolazione si tratta . Perciò se  la tappa Iperborea era effettuata nella Dodona  Tessalica e non in quella Epirotica, le perplessità cadrebbero da sole, anzi tale tappa spiegherebbe  meglio il tragitto  testimoniato da Callimaco. Ma la Dodona Iperborea era Epirotica o Tessalica? Difficile dare una risposta sicura; Erodoto non lo precisa, ma ci fa conoscere un particolare importante, infatti dice che il primo  popolo “ Greco” che i doni toccano   dopo  la tappa Adriatica, sono   i Dodonei; ebbene come è noto l’Epiro  non era considerata Grecia,(Sordi 1996 pag 107), mentre invece lo era a tutti gli effetti la Tessaglia, perciò vi sono buone ragioni per ritenere Tessalica la Dodona da lui ricordata. Di questo parere lo è anche la Scuccimarra (1990 pag 81). L’esistenza di una Dodona Tessalica  è documentata nell’Odissea  XIV 327 e ricordata pure da Apollodoro( 244). Epirotica era molto probabilmente quella al cui oracolo si rivolsero i Pelasgi fondatori di Spina, anche se pure in questo  caso vi possono essere dei seri dubbi. Che Dodona fosse il fulcro  dell’espansione pelasga, non vi sono dubbi, lo dice Strabone(VII,7) ed Esiodo( apud Strabone VII327), ma da loro non viene specificato di quale Dodona si parli. Ben difficilmente era  Epirotica la Dodona, ove Atena  aveva preso una trave  di quercia, da lei  poi messa nella nave Argo, cioè nella nave usata dagli Argonauti  per andare alla conquista del Vello d’oro(Apollonio Rodio I,526), è opinione diffusa che  questi, prima di andare nella Colchide, fossero passati da Dodona, ma da Erodoto (IV 179), si apprende invece che costeggiarono tutto il Peloponneso in quanto volevano andare a Delfi, dove infatti , come dice Apollonio Rodio (IV 529), arrivarono e ricevettero da Apollo due tripodi.Non è infatti


una novità che l’impresa degli Argonauti fu consigliata da Apollo. Non è neanche chiaro a quale Dodona si sarebbe rivolto  Enea per chiedere consigli; Dionisio di Alic( 1,51) dice Dodona, ma c’è chi propone Delo (Carratelli 1992 pag 401-410), infatti nella Eneide (3,96), è scritto che Enea  ed i Troiani, dopo la distruzione di Troia,interrogano l’Apollo di Delo per cercare una nuova patria e che l’oracolo  consiglia l’Italia in quanto era la loro “antica terra”. L’esistenza delle due Dodone, la Tessalica piu antica della Epirotica, serve a fare un pò di luce sui molti punti oscuri  che costellano i temi ora trattati. Non mancano collegamenti diretti Apollo –zone alto Adriatiche, come per esempio i numerosi santuari Apollinei . Anche se vogliamo escludere quelli di Adria(Colonna 1974 pag 8), e quello di Spina (Colonna1993 pag 135), che potrebbero  essere considerati del periodo Etrusco, ricorderemo  il Fons Aponi di Abano, questo Aponi corrisponde ad Apollo;altrettanto potrebbe essere   il ..PONI scritto in una  mutila iscrizione rinvenuta  a Bagnacavallo; dice il Susini(1985 pag 9-17) che  esiste un collegamento fra Aponi di Abano e quest’ultimo  santuario. Dobbiamo pure  aggiungere i collegamenti  della sorella di Apollo Artemide, con le nostre zone; come è noto  a Delfi vi  era un tempio a lei dedicato, come pure ve ne  era  uno in alto Adriatico, ricordato da Strabone,(V,I) e dallo Ps Aristotele (105). Abbiamo già accennato alle isole Elettride, isole a lei sacre,  che erano  qui ambientate, come  pure erano qui ambientate le  isole Melagridi, anche queste a lei sacre,che hanno dato il nome alle galline faraone (Mastrocinque 1991 pag 30 ). Essendo in tema Artemide, non possiamo non ricordare i  due santuari  del territorio lughese dedicati a Diana , una dea che come è noto , corrisponde a lei. ( Non dimentichiamoci  che la Via Lunga, la strada antichissima già ricordata, attraversa il lughese, perciò non sarebbe una sorpresa se in tale area  venisse trovata la Spina “Pelasga”).Così pure corrisponde a lei la Feronia venerata a Bagnacavallo.  Essendo ancora nel tema “Apollo”, dobbiamo ricordare le vicende del suo figlio Fetonte che col carro del sole cadde nel Po. Come pure, che la città istriana di Pola avrebbe preso tale nome da lui. Non si può non ammettere che sono molti i  collegamenti delle nostre zone con l’Apollo di Delfi.  LIGURI SICULI LELEGI I Lelegi- Ligi sono ricordati da Erodoto (1,171 e V11,172) come popolazione al suo tempo esistente in Grecia. Esistenti in Tessaglia coi nomi Ligyes, Ligynaioi, Lilegi, sono ricordati da Strabone (XII,543, )da Tucidide( VI,2), da Ps Scimmo (941), da Stefano Bizantino e da Aristotele in Macrobio( sat 1,7.)Per il Berve (1966 pag 33), i Lelegi erano Pelasgi, altrettanto dice lo Ps Scimmo(Bardetti 1769 pag 57). Quello che a noi interessa è che questi Lelegi corrispondono ai Liguri; lo dicono sia Eustazio che Tzetze in Licofrone (Sbordone 1941 pag 92),  precisando che l’eponimo dei Liguri si chiamava Ligyes, come  pure corrispondono agli Aborigini (Capovilla 1958 pag 201), come pure corrispondono agli Ambrontas(Ps Scimmo  941). Ancor più interessante è il constatare che a loro volta i Liguri e  Siculi sono  la stessa popolazione; lo sappiamo da Varrone e da Catone(Capovilla1955pag 33), da Diodoro Siculo (V,6) e da Festo (424). Filisto , in Dionisio di Alicarnasso (1,22), ci fa sapere che 80 anni prima della guerra di Troia, Liguri e Siculi  arrivarono in Sicilia, ma che per un certo periodo avevano abitato sulle coste alto Adriatiche. Non a caso Plinio( III,13)dice” Numana a Siculis condita” e Solino(2,1,10),  aggiunge, che questi avevano fondato  Ancona. Grazie a questi Siculi il culto di Gerione da Abano Terme  sarebbe arrivato in Sicilia(Susini 1985 pag 9-17). Sappiamo  inoltre da Eudosso, che Adrio,  un discendente dei Siculi,  avrebbe fondato Adria (Mastrocinque1990 pag 49). Siculi sarebbero anche, secondo Pausania (I,28), quei Pelasgi che costruirono il famoso muro di Atene, che a loro volta corrispondono a quei“Tirreni”, che per Strabone(V,2 )erano partiti dalla cittadina italiana di Regisvilla. Pelasgi e Liguri sarebbero dunque la stessa popolazione; infatti sono antropologicamente identici. Pure gli  Euganei sarebbero Liguri (Pais 1916 pag 103. Il Conero avrebbe preso tale nome da Cunaro, il condottiero dei Liguri che secondo Virgilio(Servio Eneide X 186), avrebbe aiutato Enea nella guerra contro Turno.Vi sono buone ragioni per ritenere che   questi Lelegi Liguri Siculi siano una sola popolazione, che in antico


abitava  nel Caucaso, successivamente irradiata  verso l’Anatolia, verso la Grecia e verso l’Italia, cioè  per la  famosa “Legge delle tre penisole” tanto cara al Ferri ed al Capovilla, e che successivamente, con i suddetti  o con altri nomi possono essersi di nuovo incontrati. Gli esempi al riguardo non mancano; Enea venne in Italia per incontrare i suoi avi Dardani,(Braccesi 1994 pag 53), i coloni Greci che colonizzarono la Sicilia furono sorpresi nel  constatare che le popolazioni  già lì stanziate, conoscevano la loro lingua, adoravano i loro dei, conoscevano le leggende dei loro eroi, altrettanto è capitato a quelli che arrivarono in Sardegna. Quando il console romano Mario nel 101 a.C affrontò nei pressi di Ferrara i Cimbri, che erano pure detti Ambrontas, rimase  sorpreso  nel constatare, lo riferisce Plutarco,(vita di Mario 19) che l’urlo  dei Liguri e dei Cimbri era identico e, guarda caso, il capo di questi ultimi si chiamava Ligias. Questi avvenimenti  e tanti altri che si potrebbero riportare, dimostrano che questi popoli provenivano  dalla stessa zona.



I MICENEI La presenza micenea in alto Adriatico è documentatissima. Sarebbe lungo l’elenco dei frammenti ceramici  e dell’ambra “tipo Tirinto” venuti alla luce  in “zona”; Torcello, Nezanzio, Montagnana, Pizzughi, fondo Paviani e per tutti, Frattesina Terme. Queste presenze dimostrano in modo inequivocabile  l’esistenza in queste zone  di traffici Micenei. Non solo, quasi sicuramente i Micenei  hanno usato la foce padana per irradiarsi verso  alcune zone Tirreniche, per esempio a Luni sul Mignone, come giustamente aveva previsto l’Oestenberg (1967 pag 246). Ma vi sono andati  usando  tragitti tracciati sulle vette delle montagne, come era loro usanza; non a caso in una cima, in prossimità di Monte Battaglia(valle del Senio), è stata rinvenuta l’ambra “Tipo Tirinto”(Catarsi cit,). Il Mastrocinque ripete spesso che elementi Protovillanoviani ed elementi Micenei sono spesso indivisibili .  Essendo in tema “popoli”, non possiamo non citare i Sabini;(”Plinio  Ravenna Sabinorum Oppida); i Liburni, gli Umbri (dei Budrio, villaggi da loro costruiti, ne sono stati contati ben 48 solo in Romagna); i Latini, e gli Illiri. Illirico è il primitivo nome di Bagnacavallo, cioè Gabellum. Si tratta di popoli che risultano ben presenti in queste zone e  ci sarebbe molto da dire al riguardo della loro provenienza.

GLI ARGONAUTI Per Argonauti si intende un gruppo di eroi greci partiti da Iolco in Tessaglia, destinazione Colchide (mar Nero), scopo, conquista del “Vello d’oro”. Non è chiaro cosa in antico si intendesse per “vello d’oro”; per il mito era la pelle dell’ariete alato che Zeuz   avrebbe mandato per  salvare Frisso ed Elle  da un sacrificio. Dagli antichi era generalmente considerato  un simbolo di  dignità reale e di sovranità. Per  Isodoro(Orig libro III) e  Igino (Fab CXXXIII), era  la pelle del montone  nato da Nettuno, per Tzetze,(Licofrone 562) ed Apollodoro(libro I), era invece  il montone di Mercurio; aggiunge Simonide,(Apoll Rodio libro IV), che era di colore porpureo, per Giovenale era d’oro, altrettanto per Pindaro.Che questo montone  avesse fatto il viaggio  dalla Grecia  in Colchide volando per aria, lo dicono Apollodoro,(libro I) Omero,(Iliade  libro VIII),  Luciano(Dialoghi), Nonno(libro X),  Filostrato (Icon Glauc)e Sant’Agostino (De civit dei libro XVIII). Che ci sia andato invece  a nuoto, ne sono convinti  Manilio ed Ovidio. Per la stragrande maggioranza degli antichi scrittori era una “pelle”, per Diodoro Siculo(libro III), confermando Palefato, era invece il tesoriere di Atamante che portava con sé una statua d’oro; per Seneca (Medea), era un libro in cui era scritto come tramutare in oro ogni metallo; per Eustazio, era l’oro che i Colchi avevano raccolto con le pelli di animali, per Newton(Chronologie 104)  lo scopo della spedizione Argonautica  non era un “vello” ma il tentativo di convincere le popolazioni del Mar Nero a ribellarsi allo strapotere degli Egiziani.  Per arrivare a destinazione, gli


Argonauti  fanno tappa a Lemmo, Samotracia, passano il Bosforo, costeggiano  le rive orientali del Mar Nero e dopo alterne vicende  conquistano il “vello d’oro”. Questo, salvo pochissime eccezioni, è il percorso dell’andata che ci hanno tramandato gli scrittori antichi. Ben diverse sono invece le testimonianze antiche al riguardo del viaggio di ritorno.Per Apollonio Rodio,(IV 259) e per Pompeo Trogo(Justin XXXII 3,14), sarebbe  fiume Danubio, fiume Risano, mare Adriatico, fiume Po, fiume Rodano, Mar Tirreno, Tessaglia, Per Timeo(FGH66), fiume Don, mar Baltico,  oceano Atlantico, stretto di Gibilterra, mar Mediterraneo, mar Tirreno,Tessaglia. Per Esiodo(framm 64), Ecateo(FGH1) e Pindaro(Pitiche V 251), fiume Fasi, oceano Indiano,  mar Rosso, mar Mediterraneo, Tessaglia.Per Euripide(Medea 431) e  Callimaco, il tragitto del ritorno sarebbe stato identico a quello dell’andata. Da una delle più antiche  leggende che descrivono questo viaggio, la così detta “Leggenda Minia”,  apprendiamo, diversamente da quasi tutti gli altri commentatori antichi, che  l’itinerario dell’andata non avrebbe interessato le sponde del mar Nero, ma le sponde dell’Adriatico (Sgubbi 1999), conseguentemente  gli unici riferimenti geografici  concordanti fra i vari racconti, sarebbero il Po e le isole Elettridi, ma con una sostanziale differenza: per la leggenda “Minia” riguardano il viaggio di andata e quello del ritorno, per tutti gli altri racconti riguardano  solo il viaggio del ritorno. Per la leggenda “Minia”, la destinazione degli Argonauti  non era la Colchide, ma la “Colicaria” (Graves1983 pag 732), zona della bassa mantovana ricordata nell’Itinerario Antonini. Questa  “Colicaria” ha ricevuto tale nome dai Liguri-Ligyes, che a sua volta avevano dato il nome alla Colchide, cioè alla località da loro abitata in tempi remotissimi. Il  fiume che risalirono  non era il Fasi, ma il Po; scopo della spedizione non era  una pelle di montone, ma l’ambra, preziosa resina  provenienti dai paesi Baltici, che  aveva le isole Elettridi come punto di smistamento. Considerato che Circe si sarebbe trovata nella isola di Lussino, gli Argonauti non ebbero più bisogno di andare nel Tirreno. Oltre a questa leggenda vi sono altre testimonianze che  ritengono solamente “Adriatica”  la saga degli Argonauti; quella di Eumelo di Corinto(Capovilla1957)pag 749) e quella di Igino (Fabula 23). Occorre anche tener presente che per  Omero la nave Argo non era  andata nella Colchide. Licofrone (Alex  1364), dice che gli Argonauti sono Pelasgi; nelle Argonautiche Orfeiche(95) è scritto che gli Argonauti sono pure detti Mini, cioè antichi abitanti della Tessaglia, ebbene, abbiamo già  detto che i Pelasgi  sono i Tessali, e essenzialmente Tessala è la saga Argonautica: Tessala la sede  sia della partenza che del ritorno, Tessali i componemti della spedizione, Tessalo l’oracolo  a cui si rivolsero, Tessala la dea  Artemide  a cui gli Argonauti eressero ovunque dei templi. Sia gli Argonauti che i Tessali   approdarono alle isole Elettride. Le gesta degli Argonauti sono una perfetta “fotocopia “ delle gesta “Pelasghe”, ed i loro tragitti dalla Grecia alle nostre zone sono, a loro volta, la “fotocopia” del tragitto Iperboreo. Sia gli Argonauti che i Pelasgi avevano per patrona la Hera Pelasga, ebbene, dice Strabone (V,1), che un tempio a lei dedicato, si trovava dalle nostre parti.  A loro volta, come in parte vedremo, quasi tutti miti  ambientati in alto Adriatico sono in qualche modo collegati agli Argonauti. Con  un articolo, dal titolo “Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica,” (Sgubbi 1999),  ho fedelmente descritto  l’importanza che la saga Argonautica ha avuto per le nostre zone.  


DEDALO ED ICARO Il Torelli(1993 pag 63), commentando il racconto che Polemone ha fatto al riguardo del tesoro di Spina a Delfi, ( ove ricorda la presenza in detto tesoro di due statue di marmo), ipotizza che queste potevano rappresentare Dedalo ed Icaro e mette in evidenza  il culto che Dedalo aveva  nel Delta Padano. L’ipotesi non è molto credibile, in quanto Polemone dice che si tratta di due “fanciulli”; bene dice invece  il Torelli(ci, che è ben rappresentato il culto di Dedalo nella zona Spinetica; si


trova infatti  in una stele Felsinea e nella così detta Bulla  di Baltimora, un vaso trovato nei pressi di Comacchio. Molto probabilmente  la presenza in queste zone di Dedalo può essere opera tarda degli Etruschi, a ricordo delle bonificazioni idrauliche che questi effettuarono nel Delta del Po, ma il Prayon,( 1993 pag 103) dice che  queste raffigurazione sono  piu antiche, infatti si trovano raffigurate in un vaso del VII secolo a.C. trovato a Caput Adria. Ma vi è una testimonianza ancor più antica  che attesta la presenza di Dedalo  in queste zone; si tratta del noto passo dello Ps Aristotele (81)ove si legge che in una isola Elettride,  Dedalo, avrebbe costruito due statue, una per sè ed una per il figlio Icaro, ma che poi dovette scappare a causa dell'’arrivo dei”Pelasgi”. Queste isole Elettridi, che abbiamo già ricordate parecchie volte, sacre ad Artemide, approdo degli Argonauti, e “tappa” per gli Iperborei, sono pure, ricordate dallo  Ps Aristotele (81), Pomponio Mela(II 114), Strabone (V,1) ed Apollonio Rodio(305),  si trovavano  presso le foci del Po, ed erano il “capolinea” per il commercio dell’ambra  baltica.

I DIOSCURI Abbiamo già accennato al ritrovamento di due statue che rappresentavano presumibilmente i due gemelli Castore e Polluce, avvenuta nelle vicinanze del tesoro IX del santuario delfico, un tesoro che seppur con tutte le riserve del caso  puo essere “il nostro”, ebbene, a parte questo, i Dioscuri sono documentati  in alto Adriatico  da varie fonti antiche, in particolare da Apollonio Rodio (IV,590), infatti i due gemelli  facevano parte dei componenti della spedizione Argonautica che come abbiamo visto, è bene ambientata nelle nostre zone. In particolare  questi  sono ricordati in quanto  nel corso della saga Argonautica si sarebbero fermati dalla nostre parti per fare abbeverare i loro cavalli(Marziale epig IV 25 e VIII 48). Il più famoso di questi cavalli  è Cillaro,un cavallo più volte ricordato da Stesicoro,(Virgilio Georgiche III,90). In Grecia  vi era l’usanza di sacrificare ai Dioscuri un cavallo bianco,(Stella 1977pag 35); ebbene, un cavallo bianco è presente sia come figura che col nome Cillaro, nello stemma di Bagnacavallo, e un’antica  tradizione vuole questa città costruita sopra ad una isola Eletrride. Il culto dei Dioscuri  in alto Adriatico è pure ricordato in una iscrizione del VI secolo a.C (Prosdocimi 1990). Molto probabilmente tale   culto è arrivato dalle nostre parti grazie alla leggenda Minia, che come abbiamo detto,  descrive  il più antico culto Argonautico.

ALTRI COLLEGAMENTI A tutti questi collegamenti se ne  possono aggiungere  altri: Dionisio, che come è noto nei tre mesi che Apollo si assentava, diventava  il titolare di Delfi, era venerato a Spina(Baldoni 1989) . Tre fatiche di Ercole( mele delle Esperidi, Mandrie di Gerione e caccia alla cerva Cerinea, )ambientate anche in Alto adriatico, questi avrebbe inoltre dato il nome ad una strada che dalle foci del Po andava in Francia ed in Spagna, cioè la così detta “via Eraclea “, ricordata fra gli altri anche dallo Ps Aristotele (85). Diomede, eponimo di Adria e Spina, ha dato il suo nome alle  isole Diomedee ed a vari promontori, vari sono i santuari  a lui dedicati, per esempio quello ricordato da Strabone V,214, ed un sacrario pure da lui ricordato (V,1), ove si sacrificava un cavallo bianco. Non sarà per caso quello ricordato da Omero?Dice Licofrone( Alex 626), che  Diomede, appena arrivato in Adriatico, avrebbe ucciso il drago  che faceva da guardia al “Vello d’Oro”, ennesima conferma che il viaggio Argonautico è ambientato nel nostro mare. Occorre comunque tener presente che risultano due personaggi qui ambientati con nome Diomede(Terrosi Zanco 1965), perciò spesso si è fatto confusione. Antenore eponimo di Padova, che avrebbe condotto i Veneti  dalla Paflagonia. Odisseo, che  per lo scoliaste di Esiodo, avrebbe governato con i suoi figli sulle isole Elettridi(,Mastrocinque 1993);una sua presenza in Alto Adriatico è documentata anche dalla presenza in loco della   Circe (Graves  1995 pag 559), come pure è testimoniata da  Nanas, cioè dal re che avrebbe condotto i Pelasgi nelle foci Padane.  Per non dire di Enea, testimoniato dalla presenza in loco del  suo antenato  Dardano,e dalla esistenza  in Veneto di una città chiamata Troia. Dice il Musti (1994 pag 99),  che  cotesto toponimo, in tale area, dovrebbe riferirsi  allo sbarco di


Enea. Non si può comunque escludere che  questa città sia invece stata fondata da Dardano  che come è noto, fondò la “storica” Troia. Dal diario del Ditti Cretese, purtroppo perduto, si apprende anche che Enea avrebbe fondato  Corcira Melaina. Dice Licofrone (Alex 1240 ), come abbiamo già ricordato, che il culto dei Cabiri da Samotracia  all’Italia, sarebbe opera di Enea. Non è chiaro a quali dei si riferisca il culto dei Cabiri, ma questo culto era diffusissimo in Italia, in particolare  era diffuso frà i Reti, che per Livio (V 33), erano Etruschi, dispersi nelle Alpi, al seguito della invasione gallica. Ebbene  questi Etruschi erano   lo dice Diodoro Siculo   (XIV 113), dei “Pelasgi”. Il collegamento Cabiri e Pelasgi  è più volte testimoniato da Erodoto, dice infatti  che  i Pelasgi”, cioè quei “Pelasgi” che l’oracolo di Dodona  indirizzò verso la terra “Saturnia dei Siculi”  Pelasgi erano i depositari dei  misteri di Samotracia. Nelle nostre zone è pure documentato  il culto di Crono  e della sua moglie Rea: dice infatti Apollonio Rodio (IV 325), che l’Adriatico era  detto “mare di Crono”, ed Eschilo  (Prom Incat  v 836), ci fa sapere che era pure detto “mare di Rea”. Per  una disamina di tutte queste testimonianze “omeriche”si rimanda a Sgubbi (2000 ). Non mancano altri indizi: Isole Cassiteridi, cioè le isole dello stagno, ricordate dallo Ps Scimmo( 392); le  Isole Asbirtidi, dal nome di Asbirto, fratello di Medea, l’eroina della vicenda Argonautica; città come Pola, Aquilea, Asporo, Olcinium ed Orico, sarebbero state fondate dai Colchi. Ma non è affatto detto che  questi Colchi  debbano per forza essere quelli che inseguirono gli Argonauti lungo il Danubio; potrebbero essere invece popolazioni che abitavano nelle rive orientali del Mar Nero e che come tante altre popolazioni della zona emigrarono in occidente. Fra l’altro  Pola vantava la tomba di Cadmo ed Armonia; questa ultima  è la sorella di Dardano. La fossa del Po Messanica, che si ricollega alla Messenia  Greca; l’Eridano, il  mitico fiume ove sarebbe precipitato Fetonte.  Per la stragrande maggioranza degli studiosi, questo fiume  sarebbe il Po,  per qualcuno sarebbe un altro corso d’acqua padano,  per altri non sarebbe un fiume italiano. Uno dei  passi più controversi che riguarda il Po  è quello tramandato da Eschilo (testo 4,). Questi dice che l’Eridano scorre in Iberia, cioè in Spagna, ma, dice il Balbo (1846 ), che per Plutarco, l’Iberia significava in antico l’Italia settentrionale, perciò se la testimonianza fosse esatta significherebbe che anche per Eschilo, l’Eridano  sarebbe il Po. Per non parlare dei santuari dedicati a Jupiter  cioè Zeuz; quello di Gabicce, quello di Bagnacavallo ed altri esistenti in varie zone. Essendo in tema  collegamenti, si può aggiungere, seppur a titolo di curiosità, alcune probabili tracce lasciate dai Pelasgi nelle nostre zone: come è noto questi usavano il sistema dodecimale, ebbene, questo numero era molto usato al riguardo della centuriazione, il duodecimarum,(SGUBBI  2001), come pure era usato   nelle piantagioni, quelle dette  “scacchiera in tralice”, che Cicerone chiamava “quincuncem ordines”, come pure era  usato  in occasione della fondazione delle città,  cioè la   già ricordata dedecapoli padana. I triangoli che si riscontrano nella piantagione a“scacchiera”, ove  gli angoli  dei filari riproducono sempre il V,  sono simili a quelli che si riscontrono in molti tratti della centuriazione romagnola.(BRIGHI 2000 pag .75). Molto probabilmente la divisione  in quattro parti della centuria; che ha creato  la “tnuda romagnola” di 12 ettari (una suddivisione identica  come estensione che si riscontra sia a Metaponto,  la più antica colonia greca  dell’Italia, che in Grecia), è opera loro. Una traccia pelasga sarebbe pure il matriarcato  romagnolo. Anche la genetica documenta una persistente  presenza pelasga nelle nostre zone, per esempio: si dia uno sguardo alla piantina  che lo SFORZA(1993 pag 337 ), riporta nel suo libro; questi riporta  una “isola” greca,  esistente nel ferrarese,  ancora contrassegnata in loco dalla diffusa  talassemia. Si tratta di una  malattia diffusa pure nel Metapontino ed altrettanto  in Tessaglia, che come abbiamo visto, è il luogo originario dei Pelasgi-Tessali. 

RIASSUNTO  Come già detto all’inizio, se un turista italiano nel corso della visita al Santuario di Delfi,chiedesse notizie al riguardo dei tesori di Spina e di Cerveteri, non riceverebbe  nessuna risposta, ebbene al seguito dei “risultati” emersi da questa ricerca, sarebbe opportuno che


nelle piantine allegate alle guide del santuario, iniziasse a  trovar posto, seppur con un punto interrogativo, l’indicazione anche dei nostri tesori, anche perché, in dette piantine, vengono segnalate “come certe”, delle attribuzioni a dei tesori per i  quali  alla loro effettiva “paternità” esistono non pochi dubbi. Effettivamente, come già fatto presente, molti resti di tesori  del santuario delfico sono tuttora anonimi, e conseguentemente ogni tentativo  di attribuzione   deve essere fatto con le dovute cautele, ma è anche vero che, grazie alle caratteristiche che si riscontrano in alcuni tesori, vi sono buone probabilità  che i nostri siano da cercare in quella zona del santuario  e fra quelli descritti. Perciò non si allontanerebbe molto dal vero se una guida turistica, incaricata  di fare da “cicerone”ad un gruppo di turisti Italiani, trovandosi di fronte ai tesori IX,X e XII dicesse:”Molto probabilmente questi resti appartengono ai vostri tesori in quanto , ecc, ecc “.  Ritornando ai possibili collegamenti con popolazioni Greche e medio Orientali; senza alcun dubbio le nostre zone non poterono non essere direttamente interessate dagli sconvolgimenti  avvenuti nel corso  del XIII e XII secolo a.C, che interessarono tutto il Mediterraneo. In quel periodo avvenne di tutto; invasioni dei così detti “Popoli del mare”( ricordati  nelle  iscrizioni egiziane di Medinet Habu ; gli  avvenimenti biblici, gli avvenimenti Omerici, (caduta di Troia e  conseguenti “ritorni”); crollo di imperi (Ittita e Miceneo).Tutti questi avvenimenti crearono inevitabilmente delle migrazioni che a loro  volta crearono delle altre migrazioni, che interessarono tutte le zone Mediterranee e perciò anche queste zone. A ciò va aggiunto che l’alto Adriatico  era un punto importante per il commercio dell’ambra Baltica, perciò anche per questa ragione  sono arrivate nelle nostre zone popolazioni provenienti da ogni parte del mondo. L’alto Adriatico non può vantare fondazioni coloniali,  come invece è accaduto in Magna Grecia, ma può vantare  indizi di precolonizzazione, più che altrove. Chiunque si rende conto che gli avvenimenti accaduti in questo periodo, sono dominati da incertezze, ma è anche vero che pur con tutte le cautele, occorre indagare su tali avvenimenti, anche perché è in quel periodo che sono nate tutte le civiltà italiane(Etrusca, Veneta, Umbra, Picena, ecc). In quel periodo sono state piantate le “radici” delle nostre “radici”. Senza alcun dubbio  molti di quei racconti sono leggendari e perciò non è facile ricavarne notizie storiche, ma è anche vero che le scoperte archeologiche hanno dimostrato che non sono tutte “favole”, perciò meriterebbero maggior considerazione. Idealmente occorrerebbe che ogni libro di storia fosse corredato da  una appendice, con le tradizioni e le leggende, per evitare  che queste vadano perdute. Purtroppo nel secolo scorso, forse a causa della esagerata “Etruscomania”, fu fatta “tabula rasa” di questi racconti e conseguentemente  molti  sono andati irrimediabilmente perduti, con non pochi danni per la conoscenza del nostro passato.  Arrivato alla fine devo comunque ammettere  che a nessuna delle numerose domande sono riuscito a dare quelle risposte, che invece   il tema richiedeva, ma questo era  prevedibile, non a caso il titolo è  “alla ricerca” del tesoro degli Spineti ,  e non “alla scoperta”.  Termino facendo due pressanti inviti agli “addetti ai lavori” (1): si scavi  nell’area preistorica Solarolese di via Ordiere, una area, del cui contenuto  non si sa niente, benchè  la sua esistenza sia nota da quasi venti anni. L’importanza di detti scavi non è solamente quello di accertare la possibilità che detta area possa corrispondere alla Spina “Pelasgica”,( una ipotesi da non escludere, anche se  personalmente non la ritengo possibile), ma in quanto  vi sono buone possibilità di trovarsi di fronte ad una altra Frattesina Terme, come recenti reperti; ceramica probabilmente Micenea e globetti di pasta vitrea, trovati in loco, farebbero  pensare. (II): come è noto,  i Micenei avevano l’usanza di tracciare le strade  sulle creste delle montagne,( così hanno fatto per il tracciato  che attraversa l’appennino lungo la valle del Senio,) ed era pure loro usanza  edificare  lungo tali tragitti qualche  tempio per il culto (i così detti “culti delle vette montane”), ebbene, lungo il percorso appena accennato, vi è una area che, per i reperti trovati, fa pensare di trovarsi di fronte ad uno di questi edifici, occorrerebbe perciò  fare in loco le necessarie  verifiche.


Solarolo ottobre 2001






GIUSEPPE SGUBBI Classe1938, archeologo dilettante; ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere storico: Solarolo dalla preistoria ad oggi (1977); Storia della Beata Vergine della Salute (1979); Contributo sul corso antico del Santerno nel territorio Solarolese (1983); Il territorio Solarolese dalla più remota antichità all’anno mille (1992); ecc







San Procolo titolare  della chiesa faentina di Pieve Ponte   Un enigma agiografico

Il Vescovo di Ravenna?     Il Martire di Bologna?  Il Martire Umbro?


Sulla via Emilia, nei pressi del ponte sul fiume Senio, vi era una pieve molto antica, “Plebe santi Proculi, ricordata  la prima volta nell’ 824.  Questa chiesa, dedicata a San Procolo ed al Salvatore sarebbe pure ricordata in un documento agiografico del V secolo, inedito, riguardante un miracolo di Papa Celestino I   nel corso di un suo viaggio da Roma a Milano. Distrutta  dai bombardamenti dell’ultima guerra, è stata ricostruita a qualche centinaio di metri dal luogo originario: si tratta dell’attuale chiesa di Pieve Ponte, di cui è titolare S. Procolo. Scopo di questo scritto è quello di  portare un contributo alla individuazione del Procolo ivi venerato(1). Si tratta di un  annoso problema  agiografico che, nonostante sia stato affrontato da autorevoli agiografi, è rimasto fino ad ora insoluto. Se prendiamo in mano il calendario  universale della chiesa cattolica (2), ci renderemo conto che sono festeggiati  7 diversi  santi  col nome Procolo : il 14 aprile, Procolo vescovo di Terni;  il 1 giugno, Procolo  martire  di Bologna;  il 4 novembre, Procolo  vescovo di Autun; il 1 dicembre, Procolo  vescovo di Narni; il 1 dicembre, Procolo vescovo di Ravenna; il 9 dicembre, Procolo vescovo di Verona. A questi va aggiunto un altro Procolo, che seppur festeggiato insieme ad altri santi, merita di essere  segnalato: si tratta del Procolo  patrono di Pozzuoli, la cui festa cade il 19 settembre.   Nessuno di questi Procolo  ha le “carte in regola” per essere senza alcun dubbio definito   il titolare di questa pieve, e contemporaneamente nessuno di questi  può essere matematicamente escluso. Il fatto stesso che  gli studiosi  interessati all’argomento si siano differentemente espressi la dice lunga sulle difficoltà che si incontrano in questa ricerca: per il Mazzotti (3) si tratterebbe del vescovo di Ravenna;  per il Lucchesi (4)  corrisponderebbe, almeno per i primi tempi, al martire  di Bologna; per il  professore bolognese Ivan Pini (5),   si tratterebbe invece  di un vescovo o martire  umbro. Considerato che  da questi tre Procolo, il ravennate, il bolognese e l’umbro,  dovrebbe scaturire  il titolare di Pieve Ponte, si rende necessario passarli in rassegna per conoscere, nel limite del possibile, l’origine e la diffusione del loro culto.

PROCOLO vescovo di Ravenna Un Procolo occupa il quinto posto nella lista episcopale della chiesa ravennate, dopo Sant’Apollinare, Aderito, Eleucadio, Marciano e Calogero ed è ricordato nel IX secolo dall’Agnello Ravennate nel suo Liber Pontificalis della chiesa Ravennate (6). Nel 963, l’Arcivescovo di Ravenna Pietro IV avrebbe trovato il suo corpo nella basilica  di S. Probo e l’avrebbe portato nella basilica Ursiana (7).  Nel XIII secolo si parla di lui nella  leggendaria Passio S. Propoli  B.H.L. 6959.  Nel 1311  il vescovo ravennate  Rainaldo ordina


a tutte le chiese della sua giurisdizione di festeggiare tutti i  primi vescovi di Ravenna, perciò anche S. Procolo (8).  Vediamo cosa si è detto al riguardo di questo Procolo: il già ricordato Agnello Ravennate si limita a dire che  fu buono come un padre, che possedeva  una dolce predicazione, e  che, con il termine della vita, pone termine anche al suo sacerdozio, ma non sa dire nient’altro, non una parola al riguardo del periodo e della durata del suo pontificato, non conosce  esattamente il luogo della sua sepoltura, dice  forse nella basilica di Probo o forse in  quella di Eleucadio. A parere  di  uno scrittore del secolo XVI, il Ferretti (9), avrebbe pontificato 10 anni,  dal 131 al 141. Queste date non meritano alcuna  considerazione, in quanto  sono state dedotte dall’erroneo convincimento che il primo vescovo di Ravenna, Sant’Apollinare, avesse  iniziato il governo di tale chiesa verso la seconda metà del I secolo d.C., mandato dall’apostolo Pietro, invece, come è stato ampiamente dimostrato,  tale episcopato  non può essere iniziato prima della seconda metà del secondo secolo o addirittura all’inizio del terzo. Per l’Uccellini (10), per il Loreta (11), per il Mazzotti (12) e per altri, questo Procolo era “siro”, cioè proveniente dalla Siria. Vediamo  in che data è festeggiato  questo S. Procolo: al  1° dicembre  nella Pieve Ponte, nella stessa data  nel calendario ufficiale della chiesa cattolica , altrettanto in un calendario bolognese visto dal Melloni (13). Una seconda mano ha aggiunto nel manoscritto  del Liber Pontificalis dell’Agnello  la  data 1° dicembre, ma senza specificare se si trattava del dies natalis o della traslazione del suo corpo (14). La data del 1° dicembre si apprenderebbe anche dalla sua leggendaria passio, ma questo riferimento non è chiaro, infatti  l’anonimo estensore si limita a dire che sta leggendo il “panegirico”di questo santo, in una chiesa ravennate, nel giorno della sua festa.  Da questa passio si apprende pure una notizia interessante, cioè che il corpo di San Procolo sarebbe stato trovato in una chiesa  di Ravenna a lui dedicata, una chiesa non ricordata in  nessuna altra testimonianza, perciò sicuramente si tratta di un errore: forse intendeva dire  la  basilica di Probo, dove infatti sarebbero stati trovati  i corpi di quasi tutti i vescovi di Ravenna.  Nessun  antico martirologio ricorda  un Procolo  vescovo di Ravenna. Vediamo se questo vescovo può essere  identificato  col  Procolo  titolare di Pieve Ponte. Per il già  ricordato Mazzotti, considerato che in antico i vescovi ravennati erano proprietari di terre esistenti nei pressi  della Pieve Ponte, questi avrebbero edificato tale chiesa e l’avrebbero dedicata ad un vescovo di Ravenna e precisamente a Procolo, conseguentemente, sempre a parere  di questo studioso,  la data dell’ 824  sarebbe  il più antico ricordo in Romagna del culto  riguardante il  Procolo ravennate.  Due emblematici silenzi mettono  seriamente  in discussione tale ipotesi: quello dell’Agnello  Ravennate e quello di San Pier Damiani.  Iniziamo con quello  dell’Agnello: se questi avesse saputo che  qualcuno dei suoi predecessori avesse edificato una pieve e l’avesse dedicata ad un vescovo ravennate, sicuramente  non avrebbe mancato di riferirlo, come invece ha fatto al riguardo delle pievi di S.Giorgio di Argenta e di Santa Maria in Padovetere (Comacchio) (15),  effettivamente  edificate dai vescovi ravennati. Abbiamo visto invece che al riguardo di questo vescovo, l’Agnello non dice praticamente niente.  Altrettanto significativo il silenzio di San Pier Damiani: questi ricorda tutti i vescovi di Ravenna, in onore di alcuni di loro ha scritto dei  sermoni, ma se avesse saputo che S. Procolo  era oggetto di culto nel faentino e che gli era stata intitolata una  chiesa,  sicuramente  anche  a lui  avrebbe dedicato un sermone, o  almeno avrebbe fatto conoscere il di lui culto. Sicuramente San Pier Damiani sapeva dell’esistenza di una pieve faentina dedicata ad un san Procolo, ma sapeva anche che questo San Procolo non era il vescovo Ravennate. Il già citato Lucchesi,  considerato che  la dedicazione  di Pieve Ponte a S. Procolo (anno 824) era anteriore sia allo scritto dell’Agnello Ravennate che alla data del  ritrovamento  del suo corpo (e quindi alla conoscenza del  suo culto), esclude, almeno per i primissimi tempi, che il Procolo ivi


venerato possa corrispondere al  vescovo ravennate, e  propone,  purtroppo senza spiegarne le ragioni, il Procolo bolognese. Abbiamo già accennato alla proposta  “umbra” del Pini, ma di questa si riparlerà più avanti. La totale inesistenza di un antico culto liturgico riguardante  questo S. Procolo (niente in provincia di Ravenna, niente  in  provincia di Ferrara, niente in Romagna) fa ritenere che ben poche siano le probabilità che la  primitiva dedicazione di Pieve Ponte derivi dal Vescovo ravennate.

PROCOLO   martire  e Procolo vescovo di Bologna. La presenza anche in contemporanea di due Procolo,  fatti oggetto di culto nella città di Bologna, crea non pochi ostacoli alla loro corretta  individuazione.  Un Procolo martire è ricordato nel  396 da Vittricio vescovo di Rouen (infatti nel suo De laude sanctorum XII, si trova scritto “Curat Bononia Proculum”) e nel 403 è pure ricordato da  Paolino di Nola (Carme XXCII :“martyres Agricola et Proculus”): entrambi avevano fra le mani alcune sue reliquie.  Poi   fino alla fine del   primo millennio  non è più nominato e non si ritrova a Bologna  alcuna traccia del suo culto. Nel XII secolo sarebbe stato trovato il suo corpo e deposto nell’urna  attualmente esistente nella  chiesa bolognese a lui dedicata  (16). Pochi anni dopo  è ricordato  nella leggendaria “Passio Sancti Proculi militis ed martiris” B.H.L 6954, e successivamente nella non meno leggendaria “Passio Sancti Proculi Episcopi” B.H.L 6956. Da questa ultima passio si apprende che un S. Procolo, arrivato con alcuni compagni dalla Siria, diventa vescovo di una città umbra, poi, perseguitato  dai pagani, fugge a Bologna e diventa pure  vescovo di questa città, ma dopo poco tempo  viene fatto uccidere dal re dei Goti Totila. Si tratta più o meno di un racconto  estratto di sana pianta dalla leggenda dei XII Siri di cui si  riparlerà più avanti quando passeremo in rassegna il Procolo Umbro. Queste due leggende hanno fatto credere che fossero esistiti a Bologna due Procolo, ma in verità si tratterebbe di uno  solo.  Da tempo  questo  santo è a Bologna fatto oggetto di un  grande culto: a lui sono dedicate varie chiese: quella di S. Procolo dentro le mura, con annesso monastero, la chiesa parrocchiale di Fradusto,  e due parrocchiali ora scomparse: quella  di San Procolo del Lavino, (Pieve  S. Lorenzo in Collina) e quella di  San Procolo  di Piderla, (Pieve  Guzzano ) (17).  Molte sono le rappresentazioni  di questo santo, sia  in pittura che in scultura, fra queste occorre annoverare la statuetta scolpita da Michelangelo. Da  tempi immemorabili  i bolognesi  considerano San Procolo il  loro protettore e lo festeggiano il  1° giugno. Non è chiaro  perché è festeggiato in tale data. Nel Martirologio Geronimiano,  in mezzo ad una selva di nomi, è ricordato al 1° giugno un San Procolo,  ma non si dice che è quello di Bologna. Su questa data dovremo comunque ritornare. Nella lista episcopale della chiesa bolognese (Elenco Renano) (18), non compare nessun vescovo col nome Procolo. Sorprende non poco che questo Procolo bolognese non abbia trovato una sicura testimonianza  nei due conosciutissimi codici liturgici  di Bologna , Cod. Angelica  123  e  Cod. Biblioteca Universitaria 1576 (19). Nonostante il grande culto, ben poco si sa di questo Procolo: non  si sa esattamente da dove provenga, non si conosce esattamente in che periodo sia vissuto, non si è sicuri che il corpo contenuto nell’Arca esistente nella chiesa urbana di San Procolo sia veramente il suo, non si trova espressamente  registrato in nessun  antico Martirologio (Geronimiano, Usuardo, Adone, Floro e Beda). Le poche notizie che si conoscono sono riportate  in un  non ben  decifrabile lezionario membranaceo, ora scomparso, ma a suo tempo custodito dai monaci benedettini del monastero bolognese di S. Procolo. Gli studiosi che si sono interessati di questo santo si sono al riguardo espressi in modo diversi: per il Delehaye  (20), alla luce delle testimonianze di Vittricio di Rouen e di Paolino di Nola, sarebbe l’unico Procolo genuino  che al seguito del diffondersi del suo culto avrebbe “creato” gli altri fra cui quello di Pozzuoli e quello di Ravenna.  Il Lanzoni  non ha mai chiaramente preso posizione, ma in un suo manoscritto, esistente nella biblioteca comunale


di Faenza (21), esprime qualche dubbio al riguardo della esistenza di  questo Procolo.  Il  Pini nega decisamente l’esistenza di questo santo (22). Questi insistenti “dubbi e riserve” hanno oscurato non poco il culto del Procolo  bolognese. Un primo doloroso risultato  lo si può già annoverare: nella  restaurata immagine di bronzo argentato dei protettori bolognesi, collocata nel nuovo altare  della cattedrale di San Pietro, non compare più san Procolo (23). Anche  al seguito delle notizie ricavate dal Procolo bolognese (24), non sono scaturiti elementi che possano far pensare che la primitiva dedicazione di Pieve Ponte possa essere derivata da questo Procolo.    Procolo umbro Molte delle notizie riguardanti questo Procolo si apprendono  dalla già ricordata  Passio XII Siri B.H.L 1620, una leggenda scritta da un monaco dell’VIII sec. del centro spoletino di S. Brizio: secondo tale passio, Procolo e altri 11 compagni (Anastasio, Eutizio,  Brizio,  Abbondio, Giovanni, Valentino, Isacco, Carpofero, Lorenzo, Ercolano e Barattale, tutti provenienti dalla Siria), dopo essere arrivati a Roma, si dirigono lungo la Valle Tiberina (valle del Tevere), per fare opera di evangelizzazione. Alcuni di loro, come poi vedremo, diventano  vescovi di varie città umbre, altri  fondano  dei monasteri, quasi tutti sono costretti a subire il martirio. Si tratta di una leggenda, specialmente dal punto di vista cronologico, completamente inaffidabile: infatti  vengono raggruppate    persone  vissute  a distanza  anche di diversi  secoli , toccando un arco di tempo vastissimo, dall’anno 231 al 656.  Giustamente  il Penco (25) definisce questa Passio  “famigerata”,  poiché,  purtroppo,  è diventata la “croce” degli studiosi di storia ecclesiastica umbra: infatti, pur contenendo racconti fantasiosi, contiene anche moltissime  notizie riguardanti  i  primordi della chiesa umbra, conseguentemente, molto si è dovuto attingere da essa.  Non è chiara la ragione per cui fu scritta tale leggenda, probabilmente lo scopo fu quello di  mettere in evidenza  il contributo “siriaco” alla evangelizzazione della zona. Da questa leggenda  è possibile ricavare anche utili notizie riguardanti l’irradiazione del cristianesimo verso l’alta Italia ed in particolare verso la Romagna. Si tratta di un tema che a mio parere non ha ricevuto  quell’approfondimento che invece meritava. A parere della stragrande maggioranza degli studiosi, il cristianesimo sarebbe arrivato a Classe via mare e poi si sarebbe irradiato nell’entroterra (26): ebbene nessuno vuol mettere in dubbio l’importanza avuta dalla presenza del porto di Classe, che  ha sicuramente favorito  l’arrivo di persone da ogni parte del mondo e perciò anche di qualche cristiano,  ma, se per irradiazione del cristianesimo intendiamo il cristianesimo organizzato (cioè  elezioni dei vescovi, delimitazione territoriale diocesiana, erezioni di chiese, ecc),   l’irradiazione   non può che essere  arrivata  da Roma. La tradizione  che i primi vescovi di Ravenna fossero tutti provenienti dalla Siria e che Sant’ Apollinare sia stato mandato da Pietro non deve essere intesa come una provenienza “siriaca” via mare, bensì come una provenienza “siriaca” via terra, tramite la valle Tiberina (27). Giustamente dice il  Mochi Onory 28) che “il gioco di questa regione, cioè l’Umbria, è quello di ponte di passaggio tra il nord ed il  sud dell’Italia e tra le due città maggiori dell’alto Medio Evo: Roma e Ravenna”. Si tenga pure presente che in Umbria il Cristianesimo si è sviluppato prestissimo (non a caso  proprio in tale area geografica si trovano le più antiche tracce di vita monastica), perciò non deve sorprendere che l’Umbria sia stata una “base” di partenza per l’irradiazione del Cristianesimo verso altre zone. Pur prendendo atto che quella di Ravenna è la diocesi romagnola più antica e che perciò Ravenna ha sicuramente dato un grosso contributo  alla  diffusione della “buona novella” in  Romagna,  non si può escludere che il culto di qualche  santo sia arrivato dalle nostre


parti senza esser dovuto obbligatoriamente passare da Ravenna.  Un esempio su tutti: S. Savino. Ritorniamo ai componenti della Passio XII Siri: quasi tutti  sono elencati e festeggiati nel calendario ufficiale della chiesa cattolica e, oltre che col nome e il  titolo, sono ricordati  topograficamente: il 1° marzo, Ercolano vescovo di Perugia; il 15 maggio, Eutizio di Ferento; il 17 agosto, Anastasio vescovo di Terni; il 19 settembre, Giovanni vescovo di Spoleto; il 9 ottobre, Barattale vescovo di Spoleto; il 10 dicembre,  Carpofero ed Abbondio; il 14 febbraio  Lorenzo vescovo di Spoleto ed il 1° dicembre, Procolo vescovo di Narni. Quasi tutti questi santi sono pure descritti nella Biblioteca Sanctorum. Significativo il  ricordo di alcuni di loro nei più autorevoli ed antichi Martirologi. Tutti questi dati ci dicono che questi santi, pur essendo  le loro gesta   riportate dalla leggendaria Passio, sono realmente vissuti.   E veniamo ora a S. Procolo: la sicura esistenza di questo santo nella Valle Tiberina  è documentata da San Gregorio, che,  in un suo dialogo, ricorda la celebrazione di una messa in una chiesa dedicata a S. Procolo (Beati Proculi  martyris natalitius dies) (29), ma ancor prima il santo è ricordato nella Passio S. Valentini B.H.L.8460, ambientata  sub Claudio, perciò datata al 268-70. Gli antichi Martirologi,  lo recensiscono più volte: si pensi che il Geronimiano lo ricorda in Umbria in ben 5 date: 14 febbraio, 14, 15, 18 aprile e 1 maggio. Le recensioni più significative sono comunque queste: al 1° dicembre quella di Usuardo (Civitate  Narnis  sancti Procoli  presbiter); sempre al 1° dicembre alcuni codici romani del Martirologio di Beda (Interamne  sive  Narniis  Proculi  episcopi et martyris);  al 1° maggio il Geronimiano (Interamma  miliario  sexagesimo  IIII Proculi…..); ancora  il Geronimiamo, al 14  aprile  (Interamna, Procuri). Da queste  antiche testimonianze si apprende che in Umbria un S. Procolo era  venerato  in due città, Terni e Narni, e ricordato in varie date (14 aprile, 1° maggio e 1°dicembre,  a cui naturalmente va aggiunta la data del 1° giugno ricordata nella leggendaria Passio XII Siri).   A Terni da tempi immemorabili si festeggia in aprile un martire Procolo. Naturalmente non è possibile sapere se si tratta di un solo Procolo o di più santi con tale nome. Occorre far presente che, a parere della stragrande maggioranza degli studiosi, si  tratterebbe di un solo Procolo, cioè quello ricordato nella Passio Sancti Valentini e nella  Leggenda XII Siri, che col tempo, come è accaduto anche per altri santi,  avrebbe subito vari “sdoppiamenti”.  Dalle  notizie riguardanti il Procolo “siro” abbiamo appreso  che in Umbria è sicuramente esistito  un santo con tale nome, ma non abbiamo appreso elementi sufficienti per poter dimostrare che questo è il titolare di Pieve Ponte. Ci troviamo perciò ancora al “palo” di partenza, ma il ritrovamento di un antico documento ci permette di fare qualche  passo in avanti:   si tratta di un antico calendario  rinvenuto nel 1895 nella Biblioteca Antoniana di Padova, ma proveniente dal celebre  monastero  benedettino di Leno. Questo calendario  , datato 883, è conosciuto dagli studiosi come “Calendario Carolingio dei riposi festivi”, in quanto descrive  le giornate di festa  di una chiesa locale.  Molto contestata la sua attribuzione: per alcuni è veronese (30), per moltissimi bolognese (31), per il Pini invece (32), alla luce di importanti considerazioni, sarebbe faentino.  Questo calendario contiene una notizia che per la presente ricerca riveste una particolare   importanza: al 1° giugno riporta una “translatio martyrum Procoli et Laurentii”. Questo  significa che  in una chiesa faentina, che potrebbe benissimo  essere  Pieve Ponte,  veniva solennemente festeggiato un arrivo   di  reliquie. Se poi aggiungiamo che in un manoscritto del Martirologio di Beda (33), al  6 giugno è ricordata  una translatio del corpo di Procolo avvenuta a Terni (Et Interamne translatio corporis beati  Proculi, Martyris),  abbiamo la possibilità di conoscere anche il  probabile punto di partenza  delle reliquie.


 Cotesta translazione, o almeno il suo ricordo, si ritrova nel più antico calendario sicuramente faentino (XV secolo) pubblicato dal Lanzoni (34), nel quale  al 1° giugno compare ancora un S. Procolo, ma  questa volta aggregato a S. Nicomede. In  questo calendario compare,  per la prima volta  al 1° dicembre, un  Sancti Proculi archiepiscopi ravennatis.  Ritornando alla nostra translatio, abbiamo visto che insieme a Procolo è ricordato un S. Lorenzo. Ma chi è questo S. Lorenzo? Non  l’universalmente noto Lorenzo, diacono romano festeggiato il 10  agosto (cioè  quello della “graticola”), ma un altro Lorenzo  festeggiato il 4 febbraio, cioè un componente della Passio XII Siri. Se vi è qualche dubbio che questo  sia il Lorenzo  fondatore  del Monastero di Farfa, come riportato  dal Chronicon farfense di Gregorio di Catino, non vi sono invece dubbi  sul fatto che questo sia il Lorenzo che, avendo tenuto  la cattedra sabinese, è ricordato da San Pier Damiani nella lettera che questi mandò a Papa Nicolò II (35). Sono fermamente convinto che  se si facesse  una indagine sulle  numerosissime chiese dedicate a S. Lorenzo, si constaterebbe, come è accaduto in Umbria (36) e nel bolognese (37), che  in alcune di queste non è venerato il Lorenzo della “graticola”,  ma  il Lorenzo “siro”. Se poi si volesse indagare anche su tutti gli altri componenti della Passio XII Siri, apprenderemmo tante cose interessanti, delle vere e proprie sorprese, per esempio che il S. Valentino di Terni, festeggiato il 14 febbraio (cioè il Valentino degli “innamorati”) corrisponde al Valentino “siro” (38). Non a caso quest’ultimo S. Valentino compare  nel Martirologio Romano  proprio al 14 febbraio insieme a Procolo (Interamnae sanctorum Proculi Ephebi,et Apolloni Martyrum qui cum ad sancti Valentini…) e dalla  Passio di S. Giovenale B.H.L. 4614 si apprende pure che  l’oratorio   di Terni, a S. Valentino dedicato, fu  pure fatto erigere  da S. Procolo. Continuando la suddetta indagine, apprenderemmo pure che il S. Eustacchio  titolare di una chiesa faentina ed  il S. Eustacchio di Mordano  corrispondono al  S. Anastasio “siro” (39). Senza alcun dubbio la presenza del Lorenzo  “siro”,  nella ricordata translatio,   conferma che le reliquie non sono arrivate da Ravenna , neanche  Bologna, ma dall’Umbria.  Nonostante questa  translatio  ci abbia fatto conoscere molte notizie interessanti  riguardanti Pieve Ponte, gli “enigmi” enunciati in apertura, sussistono ancora quasi tutti. Infatti  molti sono gli interrogativi che  attendono ancora una risposta: chi ha portato a Pieve Ponte il culto di S. Procolo? In che epoca è stato portato? La data del 1° giugno riguarda solo una translatio? Come mai  è venerato al 1° dicembre?  Vediamo se ci sono elementi che permettano di rispondere ai primi due interrogativi. Il già ricordato Pini, nel corso di due suoi articoli, entra in argomento: nel primo (40), dice che le reliquie ricordate dalla translatio sarebbero arrivate  nel faentino  verso la fine dell’VIII secolo, cioè  nel periodo Longobardo, ma  non  si pronuncia al riguardo di chi le ha portate. Nel secondo articolo  (41), indirettamente, ritorna sull’argomento limitandosi a far  presente che i monaci benedettini che nella prima metà del XI secolo portarono il culto di San Procolo  nella abbazia benedettina di Bologna provenivano da Faenza, ove, aggiunge,  il culto era da tempo  documentato dall’esistenza  di Pieve Ponte,  chiesa a lui dedicata.  Non è chiaro cosa esattamente intenda dire il Pini: intende forse dire che a Faenza vi era, come a Bologna un monastero  benedettino  dedicato a San Procolo, magari  collegato a   Pieve Ponte? Oppure che anche a Faenza il culto di S.Procolo fu portato dai benedettini? Effettivamente vi era  a Faenza un monastero benedettino, cioè Santa Maria “Foris Portam”, ma non mi  pare che abbia avuto, diversamente dal monastero benedettino bolognese, alcun  collegamento con S. Procolo (42). Personalmente non credo ad un  probabile “veicolo” benedettino portatore  nel faentino del culto Procoliano, in quanto tale ipotesi incontrerebbe un  ostacolo forse insormontabile nel “silenzio” di San Pier Damiani: questi, monaco appartenente alla regola “benedettina”, se avesse saputo che grazie  ad alcuni suoi confratelli fosse arrivato a Faenza il culto di S. Procolo, con conseguente


dedicazione di una chiesa, non avrebbe mancato di riferirlo. A mio parere  il culto in Romagna di S. Procolo  è arrivato   in epoca prebenedettina: quando esattamente è difficile dirlo.  Alcuni componenti della Passio XII Siri risultano viventi all’epoca di  Giuliano l’Apostata,  morto nel 363, perciò possono averlo portato  nel corso della già ricordata e documentata irradiazione del cristianesimo umbro verso la Romagna, oppure può essere arrivato  durante il periodo gotico: antiche tradizioni dicono che in tale periodo per sfuggire dalla “persecuzione” del goto Totila, molte persone, sia laici che cristiani, fuggirono dall’Umbria (43). Vi sono buone ragioni per ritenere che la popolazione che ha portato il culto di S. Procolo nelle nostre zone abbia pure lasciato un altro “segno” nella  antica toponomastica:  essendo questa proveniente dalla valle Tiberina, per un certo periodo ha chiamato  Tiberiacum il fiume Senio  (44).

Trattiamo ora l’importante “problema” delle date  ed iniziamo  con quella del 1° giugno, per cercare di capire in particolare cosa in antico  si festeggiava in tale giorno. In questa  data, da secoli, i Bolognesi   festeggiano S. Procolo, perciò quando si dice  1° giugno, si pensa sempre e solo al Procolo bolognese, ma si tratta di una  discutibile attribuzione . Il primo ricordo di un S. Procolo  festeggiato nel bolognese al  1° giugno  risale  al 1065 (45), ma da tempo questo santo si trovava in tale data ed altrove festeggiato. Abbiamo già detto che si trovava ricordato nella translatio dell’883; risulta inoltre che nel 940, in alcune chiese della Toscana, fra cui Prato, al 1° giugno si festeggiava un S. Procolo (46). Ebbene, queste feste procoliane al 1° giugno ben difficilmente possono essere  arrivate nei vari luoghi grazie all’irradiazione del Procolo   bolognese, molto probabilmente sono invece arrivate da altri luoghi nel bolognese.  Il più antico ricordo di S.Procolo, festeggiato il 1° giugno, si trova, come abbiamo già detto, nel Martirologio Geronimiano e risale al VI secolo, ma è ricordato un Proculo senza alcuna indicazione topografica (47), perciò non è possibile ricavarne una sicura identificazione. Verso l’ VIII secolo  questa data compare  nella già ricordata Passio XII Siri. Quest’ultima testimonianza dimostrerebbe una  originaria provenienza umbra del culto di S. Procolo. Anche al 1° maggio  nel Geronimiamo  compare la scritta Interamna miliario  sexagisimo IIII Proculi, cioè viene anche in questa data ricordato il Procolo di Terni, ma potrebbe esserci stato semplicemente uno  scambio di data (dal I° maggio al I° giugno): non sarebbe la prima volta che questo succede (si tenga   presente che  a Bologna   l’annuale fiera di S: Procolo veniva fatta al 1° maggio) (48): questo per dire che le due date potevano benissimo  contemporaneamente convivere.  Purtroppo  non è possibile sapere esattamente cosa si festeggiava il 1°  giugno: una traslazione? un Dies Natalis? Molto probabilmente, con la data del 1° giugno,  veniva in origine festeggiato il  Dies Natalis di un Procolo umbro, cioè quello  ricordato nella  Passio XII siri, successivamente, come abbiamo visto, si festeggiava pure  la translatio del suo corpo. Anche dalle due passio  bolognesi di S. Procolo, sia da  quella del milite che da  quella del vescovo, si apprende che  il 1° giugno corrisponde al suo Dies  natalis. Dopo il Mille  la stragrande maggioranza dei documenti  bolognesi riguardanti S. Procolo  porta la data del 1° giugno, ma con una novità: si trova sempre in compagnia di Nicomede. Questo nuovo inserimento non riguarda solo il bolognese (49), ma riguarda anche noi: infatti nel già ricordato più antico calendario sicuramente faentino (XV secolo), al 1° giugno  si trovano festeggiati  Procolo e Nicomede (Sanctorum  Martyrum  Nichomedis et Proculi). Questo Nicomede è sicuramente il noto martire romano, che  da una Passio si apprende essere morto il 1° giugno (50), perciò non deve sorprendere se si trova festeggiato pure lui  in tale data: quello che sorprende è invece il constatare che  viene menzionato prima di Procolo.  Quando un santo è menzionato prima di un altro, significa che il primo  è considerato più “importante”  del secondo. Se questo è inspiegabile a Faenza, in quanto in loco questo


Nicomede non è mai stato fatto oggetto di un grande culto, che dire del fatto  che anche a Bologna questo Nicomede  si trova sempre menzionato “davanti” a S. Procolo, cioè ad uno dei protettori di Bologna? Ci troviamo forse di fronte ad un “calo” di interesse verso il Procolo bolognese? Può darsi che sia un “sintomo”, anche in quei tempi, delle incertezze riguardanti l’effettiva esistenza di questo Procolo? Sarebbe  interessante conoscerne la vera ragione. Ma ritorniamo ai punti centrali del nostro tema. Veniamo  alla data del  1°  dicembre . Più volte abbiamo ricordato questa data, ma sarà bene ricordarla ancora: sicuramente, almeno dal 1311 ai giorni nostri, in questa data viene festeggiato  S. Procolo a Pieve Ponte. Una mano ignota in un ignoto periodo ha segnato questa data ai margini del manoscritto  Liber Pontificalis  della Chiesa Ravennate. La leggendaria Passio Proculi  archiepiscopi ravennatis,  ci conferma che in tale epoca, al 1°  dicembre, si festeggiava a Ravenna un  S. Procolo, vescovo di  quella città. Al 1°  dicembre  il Martirologio di Usuardo ricorda Narniae sancti Proculi  episcopi et martiris (51). Un S. Procolo è ricordato in Umbria e  in tale data  anche in alcuni manoscritti del Martirologio di Beda. Alcune domande sono  d’obbligo: cosa si festeggia  il 1° dicembre? Il dies Natalis? Il ritrovamento del corpo? Una translatio? Per quale ragione  nel faentino  un Procolo è festeggiato pure al 1° giugno? Forse si tratta di due Procolo? O forse è lo stesso Procolo festeggiato due volte? Altra domanda: a che epoca risale l’inizio del culto di S. Procolo a Ravenna?  Solo rispondendo a queste domande è possibile  dare un contributo alla risoluzione degli “enigmi” di Pieve Ponte. Purtroppo  rispondere non è facile, ma niente impedisce di approfondire ulteriormente l’argomento e magari formulare qualche ipotesi.  Iniziamo l’approfondimento cercando  di sapere  quale è il più antico  ricordo di un S. Procolo  in Romagna festeggiato il  1° dicembre. Abbiamo già detto che  qualcuno ha scritto questa data nell’opera dell’Agnello Ravennate: ebbene,  considerato che questa opera è datata all’846 (52), l’aggiunta  non può  che essere successiva a tale anno. Nel Martirologio di Usuardo questa data è stata scritta nell’ 870, perciò molto probabilmente chi l’ ha scritta nel manoscritto dell’Agnello  l’ha attinta  dal Martirologio di Usuardo, anche se, naturalmente, potrebbe averla attinta anche da una altra fonte. Un’indagine sugli autori dei Martirologi  anteriori a Usuardo  potrebbe forse portare qualche utile elemento. Iniziamo con quello di  Adone: questi scrisse il suo martirologio nell’ 855, perciò prima di quello di Usuardo, ma dopo l’opera dell’Agnello Ravennate,  e per cercare notizie  per il suo Martirologio  soggiornò parecchio tempo a Ravenna (53). Dal momento che nel Martirologio di Adone non vi è traccia del Procolo di Ravenna, significa che  questi, pur avendo sicuramente avuto fra le mani il manoscritto dell’Agnello, non notò  la data del 1° dicembre, questo significa che probabilmente non c’era. Se ci fosse stata, non avrebbe potuto non tenerne conto, e l’avrebbe riportata, perciò  quella scritta  fu fatta  dopo il soggiorno ravennate  di Adone, e dopo la pubblicazione del martirologio di Usuardo. Ammesso che questa ultima considerazione sia giusta, rimane sempre inevasa una domanda: in che periodo  a Ravenna si è iniziato a festeggiare  il S. Procolo del 1° dicembre? Alla luce delle attuali conoscenze mi pare impossibile dare una risposta precisa e sicura, tutto quello che si può fare è  delimitarne  il periodo; non  molto prima dell’870 (Martirologio di Usuardo), e non oltre il XIII secolo (epoca della Passio di Procolo ravennate). Probabilmente il culto di  S. Procolo a Ravenna  è iniziato al seguito del ritrovamento del suo corpo (anno 963). Continuando a ritroso l’indagine intrapresa, vediamo ora dove Usuardo può aver attinto le notizie riguardanti il Procolo del 1° dicembre: non dai Martirologi  Geronimiano , di  Floro  o di Adone, forse da quello di Beda,  ma molto più probabile dall’antichissimo  Martirologio Romanum Parvum,  un martirologio, ora  perduto, ma che  a parere di vari studiosi  era molto diffuso in Umbria (54). Probabilmente le cose stanno così: la data del 1° dicembre corrisponde ad una festa


del  Procolo di Terni e la mano ignota che  l’aggiunse  al  Liber Pontificalis Ravennatis l’aveva appresa da Usuardo o da altra fonte umbra; successivamente, come abbiamo appreso dalla leggendaria Passio Procoli,  nel XIII secolo  in tale data veniva festeggiato S. Procolo a Ravenna; più tardi, al seguito dell’ordinanza del vescovo ravennate Rainaldo, iniziò ad essere festeggiato in tutte le chiesi romagnole. Ammesso che sia accaduto veramente questo, occorre sempre rispondere alla domanda “chiave” di questa ricerca: a quale di questi Procolo corrisponde il Procolo titolare di Pieve Ponte? Precisiamo meglio la domanda: quale dei  due Procolo umbri era venerato a Pieve Ponte prima del 1311? Quello di Narni e di  Usuardo, festeggiato il 1° dicembre, oppure quello di Terni, festeggiato il 1° maggio, il 1° giugno e il 14  aprile ? Difficile  dare una risposta sicura, ma considerato  che un Procolo è sicuramente documentato in Romagna al 1° giugno,  almeno dall’ 883 (festa della translatio),  il titolare di Pieve Ponte poteva benissimo, prima di tale data, corrispondere  al Procolo  di Terni, che poi corrisponderebbe al Procolo ricordato nella Passio XII Siri. Se così fosse, potremmo tentare, di  fare   qualche  ipotesi: dai primissimi tempi il Procolo venerato a Pieve Ponte corrisponde al Procolo  della Passio XII Siri,   arrivato nel faentino  non  dal ravennate ma dall’Umbria (come la  traslatio e la data del 1 giugno farebbe pensare). Poco prima del  Mille, essendo comparso a Ravenna un Procolo, venerato al 1° dicembre, il suo  culto potrebbe benissimo essersi espanso verso il faentino: un’espansione che troviamo  documentata a Pieve Ponte  nel XIV secolo. Ma il culto del Procolo a Pieve Ponte del 1° dicembre non  soppianta immediatamente il culto del Procolo del 1° giugno: lo troviamo infatti,  seppur per poco tempo, ancora presente nel più antico calendario faentino del XV secolo. Riassumendo ancor meglio tale ipotesi: il Procolo umbro venerato al 1° giugno sarebbe arrivato a Pieve Ponte  senza essere “passato” da Ravenna, mentre il Procolo umbro venerato il 1° dicembre sarebbe arrivato a Ravenna senza essere “passato” da Pieve Ponte, e solo successivamente si sarebbero  congiunti.  Tocchiamo ora l’ultimo  “enigma”:  sarà veramente esistito il Procolo  umbro venerato il 1° dicembre? o si tratta del Procolo umbro del 1° giugno sdoppiato? Oppure: sarà veramente esistito il Procolo umbro del 1° giugno, o si tratta del Procolo  umbro del 1° dicembre sdoppiato?    Ricostruendo e riassumendo le vicende  “procoliane”, che mi  sembrano  essere emerse  da queste ricerche,  tento di dare una mia risposta  a quest’ultima domanda. Inizio dai primordi: nel IV secolo in Umbria vi era un solo Procolo, quello ricordato nella Passio di S. Valentino e da S. Gregorio, si sapeva  che era arrivato dalla Siria,  ma non si sapeva esattamente ove fosse sepolto: Ferento? Narni ?Terni?  In  data 1° dicembre si trovava recensito nello scomparso Martirologio “Parvum” con la scritta Dies Natalis. Nell’VIII secolo un monaco, intenzionato a mettere in risalto il contributo “siriaco” alla evangelizzazione dell’Umbria, “saccheggia” le Passiones all’epoca esistenti,  prende dei santi  orientali senza preoccuparsi  del periodo in cui sono vissuti, e “crea” la Passio XII Siri. Questo monaco, non conoscendo la data del 1° dicembre ricordata dal Martirologio Parvum, mette nella sua Passio la data del 1° giugno che il Martirologio Geronimiano ricorda senza nessuna indicazione topografica, e che  in origine  poteva anche essere un 1° maggio, creando così di fatto un altro Procolo. Il culto di questo secondo Procolo si estese verso  la Toscana e l’ Emilia_Romagna, e questo santo può benissimo essere diventato il titolare di Pieve Ponte. Quelli che successivamente  ebbero la necessità di scrivere una Passio di S. Procolo,  come per esempio i monaci bolognesi, bisognosi  di rivitalizzare il culto di un loro santo,  misero  nelle loro Passio la data  del 1° giugno. Tale data non fu messa solo perché trovata nella Passio XII Siri, in quanto corrispondente al  suo Dies Natalis, ma anche perché tale data si trovava scritta  in alcuni calendari, per esempio il “carolingio”,  a ricordo della  sua translatio. Conseguentemente a queste vicende la data del 1° giugno diventò anche il dies Natalis del già da tempo  “rinomato” Procolo  martire di


Bologna. Ma vi era anche il vero  Procolo  umbro, cioè il vescovo di Narni, la cui  morte era ricordata,   prima nel  Martirologio Romanum Parvum  e successivamente nel Martirologio di Usuardo, al 1° dicembre. Questo Procolo, al seguito  della diffusione del suo culto in Romagna è diventato il titolare della chiesa di Pieve Ponte. Conseguentemente,  a mio avviso, sia il Procolo del 1° dicembre, che il Procolo del 1°giugno sono i titolari di Pieve Ponte, in quanto sono lo stesso santo.  Sarebbe interessante sapere, ma  a questo punto sarebbe solo  una semplice curiosità,  se la primitiva  dedicazione debba essere attribuita al Procolo del 1° dicembre oppure a quello del 1° giugno, ma non avendo a disposizione alcun elemento, non sono in grado di  dare alcuna risposta.    Al seguito dei risultati conseguiti (anche se pochi) si può pure ipotizzare che il  Procolo vescovo di Ravenna sia un vescovo “inventato”,  cioè messo a suo tempo nella lista episcopale ravennate col solo scopo di allungarla e di dimostrarne l’origine apostolica. La curia di Ravenna ha avuto più volte tale necessità, sia durante il pontificato dell’Arcivescovo Massimiano (55), per  raggiungere i diritti metropolitani,  sia durante  il pontificato del vescovo Mauro, per  raggiungere l’indipendenza da Roma (56). Non si può escludere a priori che   i responsabili della chiesa ravennate, cercando un vescovo o più vescovi, abbiano preso il Procolo umbro (il cui culto poteva a quei tempi  essere  diffuso nella loro giurisdizione  ecclesiastica, o essere stato preso di sana pianta dall’Umbria).  Non so fino a che punto possa essere valida cotesta ipotesi, tuttavia alcune  credo possa essere sorretta da alcune constatazioni:  a) La già ricordata  impellente necessità di dimostrare l’origine apostolica della loro chiesa. b) Il fatto che S. Procolo  sia stato conosciuto a Ravenna solamente dopo il  ritrovamento del suo corpo, con tutti i dubbi al riguardo dei ritrovamento dei corpi in epoca medioevale. c) Il fatto che questo Procolo  non sia ricordato  da San Pier Crisologo nei suoi sermoni (57). d) Il fatto che egli non faccia parte della teoria dei santi in Sant’Apollinare Nuovo. e) Il fatto che egli non fosse segnato nell’antico Calendario italico (58). f) Il fatto che egli non fosse citato neppure nel Lezionario Leoniano (59). g) Il fatto che egli, diversamente dagli altri primi vescovi di Ravenna,  non sia recensito da nessun antico Martirologio: si tratta di un significativo  “silenzio”.  Particolarmente significativo è anche il già ricordato “silenzio” di Adone: molto probabilmente questi  si era anche lui reso conto che il Procolo di Ravenna era un Vescovo “inventato” e perciò non ha ritenuto opportuno farlo  entrare nel suo Martirologio.  Rileggendo il commento che il Delehaye ha fatto al riguardo del vescovo Procolo di Bologna (“questo è l’unico vescovo genuino e potrebbe corrispondere a quello di Pozzuoli ed a quello di Ravenna”)(60), mi  sono convinto che anche  il grande bollandista  aveva seri dubbi  sull’esistenza del Procolo Ravennate.  Se  quest’ultima ipotesi   risultasse vera, ci troveremmo di fronte ad un  incredibile paradosso: fino ad ora vi erano due S. Procolo (quello bolognese e quello ravennate) ritenuti gli unici “genuini”,  e un S. Procolo (il “Siro”) ritenuto  solamente frutto di una leggenda; ebbene  la situazione verrebbe  completamente capovolta: quello ritenuto “leggendario”  diventerebbe l’unico Procolo “genuino” e i due “genuini” (61) diventerebbero  due santi “inventati”.  Un’ultimissima considerazione: nonostante mi sia sforzato di dare  ad ogni costo  una risposta ai vari quesiti (62), devo prendere atto (e non poteva essere diversamente) che  “l’annoso problema agiografico” è rimasto in gran parte irrisolto, infatti non ho potuto fare altro che formulare delle ipotesi.     Un aspetto mi preme sottolineare: qualunque sia il Procolo venerato a Pieve Ponte - il “siro”, il ravennate, o il bolognese -  egli è pur sempre un santo, cioè un   intercessore fra noi e Dio,  e perciò meritevole  di essere continuamente venerato.



(1) Per fare questa ricerca, oltre a passare in rassegna i volumi della Biblioteca Sanctorum (approccio iniziale ed indispensabile per chiunque  intenda fare una ricerca  agiografica) e  i numerosissime dizionari  dei  santi, ho dovuto consultare tutta una serie  raccolte per  un ulteriore approfondimento che il tema ha richiesto: Atti dei Santi, Passioni dei Martiri, Martirologi, (Geronimiano, Romano , Adone, Florio, Usuardo, Beda, ecc), liste episcopali, codici Liturgici, la Biblioteca Hagiografica Latina e naturalmente i calendari  antichi e moderni. Come pure ho dovuto setacciare  riviste e periodici specifici: Analecta Bollandiana, Rassegna Gregoriana, Ravennatensia, Felix Ravenna, Studi e testi, Atti di Convegni,  ecc,  e  gli studi effettuati da molti studiosi del ramo, sia italiani che esteri: LANZONI, ZATTONI, TESTI RASPONI, LUCCHESI, ROSSINI, MAZZOTTI, GORDINI, RIVERA, FANTI, ROPA,  PINI, PRETE,  ZANETTI, DELEHAYE GAIFFER, MIGNE, BAUMSTARK ,GRÈGOIRE, DUBOIS, QUENTIN, ecc. (2) Il calendario si trova  nella collana :  Storia dei santi e della santità cristiana, 1991. (3) M. MAZZOTTI, La pieve Ponte in “Studi Romagnoli”, 1957, pp. 511-523. Questo autore  tocca solo marginalmente il tema Procolo, in quanto il suo lavoro è incentrato quasi esclusivamente sulle vicende storiche ed architettoniche della chiesa. (4) G. LUCCHESI,  Note agiografiche sui primi vescovi di Ravenna, 1941, pp. 110. (5)  A.I.PINI, Nuove ipotesi su san Procolo martire di Bologna in San Procolo e il suo culto 1989, pp. 23-44. Questo autore, con i suoi vari  articoli  riguardanti il Procolo Bolognese, ha creato un salutare “sconquasso”, infatti  ha “spinto” ad un   approfondimento del tema.  (6) M. PIERPAOLI, Il libro di Andrea Agnello, 1988, pp.35. (7) G. LUCCHESI,  Procolo vescovo di Ravenna in “Biblioteca Sanctorum” IX 1967. (8) F.LANZONI,  Il più antico calendario ecclesiastico faentino 1914, pp. 22. (9) F.LANZONI, Le fonti della leggenda di S.Apollinare, in “Atti Mem Romagna”  1915 pp.175. (10) P. UCCELLINI, Dizionario storico di Ravenna, 1855, voce “Procolo”. (11) G. LORETA, I santi di Ravenna, 1909, pp. 100. (12) M. MAZZOTTI, La Siria a Ravenna ,in “CARB”,1974, pp. 223. Per il Procolo di Ravenna  non esiste uno studio specifico, ma si possono trovare importanti  spunti dai vari scritti del LUCCHESI  e di  DELEHAYE. (13) E. LODI, Gli uffici di S.Procolo, in “Ravennatensia”, IX, 1981, pp. 407. (14) M. PIERPAOLI, Il libro di Andrea Agnello, 1988, pp. 35. (15) Ibid, pp. 108. (16)  M. FANTI, San Procolo, la chiesa, l’abbazia, leggenda e storia, 1986, pp. 37. (17) Ibid, pp. 54.Vi sarebbe pure a parere di R.Zagnoni, una pieve ,quella di Succida, dedicata a S: Procolo, ma  si tratta di una dedicazione con buone ragioni esclusa dal Pini. (18) F. LANZONI, San Petronio vescovo di Bologna,1907, pp.201-215. (19) A.I. PINI, Nuove ipotesi su S.Procolo martire di Bologna ,in  “San Procolo e il suo culto”,1989 pp. 29. (20) H. DELEHAYE, Les Origines du culte des martyrs, in « Subsidia Hagiographica » 20 1933, pp 328. (21) F. LANZONI , Manoscritto in biblioteca Manfrediana Faenza , LL VI  3-2/7. (22)  A.I.PINI,  Nuove ipotesi ecc  op , cit, ,pp. 32. (23) A.I. PINI, Un’agiografia “militante”: san Procolo ,san Petronio, e il patronato civico di Bologna medioevale, in  “Atti MemRomagna” 1998, pp. 279.


(24) Molto è stato scritto su S. Procolo di Bologna:G.B.MELLONI  Atti, o Memorie degli  Uomini illustri in Santità nati o morti in Bologna,1786; S. BALDASSARRI, S.Procolo, in “S.Procolo e la sua tomba”, 1943; E.M. ZANOTTI  Storia dei santi  Procolo soldato e Procolo siro 1742: C.DEGLI ESPOSTI, San Procolo, 1983 ; G.D.GORDINI, voce Procolo martire di Bologna in “Biblioteca Sanctorum”; naturalmente si vedano  gli Atti del convegno, San Procolo e il suo culto, 1989 con articoli di Pini, Ropa, Gregorie, Zanetti, Prete, ed altri. (25) G.PENCO, Il monachesimo in Umbria dalle origini al VII secolo, in “Atti del II convegno di studi umbri”,1965, pp.262. (26) F.LANZONI, I primordi del cristianesimo  in Romagna, in “La Pié” ,1930 pp. 27-32. (27) Sulla  presenza  siriaca a Ravenna  e sulla influenza anche nelle liturgia : M. MAZZOTTI, La siria a Ravenna, op, cit: Idem, Ravenna e L’Oriente in “Kanon” 1977,  pp. 19-27; A.BAUMSTARK , I mosaici  di Sant’apollinare Nuovo e l’antico anno liturgico ravennate, in, “Rassegna Gregoriana”, 1910, pp. 32 ss. Per  una particolare tipo di croce detta  “siriaca” esistente  a  Ravenna , ma  trovato un esemplare  anche nel  solarolese,  si veda, G. SGUBBI, Solarolo dalla  più remota antichità all’anno mille , in “Il territorio di Solarolo e le sue vicende”, 1992 ,pp. 40.  (28) S.MOCHI ONORY, Ricerche sui poteri  civili dei vescovi nelle città umbre durante il Medio Evo, 1930,  pp.14. (29) Si tratta della chiesa di Ferento. (30) A.I.PINI  Un calendario dei riposi festivi del IX secolo già presunto bolognese e poi veronese ed ora attribuito alla chiesa di Faenza, in “Studi Romagnoli” XXVII 1976,pp.213. (31) Ibid, pp.210. (32) Ibid ,pp.232 (33) H.QUENTIN , Les Martyrologes Historiques du moyen age, 1908 ,pp.37 (34) F. LANZONI,  Il più antico calendario, ecc, op, cit. pp. 22. (35) S.PIER DAMIANI, epist,9, b 1  Ab Nicolaum. (36) C. RIVERA, Per la storia dei precursori di San Benedetto nella provincia Valeria, in “Bullettino dell’Istituto, Storico Italiano e Archivio Muratoriano” 1932, pp. 31. (37) A.I.PINI, Una pieve  intitolata a San Procolo nella alta  montagna  bolognese del XI secolo?, in “Il Carrobbio” 2001 pp. 26 e 30. (38) A.AMORE,  S.Valentino di Roma o di Terni?, in “Antonianum”, 1966 ,pp.260-277. (39) Da identificare con il S. Anastasio monaco di  Suppetonia ricordato da Gregorio Magno, cifr F.LANZONI, Le origini del cristianesimo e dell’episcopato  nell’Umbria romana, in “Riv. storico -critica di scienze religiose” ,1907 pp. 831. (40) A.I.PINI, Un calendario dei riposi festivi ,ecc op, cit ,pp. 235. (41) A.I.PINI, Nuove ipotesi , ecc, op, cit ,pp.34. (42) S. PRETE, Spunti critici di storia  del Monachesimo nell’opera lanzoniana, in Nel centenario della nascita di Mons F.Lanzoni , 1963, pp.123. (43) G.PENCO,  Il monachesimo in Umbria ,ecc ,op, cit, pp.270. (44) G.SGUBBI, Il Senio: l’antico Tiberiacum?, in “Studi Solarolesi  ed altri scritti di varie antichità”, 2002 pp.2 e3. (45) A.I.PINI  Nuove ipotesi ,ecc ,op,cit, pp.29. (46) G. ROPA, Il culto tardo antico e medioevale di San Procolo martire di Bologna , in “San Procolo e il suo culto”, 1989, pp. 73. Questo autore, oltre al Pini , è sicuramente quello che  ha approfondito di più il “problema” Procolo di Bologna. (47)  Acta Sanctorum, Novembris, commentarius perpetuus, in “Martyrologium Hieronymianum”, 1931, pp. 288. (48) A.I.PINI  Ipotesi ,ecc ,op, cit, pp.34. (49) G.ROPA, Su alcuni libri liturgici medioevali attribuiti a Pomposa-Ravenna ,in  “Libri  manoscritti  e a stampa da Pomposa all’Umanesimo”,1985 ,pp. 92.


(50) Voce Nicomede in “Biblioteca Sanctorum”. Non tutti concordano con la sua morte al primo giugno, sembra invece che sia morto il 15 settembre. In tal caso il 1 giugno corrisponderebbe alla dedicazione della sua basilica. (51) J.DUBOIS, Le martyrologe d’Usuard in  “Subsidia hagiographica”  40, 1965, pp.351. (52) M.PIERPAOLI Il Libro di Andrea Agnello  ,1988, pp. 9. (53) H. KELLNER, L’anno ecclesiastico e le feste dei santi ,1914, pp. 345. (54) B. DE. GAIFFIER,  Saints et legendiers  de l’Ombrie, in “Ricerche  sull’Umbria  tardo antica  e preromanica,ecc” , op, cit, pp. 246. (55) M. MAZZOTTI, La provincia  ecclesiastica  ravennate attraverso i tempi, in “Ravennatensia”  1966, pp. 21 (56) A.SIMONINI, Autocefalia  ed Esarcato  in Italia,1969, pp. 84. (57) F.LANZONI, I sermoni di San  Pier Crisologo , in “Riv di Scienze Storiche”, 1909  (58) G.LUCCHESI Le diocesi d’Italia del Lanzoni e l’antico calendario italico, in “Agnello arcivescovo di Ravenna” 1971, pp. 23 (59) G. LUCCHESI, Nuove note agiografiche ravennati , 1943, pp. 91-92. (60) H DELEHAYE, Les Origines ,ecc ,op, cit .pp. 328. (61) A.I.PINI,  Nuove ipotesi ecc, op,cit pp.34. Questo autore, avendo tolto di mezzo il Procolo di Bologna, ha  messo seriamente in discussione  anche i Procolo di Pozzuoli e di Autun: infatti  questi ultimi  sarebbero solo  una  derivazione del bolognese. Cfr  G.ROPA, Il culto tardoantico ,ecc op, cit, pag 48. Senza alcun dubbio l’intero quadro tradizionale dei vari Procolo, meriterebbe di  essere rivisto.   (62) Mentre stavo cercando di formulare le mie conclusioni, avevo sempre ben presente una domanda, sapendo che con la relativa risposta prima o poi avrei dovuto confrontarmi: cosa avrei detto in più o in meno se il calendario carolingio (con la relativa “translatio”) invece di essere faentino fosse bolognese? Considerato che la faentinità di detto calendario è fortemente probabile ma non sicura, e considerato anche che  i bollandisti avevano accennato ad una translatio del Procolo bolognese avvenuta a Bologna nel IX secolo, (anche se probabilmente  si  è trattato di una traslazione “interna”: cfr A.I.PINI,  Un calendario dei riposi festivi, ecc pp. 212 ),  non posso esimermi dal dare una risposta a questa  pertinente domanda. La ricostruzione relativa al Procolo festeggiato il 1° dicembre  rimarrebbe  inalterata, in quanto non coinvolta da quella translatio. Per quanto riguarda  invece la ricostruzione relativa al Procolo  festeggiato il 1° giugno, emergerebbe qualche problema, ma, considerato che il culto di questo Procolo nel faentino è ugualmente testimoniato dal calendario  del XV secolo, potrei riformulare le stesse ipotesi. In sostanza, le mie conclusioni rimarrebbero invariate

Appendice A lavoro ultimato sono venuto a conoscenza che nella  alta valle del Santerno vi era una chiesa  dedicata a S Procolo. Si tratta della chiesa  di San Procolo martire in Montemorosino plebato S Maria in Gesso. Dalle poche notizie che ho potuto trovare, risulta che il titolare era festeggiato il 1° dicembre.  Considerato che si tratta di un Procolo  Martire non dovrebbe  corrispondere al Procolo  di Ravenna in quanto questo era solamente vescovo, ma piuttosto al Procolo  martire di Bologna,   eppure la data del 1° dicembre farebbe pensare al vescovo di Ravenna.  Vi sono buone ragioni per credere che nei primi  tempi il titolare di questa chiesa fosse il Procolo bolognese, (Passio XII Siri?) con festa il 1° giugno, poi, al seguito della ordinanza del vescovo Rainaldo, anche a Montemorosino, la festa sia diventata,  mantenendo  la dicitura Martire, il primo dicembre. Si tenga presente che l’alta valle del  Santerno faceva parte della giurisdizione ecclesiastica ravennate. Pur non avendo prove certe, è mia ferma convinzione che le vicende del Procolo di Montemorosino, siano identiche a quelle di Pieve Ponte. 





ALTRI MIEI SCRITTI  RIGUARDANTI IL TERRITORIO ROMAGNOLO Contributo sul corso dell’antico Santerno Faenza 1985 Solarolo dalla più remota antichità all’anno 1000 Faenza 1992 Solarolo dai primi  abitanti alla colonizzazione romana Faenza 1993 Il Senio l’antico Tiberiacum ? Faenza 2002 Il tragitto terrestre segnalato  nel periplo dello Ps-Scilace Faenza 2002

Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica Faenza 2006. Evoluzione ed aspettative riguardanti l’abitato preistorico scoperto nel territorio solarolese.  Solarolo 2006 Quintari,  Duodecimani, ed altri problemi riguardanti la centuriazione romana.c.s.





Alla ricerca del toponimo Quinto ove nel 536 d.C. fu ucciso il re dei goti Teodato.

Breve profilo di Teodato

Re degli ostrogoti dal 532 al 536. Nipote di Teodorico, più che alle armi si  era dedicato agli studi e per questo  ricevette gli elogi da Cassiodoro. Nonostante che Belisario avesse occupato Napoli, Teodato  se ne stette inoperoso  nella sua fortezza, accusato di viltà e sospettato di tradimento, fu deposto dai Goti e sostituito  con Vitige. Nel dicembre del 536 fu ucciso mentre cercava di raggiungere Ravenna.   Alla mia nuora Taxova Dita   Questa ricerca è “frutto” di due casuali sconfinamenti in periodi storici, epoca romana ed epoca altomedioevale, non propriamente miei.1 Il primo sconfinamento è dovuto alla necessità  di sollevare il problema QUINTARI, cioè la quinta strada romana, un aspetto  della centuriazione  che inspiegabilmente gli studiosi del “ramo” non hanno ritenuto opportuno approfondire2. Sollevare il problema “quintari”                                                  1  Infatti da tempo  mi  interesso in particolare  di mitologia  Greco-Romana e di protostoria  romagnola, infatti i miei due ultimi “lavori” sono: CIRCE ULISSE ED ENEA IN ADRIATICO ?(2000) e ALLA RICERCA DEL TESORO DI SPINA  NEL SANTUARIO GRECO DI DELFI,APPUNTI DI PROTOSTORIA ROMAGNOLA(2001). 2  Il problema  QUINTARI lo sto trattando in un lavoro dal titolo provvisorio “QUINTARIO DUODECIMANO ED ALTRI ASPETTI POCO NOTI RIGUARDANTI LA CENTURIAZIONE ROMANA, che seppur  bisognoso ancora di qualche verifica, contiene alcune problematiche nuove, alcune delle quali, posso anticiparle. Come abbondantemente testimoniato dai gromatici: Igino, Flacco, Frontino, ecc, i romani, ogni cinque strade, partendo  dalle strade consolari  e dai  decumani –cardini massimi, tracciavano una strada più larga detta appunto QUINTARIO, conseguentemente  venivano a formarsi anche dei quadrati di  16 centurie, cioè il Saltus.  Alla fine dell’impero romano, passata  la bufera barbarica ed esauritosi  il noto peggioramento climatico, queste  strade, insieme  alle consolari  ed ai decumani-cardini massimi, saranno state le prime  ad essere messe in condizione di viabilità, di conseguenza in tali strade ,  ( e da quanto mi risulta, solo in tali strade, ) sono state erette le  prime chiese  ed i primi castelli. Non  a caso  in tali strade  si trovano Solarolo,Bagnara vecchia e Bagnara nuova, Limite Alto, Donigallia, Sant’Andrea in Panicale, San Pietro in Lacuna, S.Stefano in Barbiano, San Martino in Sablusi, Felisio,  San Mauro, Casanola, Gaiano, Castel Nuovo, ecc. Eventuali eccezioni alla “regola”, almeno in queste zone, sono “frutto” di successive  variazioni fluviali oppure di variazioni di confini  di contado o diocesiani. Questo significa che  rintracciando correttemente i quintari, come è stato fatto in questa zona, è possibile rintracciare eventuali chiese  e castelli scomparsi.  In verità  questo interessante aspetto  dei “quintari” lo avevo già trattato , seppur senza grandi approfondimenti, in vari miei scritti: DALLA PIU REMOTA ANTICHITA’ ALL’ANNO MILLE in IL TERRITORIO DI SOLAROLO E LE SUE VICENDE (1992) pag 20,  e DAI PRIMI


significa pure dover parlare del toponimo Quinto,  ebbene non sempre  questo toponimo deriva dalla distanza in miglia indicata da un miliario3.Un toponimo Quinto,  in territorio solarolese, esistente  nei pressi del confine di Solarolo con Castel Bolognese,4 è ricordato in documenti del 1037, 1164, 1186,5 detto sempre MASSA DI QUINTO. Questo Quinto non può assolutamente derivare  da una distanza in miglia in quanto  in zona non vi era alcuna importante strada romana.6 Indipendentemente dai problemi  che cotesto Quinto può sollevare, quello che serve a questa ricerca  è il constatare che  in loco vi era  un “ Locus Quinto”. Il secondo “sconfinamento” è derivato dal fatto che mi sono chiesto se per caso questo Quinto  possa corrispondere  al “Quinto” ove nel 536 d.C.  il re goto Teodato fu “sgozzato come un agnello”,7 si tratta di uno sconfinamento nel periodo altomedioevale, resosi necessario in
                                                                                                                                                                  ABITANTI ALLA COLONIZZAZIONE ROMANA in STORIE PER UN MILLENNIO (1993) pag 9-15. In questo ultimo articolo ,  oltre che aver confrontato le indicazioni sui quintari  dettate da Frontino e da Igino, ho tratteggiato i quintari dalla via Emilia a Lugo.  Al riguardo dei quintari  occorre aggiungere  una altra importante constatazione: quando gli agrimensori  dovevano centuriare un nuovo Ager, per prima cosa tracciavano sia il cardine che il decumano massimo, dopodichè, indipendentemente dalle  direzione, tracciavano le strade ,  facendo attenzione che  il confine di detto ager venisse contrassegnato da un quintario.Così è stato fatto in occasione della centuriazione dell’ager di Faenza, (partenza dal cardine massimo via  Naviglio ed  arrivo alla via Lunga,) altrettanto è stato fatto in occasione della centuriazione dell’ager di Imola, ( partenza dal cardine massimo  via Selice ed arrivo  alla via Pilastrino. ) Non solo, con i quintari , oltre ai confini di ager , venivano pure segnati, come vedremo più avanti, anche i confini , che oggi chiamiamo comunali. Perciò,  per trovare i confini di ager e  altri confini diventa indispensabile rintracciare i quintari. 3  M.Calzolari Ad sextum Miliarem”, i toponimi derivati dalle distanze in miglia come fonte  per la ricostruzione della rete stradale di età romana in Atti mem della deputazione di storia Patria per le provincie modenesi 1986 pag 27-56. Senza alcun dubbio il toponimo Quinto, come pure i toponimi Quarto, Sesto, Ottavo, ecc, spesso derivano  dalle distanze in miglia, ma questo di sicuro solo  quando  si trovano in corrispondenza di miliari  esistenti su strade consolari  o decumanicardini massimi, ma se questo non accade, occorre cercare una diversa derivazione, ebbene una di queste può derivare e vedremo il perché, da quintario. 4  L. Donati Note di topografia antica per l’alta  pianura  tra Senio e Santerno in Storie per un millennio (1993) pag 54 e piantina a pag 57. 5  Fantuzzi : Monumenti Ravennati 11. 6  Questo Quinto  che sicuramente  è da collegare al fatto che si trovava  nella quinta strada dalla consolare via Emilia, si trova in un quintario  che attualmente segna il confine , come già detto  fra Solarolo e Castel Bolognese, ebbene vi sono buone ragioni per ritenere che segnasse pure un confine  in epoca romana , una strada che segna un confine merita sempre di essere in qualche modo segnalata, come infatti è accaduto successivamente, segnalata con la località Termine, una località ricordata  in alcune carte  medioevali fra cui la nota  Monumentia Italiae Carthografica di R.Almagià. Si tratta di un toponimo derivato dal dio  romano  o  pelasgico  Terminus. Attualmente  una casa colonica posta nel confine è detta “Termine”, quasi attaccato a detta casa vi è un cippo  senza alcuna scritta ben piantato e squadrato.  Considerato  che in un documento  del 1228 cifr E.Zambelli :  Il territorio di Castel Bolognese  nel Medioevo (1999) pag 118, è pure ricordato un  “rio di Quinto”, farebbe pensare  che pure il quintario avesse avuto tale nome. Sicuramente questo Quinto  era una località molto importante, non a caso era detta “massa”, cioè un agglomerato di più fondi. 7  D.P. Pavirani:La storia dei Goti in Italia (1846) pag 461 e sempre dello stesso : Storia dei Goti secondo i monumenti Ravennati, manoscritto esistente nella biblioteca classense di Ravenna.


quanto, da quello che mi risulta questa vicenda  non ha avuto l’interessamento  da parte degli studiosi  medioevalisti, che invece a mio parere meritava. Da vari cronisti altomedioevali e da vari annali dell’epoca, si apprende della uccisione di Teodato ordinata dal suo successore Vitige. Procopio da Cesarea (Gotica)”I Goti  riuniti a Terracina eleggono re Vitige al posto di Teodato ,questi saputa la cosa  cerca di raggiungere Ravenna, ma Vitige  manda contro di lui Optaris che lo uccide prima che arrivi a Ravenna. Jordanes (getica)”Vitige diventato re  ordina ai suoi fedelissimi di uccidere Teodato.” Anonimo Cuspiniani A. 536” sotto il consolato di Paolini e Apione  muoiono Alarico e Teodato ed elevato a re Vitige”. Liber Pontificalis  romano,”per ordini divini viene ucciso Teodato”. Continuatore di Marcellino (cronicon)”Vitige si dirige a Ravenna,uccide Teodato in località Quinto presso il fiume Santerno e procede personalmente attraverso la Toscana  annientando tutte le forze di Teodato”. Agnello Ravennate (Liber pontificalis  Ecclesiae Ravennatis)”..dopo  pochi giorni il re Teodato andò a Roma e al ritorno fu ucciso dai Goti al XV° miglio da Ravenna.” Nonostante alcune precisazioni presenti in queste antiche cronache, non è possibile sapere con esattezza dove avvenne  questo  luttuoso  avvenimento, vediamo perciò come si sono espressi gli autori moderni che direttamente o indirettamente  si sono interessati della vicenda .8 Holder Egger9 dopo aver riportato  i passi del Marcellino  e quello dell’Agnello, si limita a dire che “corrispondono”. Non è chiaro cosa intendesse  dire col “corrispondono”, a mio parere  ha voluto dire che  Teodato sarebbe stato ucciso in località Pieve Quinta, infatti questa dista da Ravenna XV miglia. Anche il Pierpaoli per un certo periodo deve aver in tal modo interpretato  quello che l’Egger  ha voluto dire, infatti  nel  suo  ,  IL Libro di Agnello Storico 1988 pag 89 e nota 156, commentando  tale affermazione , la critica dicendo” ma qui si parla di Quinto ,mentre l’Agnello  dice XV° miglio: la differenza è di circa 16 Km,” . Evidentemente  per il Pierpaoli l’Egger  intendeva  Pieve Quinta. Successivamente, il Pierpaoli , lo interpreta diversamente,  infatti  dice che “probabilmente  l’Egger ha inteso dire  che la “coincidenza”  delle due affermazioni riguardano  solamente  la morte di Teodato e non la distanza da Ravenna. “ In una lettera che  tanto gentilmente il Pierpaoli mi ha spedito e qui approfitto per ringraziarlo, ribadisce quello che è al proposito il suo parere:”Il toponimo Quinto acquista  ubicazione abbastanza chiara se lo si intende come “Quinta” pietra miliare  da Ravenna”e aggiunge poi che tale interpretazione lo ha desunta  dall’aver letto  il contenuto della voce “Santernum” in Pauly-Wissowa. Nagl, (voce “Theodahat” in Pauly- Wissowa ), dice che Teodato sarebbe stato ucciso da Optaris per vendetta personale, ma anche per ordine di Vitige, prima che questi raggiungesse
                                                 8  Nel corso di queste ricerche ho ritenuto opportuno contattare telefonicamente due studiosi  del medioevo, il Padovani  ed il Pierpaoli. Ad entrambi ho chiesto  se vi erano  delle probabilità che  la “Massa Quinto” del solarolese  potesse corrispondere  al “Quinto”  ove fu ucciso Teodato. Ebbene ho avuto la graditissima sorpresa di apprendere che di  tale possibilità ne era da tempo convinto pure il Padovani,,infatti in un suo scritto pubblicato nel 1997( A.Padovani : Insediamenti  monastici nella zona di Imola dalle origini al secolo XIII,in Ravennatensia 1997 pag 271) , ricordando  la Massa Quinto del solarolese ed il podere La Quinta esistente  nelle vicinanze di Conselice dice “in entrambi i siti potrebbe  riferirsi  quel “locus Quinto” iuxta fluvium Santernum ove , secondo  Marcellino Conte, Vitige uccise Teodato”. Ringrazio il Padovani per avermi segnalato  questo suo articolo.  Considerato che uno studioso  del calibro del Padovani non esclude “tale possibilità”, non credo  si possa dire che si tratta di  ipotesi “campate in aria”, conseguentemente ho ritenuto opportuno  continuare le ricerche. 9  Agnelli Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis  1878 pag 322 e nota 8 (Monumenta Germaniae Historica Scriptores Rerum Langobardorum  et Italicarum saec VI-IX).


Ravenna, e che notizie sulla sua morte sono riportate oltre che dal Marcellino, anche negli Annali Ravennati e seppur con qualche correzione, in varie bibliografie fra cui quella di Gregorio di Tours. Il Keine, (voce “Santernum” in Pauly-Wissowa ), parlando di questo fiume, dice che è ricordato dal Marcellino, anno 536, ove Optalis , su ordine di Vitige, uccise Teodato. Dopo aver riportato per intero tale testimonianza, precisa che a suo parere, il “Quinto”  ricordato  non sarebbe un toponimo, ma che si deve intendere il “quinto” miliario da Ravenna. Il Testi Rasponi10dopo aver  riportato quasi tutte le fonti che ricordano la morte di Teodato, fa presente che a suo parere  le testimonianze del Marcellino  e dell’Agnello sono complementari, cioè , uno dice la località(Quinto), e l’altro dà la distanza da Ravenna(XV miglia). Continua poi  facendo alcune giuste considerazioni:osserva che all’epoca il Santerno non aveva il corso attuale, passava  a levante di Bagnacavallo, e che conseguentemente il “locus Quinto”dovrebbe essere cercato vicino a Bagnacavallo, aggiunge poi , ma su questo ci ritorneremo più avanti, che probabilmente Teodato, dopo aver attraversato  la Toscana, avrebbe preso  una via “indiretta”  per raggiungere Ravenna  e che inseguito , si sarebbe rifugiato nella Selva Litana. Il Lazard 11riporta la testimonianza dell’Agnello  con poco commento, infatti dice solo che  questi per scrivere la sua cronaca  ha dovuto saccheggiare gli Annali Ravennati, elenca poi  le masse ed i fondi  ricordate nelle antiche cronache, ma non riportando il fondo “Quinto” ricordato dal Marcellino, fa pensare che anche per lui, tale “quinto” non sia da considerare un toponimo ma il quinto miliario da Ravenna. Il Tamassia12dice che Teodato  fugge verso Ravenna,  ma che fu raggiunto ed ucciso da Optaris  sulla via Flaminia.  Tutti questi commenti saranno più avanti commentati, per ora mi limito a precisare che  dà ciò che ho letto  vi sono due “tendenze”:  per alcuni  il “quinto” è un  toponimo, per altri  è il quinto miglio da Ravenna.  Occorre comunque  tener conto che  per il Marcellino era un “Locus” e che per l’Agnello  l’avvenimento accadde al XV° miglio da Ravenna, perciò la ricerca deve anzitutto basarsi su queste testimonianze , ed è proprio quello che mi accingo a fare, cioè una breve indagine alla ricerca dei toponimi “Quinto”. Abbiamo già ricordato  la “ Massa Quinto “ esistente nel solarolese; sappiamo dal Padovani l’esistenza  di un fondo  la “ Quinta “  vicino a Conselice; un fondo “Quinto in curte  Quartolo “si trovava  nelle colline faentine in Pieve Afri ricordato nel 97213; un “Quinto Minore”, ricordato nel 940, si trovava nei pressi di Comacchio14. A questi occorre aggiungere  la “Pieve Quinta”, ricordata già nel 96515. Vediamo  ora quali di questi “Quinto” , ammesso che non ve ne fossero altri ora scomparsi 16, ha i migliori  requisiti per poterlo considerare quello citato dal Marcellino e corrispondente  alla indicazione data dall’Agnello Ravennate cioè esistente al XV° miglio da Ravenna.
                                                 10  Codex Pontificalis Ecclesiae Ravennates ( Rerum Italicarum Scriptores 1924  pag 175 nota 3 11  Goti e Latini a Ravenna (Storia di Ravenna dall’età Bizantina all’età Ottomana II pag109) 12  Storia del regno dei Goti e dei Longobardi in Italia  1825 pag 65. 13  A A Gli archivi come fonti  per la storia di Ravenna pag 494 14  A A Gli archivi come fonti per la storia di Ravenna pag 443. 15  Fantuzzi Monumenti Ravennati II. 16  Altri “Quinto” all’epoca esistenti possono benissimo essere ora scomparsi. Come abbiamo detto, tale toponimo  può avere avuto  le più svariate derivazioni, per esempio , come ho proposto per quello di Solarolo, derivato da “quinta strada”, ebbene di questi consimili “Quinto” potevano in zona essercene pure degli altri, infatti  una “quinta strada” cioè un quintario , è pure una parallela al cardine massimo faentino, quella che passa da San Pierlaguna, San Severo ecc, naturalmente un eventuale “Quinto” è da cercare solamente ove tale quintario segna un qualche confino. 


Sarà bene premettere alcune osservazioni: teoricamente ognuno di questi  può essere quello che stiamo cercando, nessuno di questi  ha gli attributi pienamente corrispondenti  alle testimonianze antiche; nessuno di questi  detiene caratteristiche sufficenti  che permettano una sicura esclusione degli altri, conseguentemente  gli eventuali “risultati” saranno solo frutto di  probabilità e non di certezze. Vediamo quali sono i “ requisiti”che , in base alle testimonianze antiche , i toponimi “Quinto” dovrebbero avere. “VICINO AL SANTERNO”: non lo ha  quello delle colline faentine,  non lo ha quello vicino a Comacchio, manca a Pieve Quinta, considerato che all’epoca il Santerno aveva un corso diverso17, manca pure a quello di Conselice. L’unico ad avere tale requisito è quello di Solarolo, infatti all’epoca  il Santerno  attraversava i prati di Castelnuovo e di Solarolo, conseguentemente  lambiva la Massa Quinto. “AL XV° MIGLIO DA RAVENNA”: abbiamo già visto quanto controversa  sia questa  testimonianza, ma non si può non tenerne conto. Da escludere  quello delle colline faentine, crea grosse difficoltà a quello di Solarolo ed a quello di Comacchio, hanno invece i requisiti richiesti quello di  Conselice e Pieve Quinta. Questo “XV°” miglio  da Ravenna ,  merita  qualche precisazione: dice la Fasoli18, che l’Agnello non era  a conoscenza della cronaca del Marcellino, conseguentemente  non intendeva  dare la distanza per completare  la  testimonianza  Marcelliniana, poteva cioè  dire questo riferendosi ad altre cronache, ma, a parte questo, occorre  tener conto che l’Agnello , al riguardo delle distanze in miglia , non era molto preciso, per esempio:in occasione della vita del Vescovo Martino19, da la distanza in miglia  fra Ravenna ed Ad Novas(Cesenatico) e dice XV miglia,  mentre invece sono almeno XXII. Se l’errore che l’Agnello ha commesso al riguardo di Ravenna-Cesenatico, lo avesse commesso  anche  al riguardo  di Ravenna e località in cui fu ucciso Teodato, il Quinto Solarolese  avrebbe il requisito richiesto. Riassumendo  i “problemi” riguardanti la localtà “Quinto”: da escludere quello delle colline faentine in quanto lontano dal Santerno e troppo lontano da Ravenna, anche perché se il Marcellino avesse voluto indicare tale località avrebbe detto  “Curte Quartolo”; da escludere quello di Comacchio , sia perché  lontano dal Santerno, ma anche perché  troppo a Nord da Ravenna. Perciò se  come sembra, la testimonianza del Marcellino è la più credibile, sono pure da escludere  sia Pieve Quinta che  il Quinto di Conselice. A questo punto, quasi per esclusione, ma naturalmente con molte riserve,  l’unico Quinto “papabile” rimane quello di Solarolo.  Seguiranno ora alcune considerazioni , che seppur indirette e discutibili, fanno pensare che effettivamente  questo Quinto  può veramente essere quello che stiamo cercando. Iniziamo con gli  avvenimenti , che poi hanno determinato  la uccisione di Teodato 20, raccontati dettagliatamente da Procopio da Cesarea21 :  Belisario ha già occupato la Sicilia e si
                                                 17  G.Sgubbi: Contributo sul corso antico del Santerno nel territorio solarolese (in Archeologia tra Senio e Santerno, atti del convegno 1985  pag 15-25). 18  Rileggendo il Liber Pontificalis (in settimana di studio sull’alto medioevo 1969 pag 476). 19  M.Pierpaoli : Il libro di Agnello storico 1988 pag 186. 20  Molti sono gli autori moderni che  ricordano  la morte di Teodato, ma non aggiungendo niente che non si sapesse, se ne riportano solo alcuni: Rosetti  la Romagna  pag 35, Uccellini  Dizionario storico  di Ravenna  e di altri posti di Romagna  pag 471, Wolfram Storia dei Goti, pag 586 , Capizzi Da Valentiniano III a Giustiniano  in Storia di Ravenna   dall’età  Bizantina al’età Ottomana pag 334,Ferluga L’Esarcato  in Storia di Ravenna ecc pag 352, Romano  Le dominazioni barbariche  in Italia pag 191, Bertolini Storia dei Goti pag147, Enblin voce Witigis in Pauly Wissowa, Rossi Storie Ravennati pag 158. Molto su Teodato si trova pure  in :Prosopographia of the later Roman Empire  pag 1067-1068, Storia Universale diretta da Pontieri , pag 193


appresta ad occupare l’intera Italia, ma Teodato , che si trova in Tuscia nelle sue possessioni22, non si preoccupa di quello che sta accadendo, si preoccupano invece i  comandanti dell’esercito Goto , stanziato a Roma, questi si riuniscono a Narni,   detronizzano  Teodato ed eleggono in sua vece Vitige. Teodato,  essendo venuto a conoscenza della sua  detronizzazione,  cerca con la parte dell’esercito ancora a lui fedele, di arrivare a Ravenna, ma come è noto , non arriverà in quanto  Optaris , mandato da Vitige , lo raggiunge e lo uccide. Sarebbe interessante sapere  quale tragitto usò Teodato per cercare di raggiungere Ravenna. Vediamo qualche testimonianza al riguardo:il Rossi23,dice che Teodato “per strade nascoste e poco praticate cerca di raggiungere Ravenna”,qualcosa di simile dice pure il Testri Rasponi,(op cit), Teodato attraversata la Toscana  ,cerca di raggiungere Ravenna  per via”indiretta”. Secondo  queste testimonianze, Teodato , non potendo  usare strade di grande freguentazione ,Flaminia, Popilia, Emilia controllate dai Goti, avrà cercato di raggiungere Ravenna , usando una  transappenninica, non certamente  quelle delle valli del Savio o del Lamone, in quanto sboccano a Cesena, a Forli e a Faenza, città controllate dai suoi nemici, ma , andando per esclusione , può benissimo aver usato quella della valle del Senio.24Si tratta di una strada che seppur “giù di mano”era  praticata e conosciuta da tempi antichissimi: usata dai Micenei  nel XII° secolo a.C per passare dall’Adriatico al Tirreno25, come dimostrano i reperti del bronzo  trovati nei pressi di Monte Battaglia , fra cui l’ambra “Tipo Tirinto”26, una strada che molto probabilmente  corrisponde al tragitto  terrestre segnalato nel Periplo Scilace27, una strada che attraversava zone   ben conosciute dai cronisti altomedioevali, come per esempio  il Mugello: il “Mucella” di Procopio, il Mucellos in Tuscia”  del Marcellino, “in Tuscia  Mucellus” di Jordanes, una strada  abitata da Goti28, una strada ben conosciuta da Teodato in quanto si trovava  , almeno nella prima parte, nei suoi possedimenti. Se Teodato ha preso la strada della valle del Senio, arrivato sulla via Emilia ,aveva la possibilità di arrivare  a Ravenna “ancora per strade poco frequentate”,”poteva scegliere la via Lunga29, poi arrivato  nella S .Vitale ,deviando a destra, arrivava a Ravenna da Ovest, oppure,  poteva   andare verso Ravenna prendendo il “quintario” che passa da Gaiano, Barbiano, Lugo ecc. Questi quintari, avevano sicuramente dei guadi sul Santerno,( da escludere la presenza di ponti,) ma, tenendo presente che era in inverno, (fiume difficilmente
                                                                                                                                                                  198,Cassiodoro Variae in Mon Germ  hist ant XII, Liberati Breviarum  in Migne  Patrologia Latina LXVIII, Magistra Barbaritas  I barbari in Italia 1984.   21  La Guerra Gotica  1-11. 22  Non è ancora chiaro ove si trovasse effettivamente Teodato, c’è chi dice nella sua fortezza, quella indicata nell’Appendix Maxiniani, che poi non si sa dove esattamente Teodato la fece costruire, oppure a Roma. 23  Storie Ravennati  pag 158. 24  Poco credibile perciò la affermazione  del Tamassia, Storia dei Goti e dei Longobardi in Italia  1825 pag 65  che “Optaris  avrebbe  raggiunto ed ucciso Teodato mentre questi si trovava nella strada Flaminia. 25  Oestenberg Luni sul Mignone e problemi della preistoria Italiana  1967 pag 246. 26  Catarsi dell’Aglio  Storia di Bellaria 1993 pag 167. 27  Da tempo ma purtroppo inascoltato dagli “addetti ai lavori”, propongo  tale direttrice  come quella che detiene  più requisiti  per corrispondere  a quella strada  che “con tre giorni di viaggio  era possibile collegare  Spina con Pisa” cifr Sgubbi  Dalla  più remota antichità all’anno mille in (il territorio di Solarolo  e le sue vicende 1992  pag 21-24), idem  Alla ricerca del tesoro di Spina nel santuario greco di Delfi: appunti di protostoria romagnola e spinetica 2001 pag 11-13). 28  Bierbrauer : Das frauengrab von Castelbolognese in der Romagna (Italien) in Jahrbuch des Romisch Germanischen Zentralmuseums Mainz 1991 pag 541. 29  Si tratta  della direttrice in pianura del già ricordato Periplo Scilace.


“guadabile”),  non si può escludere  che Teodato si fosse fermato a Quinto ha preparare  l’occorrente per un  tragitto fluviale lungo il Santerno-Senio.  In qualsiasi maniera  era costretto a passare dalla “Massa Quinto ” , purtroppo , quando ancora si trovava in questa località, Optaris ,”tagliandogli la strada” ,  lo ha rintracciato ed ucciso. Se le “vicende” si fossero effettivamente svolte in tale maniera, troverebbe “spazio” un’ altra allettante ipotesi: la Fasoli in un suo articolo30, fa presente che  la dicitura “Battaglia”, sicuro riferimento ad una battaglia di discrete proporzioni, è gia presente nel più antico ricordo della Rocca (1154). Perciò questa studiosa,  andando a ritroso nel tempo, va alla ricerca  del ricordo di una battaglia , in loco avvenuta, che possa avere lasciato tale ricordo nella toponomastica. Dopo essersi soffermata per un attimo  sulle guerre fra il 568 e il 774 , che  vide per  protagonisti i Longobardi, ma scartate  per una insieme di ragioni, propone, poco convinta, ma in mancanza di altro, la guerra  fra Greci e Goti  avvenuta nel 542,  che ebbe per protagonista Totila. Le vicende di tale guerra  sono note: Totila dopo aver riconquistato Faenza, cercando  di riconquistare anche Firenze, si dirige verso la Toscana, usando la strada romana FaenzaFirenze. Nei pressi di Firenze sconfigge in una cruenta battaglia le forze greche.  Non si vede la ragione per  cui teatro di tale battaglia  possa essere stata la località di Montebattaglia.  Le tracce della battaglia del 542, pezzi di armature, lance, spade, sono state rinvenute  non lontano da Fiesole31. A mio parere il nome “Battaglia” può  essere  derivato da un altro evento: il Marcellino, proseguendo la cronaca riguardante l’uccisione di Teodato, fa una affermazione molto importante”Vitige dopo aver fatto assassinare Teodato,  procede personalmente  attraverso la Toscana  annientando  le forze di Teodato”. Cotesta affermazione si collega benissimo  agli avvenimenti riguardanti l’inseguimento e l’uccisione di Teodato: Vitige si trovava  a Narni, ebbene, saputo che Optaris  ha ucciso Teodato, “procede”verso la Toscana”, cioè attraversa quasi tutta la Toscana  ,  raggiunge  il grosso dell’esercito di Teodato, che poteva benissimo trovarsi  in località Montebattaglia, e lo “annienta”. Questa può essere stata la “battaglia” che ha dato il nome a Montebattaglia e sarebbe avvenuta  nel dicembre del 536. Riassumendo e concludendo: l’unica cosa che si sa con certezza è che Teodato  è stato ucciso “prima di arrivare a Ravenna”, ma non si sa esattamente dove ciò sia accaduto, vediamo perciò  di commentare le  proposte dei commentatori moderni. Discutibile “Pieve Quinta”, sia perché lontana dal Santerno, sia perché tale località si trova in strade “molto frequentate”, incontra molte difficoltà “al quinto miglio da Ravenna”: sia perché troppo in contrasto con le testimonianze antiche”Locus Quinto” e XV° miglio” ,sia perché occorrerebbe precisare  il luogo esatto di tale miliario. All’epoca Ravenna era attraversata dalla romana via Popilia, ebbene i miliari erano a Nord ed a Sud della città, perciò difficilmente poteva essere quello a Nord, difficilmente poteva essere quello a Sud in quanto  quest’ultimo si verrebbe a trovare in “strade troppo frequentate”, per avere una certa credibilità, il  miliario avrebbe dovuto trovarsi ad Ovest di Ravenna , ma da quel lato non risultano strade consolari. Difficilmente  può essere  il “fondo la Quinta” esistente vicino a Conselice ,  perché lontano dal Santerno,  ma in particolare non sarebbe stato ricordato dai cronisti antichi, non mi risulta infatti, che questi  , ricordando una località , si siano riferiti  ad un semplice fondo, in genere  occorreva, per essere segnalata  che la località fosse di una certa importanza, cioè una “massa”, oppure una “curtes”. La proposta più credibile  sarebbe quella del Testi Rasponi , cioè un “Quinto” non lontano da Bagnacavallo .  Si tratta di una proposta  in piena “regola” con le testimonianze                                                  30  Monte Battaglia alla ricerca di un toponimo 1973.  31  Niccolai Giuda del Mugello e della Val di Sieve  1974 pag 147.


antiche”vicino al Santerno e  al XV° miglio da Ravenna”, ma con due “lacune”: Il Marcellino avrebbe dovuto dire “vicino al fiume Santerno-Senio”, in quanto all’epoca i due fiumi erano uniti, e occorrerebbe dimostrare l’esistenza in loco di una località detta Quinto, naturalmente, come già detto, non un semplice fondo,  ma  una località di una certa consistenza. La sola  dicitura “  Santerno ” , va benissimo al riguardo del Quinto solarolese  in quanto  tale massa si trova  a monte  della confluenza  del Senio  nel Santerno.       In attesa che “salti fuori” un Quinto che abbia tutti i “requisiti” richiesti, dovremmo ipoteticamente ritenere che “teatro” della uccisione di Teodato , sia il Quinto di Solarolo. In verità sono poche  le ragioni  che possano definitivamente  confermarlo, ma,  da quello che mi risulta, sono  poche anche le ragioni che possono  definitivamente  escluderlo.
 Cotesto articolo, con piccole variazioni è stato pubblicato in “Historia”, 2, Stuttgard, 2005.




Note sulla giurisdizione civile ed ecclesiastica  di Imola e Faenza in età romana



Introduzione 

Questo lavoro ha come oggetto la determinazione dei confini di Imola e Faenza e della loro posizione giurisdizionale in età romana, un problema che è di fatto ancora aperto, anche se altri studiosi hanno creduto di averne proposto soluzioni definitive.  La disamina prende le mosse da una mia recente ricognizione sui confini fra l'Emilia e la Romagna32. Nel corso della ricerca avevo notato che non esistevano lavori recenti relativi al periodo romano; il vuoto storiografico mi era apparso ingiustificabile, dal momento che testimonianze antiche dimostravano invece che l'argomento era stato oggetto di un vivace dibattito.  Ho creduto quindi opportuno contribuire a colmare la lacuna esaminando la situazione dei confini appunto in questo periodo, e in particolare nel IV secolo d.C., quando, in seguito alla riforma dell'imperatore Diocleziano (circa anno 297 d.C.), l'Italia si era trovata divisa in due Vicariati: Vicariato Annonario con capitale Milano, e Vicariato Suburbicario con capitale Roma, i quali amministravano le varie regioni (chiamate dai Romani provinciae) in cui già da almeno un secolo era articolata la penisola; fra queste, insieme alla Liguria, l'Emilia, il Piceno, la Campania ecc., c'era la Flaminia, il cui territorio corrispondeva più meno all'attuale Romagna.  Mi propongo pertanto i seguenti obiettivi:  1. determinare il confine tra Emilia e Flaminia, e quindi l'appartenenza territoriale di Imola e Faenza;  2. individuare l'ubicazione del confine tra Vicariato Annonario e Vicariato Suburbicario;  3. stabilire se le due città appartenevano al Vicariato Annonario, tenendo conto che nel corso del IV secolo accanto a questi confini civili esistevano anche alcuni confini ecclesiastici.
 1. Il Sillaro, confine fra l'Emilia e la Flaminia

Data la scarsità, la frammentarietà e la contraddittorietà delle fonti, gli studiosi sono stati costretti a sopperire alle carenze del materiale documentario affidandosi a vari criteri di ricostruzione storica33; per quanto mi riguarda, mi sono attenuto a un principio fondamentale, frutto di ripetute esperienze: un confine naturale, contrassegnato, fin da tempi remoti, dalla contrapposizione di diverse culture ed etnie, tende a rimanere inalterato nel corso del tempo, perché finisce per costituire uno schema radicato nella mente della popolazione.  Come ho avuto occasione di dimostrare nella mia pubblicazione sopra citata, alla quale rimando, fra Emilia e Flaminia esiste un unico confine con queste caratteristiche: il fiume Sillaro, che, rispetto alla precarietà dei confini segnati da altri fiumi romagnoli in epoca romana o medievale, ha tracciato nei millenni una linea di demarcazione costante.                                                   32  Sgubbi , 2003. 33  Per una panoramica delle varie ipotesi pubblicate sull'argomento, cf. Sgubbi, 2006.


Già solo come confine naturale il Sillaro non appare secondo a nessun fiume emilianoromagnolo: infatti costituisce una precisa discriminante sia dal punto di vista geologico (per esempio, i gessi si trovano solo sulla sua riva destra) che da quello della fauna e della flora (un centinaio di specie di piante e di animali sono introvabili ad ovest del Sillaro).  Ma questo fiume rappresenta anche un confine antropologico e culturale: già in epoca preistorica demarcava i territori di popolazioni di varie etnie, come attesta la diversità di indice cefalico emersa dai risultati delle indagini antropologiche, e, successivamente, ha continuato ininterrottamente a segnare un limite preciso: dapprima ha diviso villanoviani romagnoli e villanoviani bolognesi, poi Galli ed Umbri, quindi ager imolese e ager claternate, territorio imolese e territorio bolognese, diocesi imolese e diocesi bolognese, Longobardia ed Esarcato, ducato di Persiceto ed Esarcato, ducati e signorie, Romagna ed Emilia. Pertanto, data la costanza di questa sua funzione di demarcatore naturale e culturale, è plausibile ipotizzare che il Sillaro coincida con il confine tra Emilia e Flaminia, tra il Vicariato Annonario e quello Suburbicario, e con ogni altro eventuale confine presente nelle stesse zone.  Sulla base di queste e altre considerazioni, sono quindi giunto alla conclusione che Imola e Faenza, ubicate entrambe ad Est del Sillaro, appartengono alla Flaminia. Mi propongo ora di dimostrare che in età romana Imola e Faenza non dipendevano da Milano.  

2. Aemilia e Flaminia in età imperiale (dal I sec. a. C. al III sec. d.C.)

Esistevano di fatto in età imperiale due regioni denominate Aemilia e Flaminia, territorialmente corrispondenti alle regioni Emilia e Romagna? Come è noto, dai primi tempi della Repubblica fino all’epoca di Augusto, il territorio corrispondente all'attuale regione Emilia-Romagna, pur essendo con vari nomi spesso ricordato (Cispadana, Ager Boicus, Gallia Togata, Provincia Ariminum), non aveva confini ben definiti. In seguito alla divisione in regioni voluta da Augusto, il territorio attualmente corrispondente alla regione emiliano- romagnola venne a costituire la regione VIII; il nome Aemilia le sarebbe stato assegnato nel corso del I secolo d.C., come alcuni sostengono sulla scorta dell'epigramma III, 4 di Marco Valerio Marziale, composto verso l' 88 d.C. mentre il poeta si trovava a Forum Corneli (Imola). Il passo è quello in cui il poeta licenzia il libro con il verso: “vai a Roma, mio libro; se donde tu venga ti chiedono, dalla regione dirai, che la via Emilia attraversa.”34. In realtà però in questo passo il poeta afferma semplicemente di trovarsi in quel periodo in una regione - non dice quale - attraversata dalla via chiamata Emilia; e, anche a voler concedere al linguaggio poetico valenze polisemiche, un significato diverso attribuito al testo sembra a dir poco congetturale. Se Marziale fosse stato in una città dell'Umbria e avesse detto di trovarsi in una regione attraversata dalla Via Flaminia, avremmo forse dedotto che tutta quella regione si chiamava Flaminia? A questa stregua, anche la Toscana, attraversata dalla Via Claudia, dovrebbe chiamarsi Claudia; il che non è.  Altri passi di Marziale offrono però spunti più significativi, come nella commemorazione della morte di Rufo, un suo amico bolognese: “Lacrime versa o Bologna, orbata ahimè del tuo Rufo, e per tutta l’Emilia il cordoglio risuona.” (VI 85, 6). L'accenno all'Emilia si ritrova nel saluto all'amico Domizio, in procinto di partire per un viaggio: “Tu per le terre dell’Emilia andrai“ (X 12,1).    In questi ultimi due epigrammi il nome Emilia potrebbe sottintendere il termine regione, ma non si può neanche escludere che sottintenda via. Insomma, in Marziale compaiono più volte la parola Emilia e la parola regione, ma non compare mai un'espressione inequivocabile come “la regione chiamata Emilia". Alla luce di queste note è piuttosto azzardato considerare i
                                                 34  Marziale, Epigrammi, traduzione G. Ceronetti, 1954.


passi di Marziale come sicura testimonianza del fatto che già nel I secolo d.C. tutto l’attuale territorio della regione emiliano-romagnola era chiamato Emilia. Del resto un decennio prima Plinio il Vecchio (Hist. Nat. III 115), nella sua pur accurata descrizione della VIII regione Augustea (città, fiumi, ecc), omette di riferire che tale regione aveva preso il nome Emilia; data la sua acribia di storico, se così fosse stato non avrebbe certo mancato di ricordarlo.  Queste considerazioni portano a dedurre che in età romana la regione Aemilia non corrispondesse all'intero territorio dell'Emilia-Romagna. In realtà, quando appare per la prima volta il nome di una regione detta Aemilia, contemporaneamente appare anche una regione chiamata Flaminia; di conseguenza per Aemilia è legittimo intendere solamente il territorio da Bologna in su, e per Flaminia da Imola in giù. E' quindi opportuno cercar di datare con maggiore sicurezza la nascita delle due regioni denominate Emilia e Flaminia. Nel corso del II secolo d.C., con ogni probabilità fra il 160 e il 170, le due regioni sono citate in alcune iscrizioni, in relazione a governatori di province o regioni; uno di questi magistrati verso il 166 governava Aemilia et Flaminia (C.I.L. VIII, 5354), un altro governava Flaminia et Umbria (C.I.L. XI 377).  Da queste iscrizioni si apprende che un'ampia zona era stata fatta oggetto di una divisione amministrativa che aveva determinato la nascita di alcune regioni fra cui l'Emilia e la Flaminia.  E' assai probabile che entrambe le regioni abbiano tratto la loro denominazione dalla via che le attraversava. Il Susini35 è convinto che anticamente una via che convenzionalmente chiama Flaminia II proseguisse da Rimini verso il cuore della pianura, valicasse il Rubicone nei pressi del Compito, e raggiungesse Pisignano, San Pietro in Vincoli, San Pancrazio, Russi, Bagnacavallo, Lugo, Massa Lombarda ed il Delta Padano. Nereo Alfieri36 attribuisce al console Flaminio la costruzione, nel 187 a.C., di una via Flaminia detta Flaminia minor, che da Arezzo, tenendo il crinale fra il Sillaro e l’Idice, arrivava a sud di Claterna. Per il Susini37 questa Flaminia minor proseguiva il suo percorso verso il guado del Po di Primaro congiungendosi alla Flaminia II proveniente da Rimini. Nella carta geografica che il Coronelli diede alle stampe nel 170738, appare chiaramente evidenziato il tracciato di una via chiamata Flaminia che, partendo poco a ovest di Imola, arriva al mare Adriatico. Peraltro anche qualche tratto romagnolo della via Emilia era detto Flaminia, come si deduce da un documento  riportato dal Lanzoni39 riguardante la città di Forlì (in liviensibus  foris  non longe per Flaminiam viam) e da alcune cronache imolesi del diciottesimo secolo40. Da queste notizie si ricava che l'antica regione Flaminia era interessata dai vari percorsi di una strada chiamata Flaminia; e pertanto è plausibile che il nome della regione derivi da detta via. Non si può comunque neanche escludere che il nome Flaminia sia stato assegnato da popolazioni provenienti dalla valle Tiberina, poi trapiantate in Umbria e infine stanziatesi in Romagna in età romana e preromana, le quali, memori dell'antica origine, avrebbero fra l’altro attribuito al fiume Senio il nome Tiberiaco41.  Come credo di aver dimostrato, il confine fra l'Emilia e la Flaminia era segnato dal corso del fiume Sillaro; questa tesi è condivisa da due autorevoli studiosi dell’epoca romana, Susini e Tibiletti42. Il Susini, descrivendo il tracciato verso il mare della via Flaminia minor, afferma che si dirige verso il mare “quasi a costituire un autentico limes settentrionale della nascente Romagna"43. Il Tibiletti, dopo aver elencato le divisioni amministrative di età imperiale,                                                  35  Susini, 1995, p. 86. 36  Alfieri, 1975, pp. 51-67. 37  Susini, 1981, p. 603. 38  Faini 1992, fig.16. 39  Lanzoni, 1927, p.767. 40  Memorie della chiesa cattedrale di Imola, Imola,  2005, p. 415. 41  Sgubbi 2002. 42  L'ipotesi è nota ma non universalmente condivisa; per es. la Cracco Ruggini 1995, p. XXV, ringrazia per i suggerimenti ricevuti sia il Susini che il Tibiletti, ma non ne tiene conto. 43  Susini, 1985, p. 604


osserva: “E' singolare che il confine fra la nuova, ridotta Aemilia, e la Flaminia, richiami a grandi linee quella che dopo millenni e dopo le vicende bizantine, longobarde e medioevali, sarà la suddivisione fra la Romagna e i moderni ducati. Indubbiamente è mera casualità, almeno secondo lo stato della nostra conoscenza, tanto scarsa, delle più profonde leggi storicogeografiche.” 44. Questo significa perciò che, in seguito alla divisione amministrativa del 215, Faenza e Imola facevano già civilmente parte della Flaminia. Si tratta ora di vedere se tale situazione è rimasta tale e quale in età romana anche in tempi successivi. 

3. Vicariato Annnonario e Vicariato Suburbicario

Come si è ricordato, in seguito a varie suddivisioni succedutesi nel corso del II e III secolo, in particolare quella dell’imperatore Diocleziano, l’Italia si trovò divisa in due Vicariati: Annonario, con capitale Milano, e Suburbicario, con capitale Roma. Non è chiaro se ai due Vicariati fossero preposti due Vicari o uno solo, o se ci fosse un solo Vicariato affidato a due Vicari; secondo alcuni studiosi45 la Diocesi Italiciana, così era chiamato il territorio italiano, era l’unica Diocesi dell’impero governata da due Vicari. Questo significa che ogni Vicario poteva, se necessario, per esempio in caso di carestia o per altre ragioni, sconfinare nel territorio dell'altro Vicario.  Inoltre l'elezione di un nuovo Vicario spesso comportava un cambiamento giurisdizionale del territorio: infatti un Vicario di famiglia ricca poteva pretendere di governare su un territorio di maggiore estensione. Ci troviamo dunque di fronte a un confine labile, che mal si presta a precise definizioni.  In particolare, il territorio di cui ci stiamo occupando si trovò all'intersezione tra due confini: quello fra Vicariato Annonario e Suburbicario e quello fra Emilia e Flaminia. E' quindi necessario individuare le regioni che costituivano il Vicariato Annonario. Per quanto riguarda il IV secolo, la maggior parte degli studiosi46 è concorde nell'assegnare sia l'Emilia, sia la Flaminia, e anche una parte del Piceno (le Marche), al Vicariato Annonario: perciò Imola e Faenza si sarebbero trovate nel Vicariato Annonario, cioè sotto Milano. Altri47 sostengono invece che la Flaminia faceva parte della Suburbicaria. Per i primi il confine meridionale della Annonaria era molto più a Sud dell'Emilia-Romagna, su una linea che andava dall'Esino, fiume marchigiano, all’Arno, il fiume di Firenze; quelli che invece assegnano la Flaminia alla Suburbicaria collocano il confine della Flaminia con l’Emilia fra Forlì e Forlimpopoli; secondo questa ipotesi - peraltro non suffragata da testimonianze antiche - le città di Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, e quindi, anche in questo caso, sotto Milano.  Le testimonianze antiche su cui si fondano le due ipotesi sono alcuni cataloghi di province in cui la voce Italia sembrerebbe corrispondere al Vicariato Annonario. Così al Concilio di Sardica del 343 i vescovi firmatari si qualificarono in vari modi: quelli dell’Italia settentrionale, oltre alla loro sede, aggiungevano anche la voce Italia (Protasio Milano Italia, Severo Ravenna Italia, ecc), mentre quelli dell'Italia centrale e meridionale aggiungevano al nome solo la provincia. La citazione Italia presente in questo documento sembra dimostrare che, a quella data, la regione Flaminia, la cui capitale era Ravenna, si trovava civilmente nel Vicariato Annonario. Altri documenti antichi lasciano intendere la stessa cosa.  Ma non mancano documenti, fra cui molti rescritti imperiali, come quelli elencati dal Giardina48, in cui la voce Italia corrisponde indistintamente a qualsiasi parte del territorio italiano: dei 18 testi riportati, ben 12 applicano il termine a tutta la penisola, 3 sono dubbi, e solo 3 lo riferiscono al Vicariato Annonario. Di conseguenza non è possibile definire il confine                                                  44  Tibiletti, 1975, p. 144. 45  Giardina, 2004a p. 273. 46  Cipolla, 1897, p. 71. 47  Violante, 1986, p. 32. 48  cfr. Giardina, 2004b, p. 274 .


civile fra il Vicariato Annonario e quello Suburbicario nel corso del IV secolo sull'unica base dei documenti antichi che riferiscono la voce Italia al primo.  Gli antichi cataloghi delle province presentano spunti interessanti, ma, come vedremo, non risolutivi. Intanto è bene precisare che nei testi di età romana per provincia si intende regione. Si tratta di cataloghi scritti in varie epoche (dal IV all’VIII secolo), per lo più relativi alla situazione della seconda metà del IV, ma talora anche riferiti a situazioni molto più tarde. Passiamo in rassegna gli elenchi di province più significativi iniziando dalla Notitia Dignitatum. Nell’elenco delle province descritte in questo catalogo, vengono ricordate, fra le altre, Flaminia et Picenum con l’aggiunta Annonaria, e, successivamente, il Piceno con l’aggiunta “suburbicario”. Se ne dovrebbe dedurre che in un certo periodo la Flaminia e una parte del Piceno, e di conseguenza le città di Imola e Faenza, avrebbero fatto parte del Vicariato Annonario, sottoposto a Milano. Secondo alcuni la fonte non sarebbe affidabile, perché il catalogo era mancante di alcune pagine originarie, che sarebbero state interpolate arbitrariamente da uno studioso tedesco; tuttavia i più l'hanno ritenuta, nonostante tutto, attendibile e sulla base delle notizie riportate hanno ritenuto che il confine fra Vicariato Annonario e Vicariato Suburbicario fosse segnato dal corso dei fiumi Esino-Arno.  Da quanto mi risulta, questo catalogo e la già ricordata sottoscrizione dei vescovi al concilio di Sardica, sarebbero le uniche testimonianze antiche che, seppur non fornendo indicazioni precise sul confine civile fra i due Vicariati, lasciano arguire che in alcuni periodi del IV secolo la Flaminia abbia fatto parte del Vicariato Annonario.  La Notitia Dignitatum riporta una notizia utile alla nostra indagine: il confine orientale della regione Emilia è segnato dal corso del fiume Idex, “Idice”. Se questo dato è esatto, Imola, Faenza, e anche Claterna, all’epoca del documento si trovavano in Flaminia.  Vi sono poi testimonianze antiche che attestano l’appartenenza di Ravenna e della Flaminia al Vicariato Suburbicario, per esempio due rescritti imperiali degli anni 364 e 365 (C. Th. IX, 30, 1, 3). Il Latercolo di Polemio Silvio ed il Latercolo Veronese, due elenchi delle province all’epoca esistenti, citano le due province, ma non fanno riferimento ai confini.  Il cosiddetto Catalogo Madrileno, e quello di Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, sono due elenchi perfettamente identici, l'uno copia dell'altro: probabilmente il Catalogo Madrileno deriva dalla cronaca di Paolo Diacono. In essi sono menzionate anche le città delle varie regioni: e nell’elenco delle città dell’Emilia è riportata anche Imola. Questa informazione ha indotto alcuni ad assegnare senz'altro Imola all'Emilia e a ipotizzare di conseguenza che il confine fra Flaminia ed Emilia dovesse essere segnato o dal corso del fiume Santerno o da quello del Senio, e non dal Sillaro; ma altri dati contenuti nel testo rendono l'attribuzione problematica. Nell’elenco delle regioni in questi due cataloghi, e solo in questi due, compare la provincia delle Alpi Appennine. Non entriamo nel merito dell'esistenza di questa enigmatica provincia, su cui molto è stato scritto, e non chiediamoci neanche da dove Paolo Diacono abbia attinto notizie al riguardo (dal catalogo interpolato di Polemio Silvio? Dalla quasi contemporanea Descriptio Orbis Romani di Giorgio Ciprio? Da una raffigurazione geografica andata perduta?); quello che qui interessa è far presente che la dicitura Alpi Appennine compare solo in epoca bizantina: le Alpi Appennine non sarebbero altro che una linea difensiva creata dai bizantini per arginare l'avanzata longobarda. Se ne deduce che questi due cataloghi non descrivono la situazione della fine del IV secolo, bensì la situazione relativa ad alcuni secoli successivi. Di conseguenza le città ivi ricordate, Imola compresa, sono semplicemente quelle conquistate dai Longobardi. La Cosmografia dell’Anonimo Ravennate è anch'essa un elenco di province, da cui si apprende che la Flaminia, qui detta Provincia Ravennatis (IV 29), con le città di Imola e Faenza, faceva parte del Vicariato Annonario.  Ma a questo proposito è necessario rilevare un particolare molto significativo: quest'opera, scritta nella seconda metà del settimo secolo a Ravenna, era stata commissionata dalla curia


arcivescovile ravennate. Come è noto, all’epoca dell’arcivescovo Mauro la chiesa ravennate era riuscita a conquistare la cosiddetta autocefalia, cioè l'indipendenza dalla chiesa romana, e quindi tutta una serie di privilegi, alcuni dei quali sono documentati nella “epigrafe dei privilegi” depositata nella basilica di S. Apollinare in Classe. Per raggiungere tale scopo, la curia arcivescovile fece ricorso a mezzi di ogni tipo, non esclusa la falsificazione di documenti. Uno di questi fu la Passio Sancti Apollinaris, finalizzata a dimostrare che la chiesa di Ravenna era di origine apostolica, cioè fondata nel primo secolo direttamente da un Apostolo49; un altro è il tristemente famoso “Diploma di Valentiniano III”, un elenco falso di chiese che da tempi immemorabili sarebbero state dipendenti dalla chiesa ravennate. La Passio Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi et Ursicini (BHL 3514) divenne lo strumento per dimostrare che questa chiesa non era da meno di Milano, dato che anch'essa poteva vantare dei martiri50; e appunto alla categoria dei falsi appartiene anche la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate, elaborata per dimostrare che la chiesa ravennate non dipendeva da Roma.  Non si può dunque escludere che la compilazione fosse stata stilata con spirito capzioso. Anche il Mazzarino, commentando il documento, non esclude la possibilità che fosse stato scritto appositamente per la “dignitas episcopalis ecc”51, il che inficia la credibilità del testo.  Da questa breve scorsa delle fonti è lecito dedurre che il supporto delle testimonianze antiche non è sufficiente a determinare con esattezza i confini civili nel IV secolo.  E' quindi opportuno cercar di ottenere altre indicazioni dal confronto con le fonti ecclesiastiche.

4. La Chiesa nel IV secolo

Per una serie di eventi il IV secolo fu uno dei più importanti nella storia della chiesa: Costantino riconosceva la religione cristiana il rango di religio licita, favorendo così l'evangelizzazione di tutto il territorio, sia cittadino che rurale; nello stesso secolo svolgevano la loro attività pastorale i tre più grandi padri della chiesa (S. Ambrogio, S. Gerolamo e S. Agostino) e alcuni vescovi di eccezionale levatura (Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Ilario di Poitiers e Atanasio di Alessandria); venivano indetti due concili ecumenici (Nicea nel 325 e Costantinopoli nel 381) ed alcune centinaia di concili provinciali, alcuni dei quali destinati ad avere vasta risonanza, come quelli di Arles (314), Sardica (344), Rimini (359). Non a caso nel corso di detti sinodi e concili furono prese decisioni determinanti, e valide ancor oggi, in merito alla liturgia e al primato papale; e, per quanto riguarda specificamente la nostra indagine, in questo secolo venivano poste le basi per le future metropoli ecclesiastiche.
                                                 49  Effettivamente, se una chiesa poteva vantare il privilegio di essere stata fondata direttamente da un Apostolo, oppure da un discepole di Cristo, poteva pretendere la completa indipendenza dalla chiesa romana, ma, come è stato ampiamente  dimostrato, la fondazione della chiesa ravennate  risale alla fine del II secolo, se non addirittura all’inizio del terzo. Quelli che inventarono la detta Passio sapevano che il vescovo ravennate S. Severo aveva partecipato al concilio di Sardica (343), e perciò occorreva inventare l'esistenza di vescovi che colmassero la lacuna di circa trecento anni che separava S. Severo dal periodo apostolico; per esempio san Procolo, cfr. Sgubbi, 2003b, p. 6.. In altri casi attribuirono ad alcuni vescovi pontificati incredibilmente lunghi: a S. Severo, 64 anni, e a S. Marcellino, 50. 50  Particolarmente interessante questa Passione in quanto potrebbe essere stata scritta da un Ambrogio ravennate, perciò le notizie riportate potrebbero essere fededegne e permetterebbero di rivedere alcuni aspetti riguardanti i primi tempi della chiesa ravennate. Le indagini al riguardo potrebbero essere indirizzate verso un tema di una certa importanza: mi riferisco alla possibilità che i martiri Gervasio e Protasio corrispondano ai  Dioscuri. Considerato che nel ravennate vi sono molte testimonianze riguardanti i due gemelli protagonisti  della Saga Argonautica, e che all’epoca della Passio vi erano in loco  molti pagani di origine orientale, non si può escludere che questa sia pure servita al clero ravennate per facilitare il passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Il tema merita di essere approfondito: all’inizio del secolo scorso, è stato oggetto di un vivace  dibattito, cfr. Harris 1903; Franchi De Cavalieri, 1903; Delahaye, 1904;  e, recentemente, Sgubbi, 2006b. 51  Mazzarino, 1965-1966, pp. 109-114.


E' forse opportuno qualche cenno sulla diffusione del cristianesimo. A parere degli studiosi, i punti di irradiazione di questa religione verso l'Emilia-Romagna furono fondamentalmente tre: da Classe, grazie anche al porto romano che metteva in comunicazione l’alto Adriatico con le terre del Medio Oriente; da Milano lungo la via Emilia; da Roma attraverso l’Umbria.  E' probabile che quest’ultima direttrice sia stata prevalente, dato che, come si è già osservato, l'Umbria si è sempre rivelata la via di transito abituale per varie popolazioni provenienti dal Lazio; e del resto a questa origine riconducono i santi venerati in Romagna.  Sempre in tema di evangelizzazione, sarebbe utile alla nostra ricerca stabilire la provenienza della liturgia "siriaca", cioè l'antichissima liturgia praticata in tutte le chiese dell’Italia settentrionale; anche in questo caso ne sono rimaste tracce in Romagna nel culto dei santi, ma non è chiaro se sia arrivata da Milano, da Ravenna, oppure da Roma attraverso l’Umbria52, ma l'argomento esula dai limiti di questa trattazione.  Anche l'incidenza e la diffusione dell'arianesimo potrebbe aiutare a far luce su alcuni punti controversi, in particolare riguardo alle numerose sedi vescovili emiliano-romagnole per lunghi periodi sprovviste di vescovi. Ilario di Poitiers ha tramandato una lista di vescovi ariani che avevano partecipato al concilio riminese del 35953: non si può infatti escludere che alcuni di questi fossero romagnoli. Una conoscenza più approfondita su questo punto consentirebbe anche di individuare l'identità del metropolita ortodosso dell’Italia settentrionale, forse S. Eusebio di Vercelli. Senza dubbio l'eresia ariana fu una delle più diffuse nel corso della bimillenaria storia della chiesa, come attesta la situazione che si era venuta a creare ad opera dell'imperatore Costante, che aveva insediato vescovi ariani in ogni sede episcopale. Così durante il secolo IV, dalla seconda metà degli anni 50 alla prima metà degli anni 70, anche le sedi più importanti, comprese quelle di Milano e di Roma, erano occupate da vescovi ariani. 


5. Milano metropoli?

Tralasciando altre considerazioni sull'argomento, passiamo a considerare uno dei punti centrali di questa ricerca, cioè la metropoli milanese, con particolare riguardo al periodo ambrosiano.  Intanto è opportuno precisare le prerogative delle metropoli ecclesiastiche. Nonostante qualche parere discorde, in generale si assume che al metropolita spettasse il compito di consacrare i vescovi della sua giurisdizione, di indire sinodi e di svolgere attività pastorale su tutto il territorio di sua competenza. Un punto resta controverso: se l’autorità del metropolita fosse parziale (sopra di lui il Papa), o totale, cioè nessuno sopra di lui. Con questa premessa, prendiamo in esame l’episcopato di S. Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397, ma alla data della sua elezione già da quattro anni governatore civile di alcune                                                  52  Sgubbi, 2003b p. 3, e La provenienza Umbra del cristianesimo romagnolo, di prossima pubblicazione. Se diamo uno sguardo ai santi venerati in Umbria nei primi tempi del cristianesimo constateremo che alcuni di questi sono venerati anche in Romagna: S. Cassiano, S. Eustacchio, S. Valentino, S. Savino, ed alcuni si trovano pure nelle nostre liste episcopali, come S. Apollinare, S. Procolo e S. Orso. Su quest'ultimo, cfr. anche G. Gregoire, 1964 p. 268. Circa la liturgia siriaca, la via d'accesso dei suoi esponenti da Antiochia in Emilia-Romagna sarebbe stata un tragitto marittimo fino a Classe, oppure fino a Roma, con successivo percorso via terra. 53  Hilarius, Fragmenta historica VIII, 1: Restitutus, Gregorius, Honoratus, Arthemius, Iginus, Priscus, Primus, Taurinus, Lucius, Mustacius, Urbanus, Honoratus, Solutor.    A questo elenco potremmo aggiungere anche una lista di vescovi che all’epoca del Baronio si trovavano nell’archivio della chiesa di Vercelli: Cacilianus, Valens, Ursacius, Saturninus, Eutiminus, Junior, Proculus, Martinianus, Probus, Gregorius, Victor, Vitalianus, Gaius, Paulus, Germinius, Evagrius, Epittetus, Leontius, Olympius, Trophon, Dionisius, Acatius, Eustatius, Rotanus, Olimpius, Stratolalus, Florens, Quintilius. Esiste anche una lista di vescovi compilata da S Atanasio: Probatius, Viator, Facundinus, Joseph, Numedius, Sperantius, Severus, Heraclianus, Faustinus, Antoninus, Heraclius, Vitalius, Felix, Crispinus, Paulianus.  Anche in queste due liste vi possono essere dei vescovi romagnoli.


regioni, fra cui l’Emilia. S. Ambrogio è giustamente ritenuto uno dei massimi Padri della Chiesa, tanto che quello del suo apostolato è definito “periodo ambrosiano”; la liturgia ambrosiana è del resto tuttora vigente nel territorio milanese, e le sue opere sono ancora apprezzate. Fra i molti interrogativi di questo periodo che meritano indagini più approfondite, due in particolare interessano il nostro discorso: lo statuto di metropoli attribuito a Milano e la dipendenza di Imola e Faenza da detta, per ora ipotetica, metropoli.  Questi problemi, a lungo e variamente dibattuti, non hanno ancora trovato una soluzione definitiva; con questo breve excursus ci proponiamo almeno di delinearne i termini.  Per comodità di esposizione la trattazione dell'argomento è stata divisa in due parti, relative ai periodi preambrosiano e ambrosiano. 



5. 1. Periodo preambrosiano

A parere di alcuni cronisti settecenteschi ed ottocenteschi, la Chiesa milanese sarebbe stata fondata nel I sec. dopo Cristo da S. Barnaba, o da S. Antalone, cioè da uno dei 72 discepoli di Gesù; di conseguenza sarebbe stata insignita del titolo di metropoli già dal momento della sua fondazione. Infatti, come si è già ricordato, le chiese che potevano vantare un'origine apostolica o sub-apostolica non erano soggette alla dipendenza dal papa, perciò, anche se in antico non erano espressamente chiamate ‘metropoli’, avevano di fatto poteri metropolitici.  Ma in realtà l’origine della chiesa milanese non risale a tempi così antichi. Il suo primo vescovo, S. Antalone, aveva occupato la cattedra solo verso la fine del II secolo, se non addirittura all’inizio del III. L’errore è dovuto a una antica cronaca, il De situ civitatis  Mediolani54, un'opera di data incerta, meglio conosciuta come Datiana Historia, e ad uno scritto di Paolo Diacono55, il De Episcopis Mettersibus (VIII sec.) in cui effettivamente viene riportata la notizia che questi due discepoli sarebbero i fondatori di varie chiese, fra cui quella milanese. Ad aumentare la confusione contribuì anche l’anonimo scrittore greco che verso il VI secolo stilò il catalogo dei 72 discepoli, che egli scelse alla rinfusa dalle Sacre Scritture, attribuendo a ciascuno arbitrariamente una diocesi. Perciò l'antichità attribuita allo statuto metropolitico di Milano è senz'altro priva di sicuro fondamento.  Poco credibile è pure l’ipotesi che la Chiesa milanese sia diventata metropoli successivamente alla divisione civile dell’Italia in seguito alla riforma dell’imperatore Diocleziano, avvenuta nel 297: è ancora il periodo delle grandi persecuzioni, e un evento del genere appare del tutto improbabile. Del pari poco plausibile è l'eventualità che la Chiesa milanese fosse metropoli nei primi decenni del IV secolo. Lo attesterebbe uno scritto di S. Atanasio, che descrive le vicende del sinodo milanese del 355. Da lui si apprende che, a causa degli ariani, erano stati costretti all’esilio alcuni vescovi, che egli cita per nome: fra gli altri, Dionisio di Milano, Lucifero di Cagliari e Paolino di Treviri. E poiché al nome di questi tre vescovi S. Atanasio aggiunge la dicitura Metropolis56, alcuni studiosi hanno proposto di intendere “Metropoli Ecclesiastica”; ma in realtà, come è stato definitivamente accertato, sia Paolino di Treviri che Lucifero di Cagliari non erano all’epoca metropoliti ecclesiastici, e, di conseguenza, per metropoli non si deve intendere niente di più che l'istituzione civile. Gli studiosi che considerano Milano metropoli ecclesiastica anche prima del periodo ambrosiano, fondano la loro ipotesi sul fatto che in vari concili i primi firmatari furono vescovi milanesi. Effettivamente chi firmava per primo, oppure per secondo dopo il Papa, poteva essere considerato un metropolita; ma dai documenti risulta che questa regola fu valida solo verso la fine del IV secolo. Perciò se è vero                                                  54  Tomea, 1989. 55  Paolo Diacono, De Ordine Episcoporum Mettensium, Mon. Germ. Hist. II p. 261 56  Villa, 1830, p. 12


che nel già ricordato Concilio di Milano del 355 il primo firmatario fu di fatto il vescovo di Milano Dionisio, è anche vero che nel Concilio di Sardica del 343 la firma di Protasio di Milano figura solo al sesto posto.  E del resto fino a tutto il IV secolo l’unico metropolita dell’occidente era considerato il Papa57. Non mancano studiosi convinti che quando Milano divenne capitale dell’impero romano nel 286, acquisì ipso facto anche lo statuto di metropoli ecclesiastica. Non ci sono prove che dimostrino il contrario, ma certo non si trattava di una promozione automatica: infatti nel 402 anche Ravenna diventò capitale dell’impero romano, ma la sua Chiesa diventò metropoli solo trent’anni dopo.  Non esiste in realtà un solo documento che dimostri in modo inequivocabile che prima di Ambrogio la Chiesa milanese abbia usufruito dei diritti metropolitici.  Di fatto, il primo documento certo di Milano metropoli risale solo al 45158. 

5. 2. Periodo ambrosiano

Anche se per molti lo statuto di metropoli attribuito a Milano sotto Ambrogio appare una realtà indiscutibile, di fatto si tratta solo di un’ipotesi, fondata in sostanza su due elementi: una lettera che il santo avrebbe scritto alla chiesa di Vercelli, e la sua intensa attività pastorale. La lettera di S. Ambrogio alla Chiesa di Vercelli59 è una missiva senza data; l‘unico elemento indicativo in tal senso è il fatto che quando fu scritta la sede vescovile di Vercelli era vacante, perciò le date possibili sono due: fra il 370 e il 372, se fu inviata in seguito alla morte del vescovo Eusebio; nel 396, se in seguito alla morte del suo successore Limenio. Sull’argomento le ipotesi sono discordi: i più si esprimono a favore del 396, mentre lo Schepens60, dopo approfondito esame, la colloca nel 372.   L’importanza del documento consiste nel fatto che si tratterebbe dell’unica lettera in cui Ambrogio fa menzione della metropoli milanese e ne definisce addirittura i confini. Infatti S. Ambrogio, sempre che ne sia veramente l’autore, si lamenta con il clero vercellese del fatto che da tempo la sede vescovile di Vercelli è vacante, e che a causa di ciò non è stato possibile creare altri vescovi, con la grave conseguenza che molte altre chiese ne sono rimaste prive. Se ne può arguire che la chiesa di Vercelli era una “scuola” di vescovi. La lettera prosegue elencando le regioni in cui le chiese erano senza vescovo: “Liguria, Emilia, Venezie, e le regioni confinanti”. Fra le regioni confinanti vi era pure la Flaminia. E’ evidente l’importanza di questi dati ai fini della nostra ricerca; ma esistono seri dubbi in merito all’autenticità del documento. Nei primi anni 90, in due articoli, Barbara Agosti ha infatti sollevato molti dubbi sulla “ambrosianità” di tale lettera61. Varie sono le ragioni avanzate dalla studiosa: la lettera è stranamente firmata con la dicitura Servus Cristi, definizione con cui si designava un monaco, e pertanto un vescovo di origine monacale, il che escluderebbe S. Ambrogio, che monaco non era mai stato62. Inoltre ai tempi di S. Ambrogio vi erano in Lombardia altri religiosi di nome Ambrogio: un Ambrogio vescovo, un Ambrogio
                                                 57  Cattaneo, 1972, p. 472. Cfr. anche Grossi, 2001, p. 241; lo pseudo Decretum gelasianum contiene una dichiarazione fatta “in un concilio tenuto sotto papa Damaso”, sicuramente quello del 382, dove si afferma che l’unico metropolita dell’occidente è il vescovo di Roma. 58  Cattaneo, 1972, p. 483 59  Epist. ad Vercellensis,  Maurini 63. 60  Schepens, 1950 p. 297. 61  Agosti, 1990 e 1991. 62  Effettivamente S. Ambrogio non si firmava mai “Servus Christi”, come si apprende dando uno sguardo alle passioni a lui falsamente attribuite; quelle contrassegnate da questa sigla vennero infatti per ciò stesso considerate "pseudo-ambrosiane”; cfr. Passio Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi Ursicini, BHL 3514; Atti S. Agnese PL XVII 813; le due Passio SS. Vitale ed Agricola; BHL 8690 e 8692; ecc.


monaco ed un Ambrogio martire, che spesso furono confusi con il vescovo di Milano63. La Agosti aggiunge alla lista degli omonimi un vescovo Ambrogio, ricordato in una iscrizione della Basilica Apostolorum, e l’Ambrogio che partecipò al funerale di S. Martino, quando S. Ambrogio era morto da almeno 6 mesi. Quanto alla lettera alla Chiesa di Vercelli la studiosa nega che S. Ambrogio ne sia l'autore in base alle seguenti considerazioni: S. Ambrogio non può averla scritta nel 372, cioè durante il periodo in cui la chiesa di Vercelli era vacante dopo la morte di Eusebio, in quanto allora S. Ambrogio non era ancora stato eletto vescovo; e neppure nel 396, quando la cattedra episcopale era vacante in seguito alla morte di Limenio, in quanto S. Ambrogio non fa menzione di questo vescovo: eppure, come attesta un antico calendario di Vercelli, sarebbe stato quello che lo aveva consacrato. Per di più era impossibile per S. Ambrogio recarsi personalmente a Vercelli in quel periodo, perché era gravemente ammalato. Perciò anche la data del 396 appare inattendibile64.  La Agosti, come lei stessa riconosce, non è stata la prima a rilevare incongruenze nell'attribuzione della paternità della lettera; cita infatti il biografo Paolino, che non ritenne opportuno inserirla fra quelle meritevoli di essere date alle stampe, e i padri Maurini, monaci dell’ordine di S. Mauro, che nel sedicesimo secolo pubblicarono tutte le opere di S. Ambrogio, ma sollevarono seri dubbi sulla paternità ambrosiana di tale lettera65. Condivide l'ipotesi della Agosti la Billanovich66; ne prende atto con qualche perplessità il Savon67, che però non tiene conto del secondo articolo della Agosti e si limita a mettere in discussione la non impossibile ambrosianità del “servus Cristi”. Al Savon rimandano Visonà68, Lizzi69 e Ruggini70.  Anche se l'argomento non è stato oggetto di un più vasto dibattito71, resta il fatto che l'attribuzione a S. Ambrogio della lettera ad Vercellensis non è più così pacifica; e di conseguenza non può essere assunta come prova del carattere metropolitico di Milano nel periodo ambrosiano.  L'altro argomento a favore di questa ipotesi è, come si è detto, l’intensa attività pastorale di S. Ambrogio durante il suo episcopato. Di fatto il vescovo svolse attività infaticabile: consacrò vescovi, (Piacenza, Brescia, Aquilea, Ivrea, Novara ecc), indisse sinodi (381 ad Aquilea, 390 e 393 a Milano), scrisse un vasto epistolario, intervenne in varie dispute. Senza alcun dubbio quella di S. Ambrogio fu l'attività di pertinenza di un metropolita; ma c'è da notare che il suo raggio di azione si estese ben al di fuori dei confini della presunta metropoli lombarda: elesse vescovi a Nicomedia, e a Sirmio, altri ne depose, indisse il sinodo di Capua, scrisse ovunque missive, intervenne a dirimere conflitti in materia di religione, dottrina e liturgia nelle chiese di Gallia, Spagna, Africa, Siria, Grecia. E' evidente allora che il prestigio di S. Ambrogio non derivava dalla sua posizione nella gerarchia ecclesiastica, ma dalla sua eccezionale personalità, che giganteggiava nella generale mediocrità dell'epoca: per questo, come alcuni hanno osservato, molti si rivolgevano a S. Ambrogio non in quanto metropolita, ma in virtù delle sue straordinarie doti, dal momento che i Papi dell’epoca sarebbero stati “di scarsa levatura”72. Se poi fosse realmente esistita una giurisdizione metropolitica milanese, questa prerogativa sarebbe stata ereditata anche dai successori di S. Ambrogio, cosa che invece non è accaduta: infatti a parte Simpliciano, suo immediato successore, e quindi erede diretto delle sue                                                  63  Morigia, 1592 p. 332; cfr. Bibliotheca Sanctorum s.v. S. Ambrogio. 64  Agosti, 1990 p. 217. 65  ibidem. 66  Billanovich, 1991 p.23 e 1993, p. 51. 67  Savon,1997, pp 326-329. 68  Visona, 1999, pp 150.151. 69  Lizzi Testa,  2004 p. 115. 70  Cracco  Ruggini, 1997, p. 100. 71  Forse perché il secondo articolo è stato pubblicato in una rivista di non grande diffusione. 72  “Figure di Papi scialbe”: cfr. Palanque, 1940, p. 708.


iniziative e del suo prestigio, il quale ebbe influenza internazionale73, tutti gli altri vescovi, ad iniziare da Venerio (401-411), erano privi di qualsiasi autorità sugli altri colleghi. E, in ogni caso, il primo documento certo del carattere metropolitico della chiesa milanese risale solo al 45174. Tenendo conto di questi elementi, appare improbabile che all'epoca di S. Ambrogio Milano fosse metropoli; e su questo concordano anche il Carli75 e il Cattaneo76.

6. Posizione ecclesiastica di Imola e Faenza

Resta ora da definire, sulla base di questi dati, quale fosse la posizione ecclesiastica di Imola e Faenza, cioè se queste due città erano o non erano suffraganee di S. Ambrogio.  Dalle riflessioni fin qui esposte risulta per lo meno opinabile l'ipotesi da altri sostenuta che nell'ultimo quarto del IV secolo la Chiesa di Milano fosse metropoli, che S. Ambrogio fosse il vescovo metropolita, che la Flaminia facesse parte di tale presunta metropoli, e che Imola e Faenza si trovassero in territorio emiliano; resta da vedere se, per qualche altro aspetto, dipendevano da S. Ambrogio.  Ci sono vari fatti che lasciano supporre il contrario. Per non citarne che alcuni, nessun vescovo di Imola e di Faenza partecipò mai ai sinodi indetti dal vescovo milanese; nessun vescovo di Imola e Faenza fu consacrato da S. Ambrogio o da altri metropoliti milanesi; e nell’elenco, compilato da S. Ambrogio, delle città esistenti sulla via Emilia, “semirutarum  urbium cadavera”77, che alcuni  considerano l’elenco delle città della sua giurisdizione, non figurano né Imola né Faenza (infatti l'elenco inizia da Claterna e finisce a Piacenza); S. Ambrogio non ricorda mai il martire imolese San Cassiano; a Faenza non è venerato nessun santo ambrosiano; nell’imolese una solo chiesa è titolata a S. Ambrogio, ma si sa che tale titolazione non ha niente a che fare con la sua attività pastorale78; e, infine, S. Ambrogio non ha mai fatto menzione della Flaminia, mentre ha ricordato più volte l'Emilia79.  In base a questi dati, l'attribuzione a Imola e Faenza dello statuto di suffraganee di S. Ambrogio mi sembra discutibile  Peraltro, chi sostiene la tesi della dipendenza delle due città dalla Chiesa ambrosiana dispone di dati scarsi e scarsamente probanti, che in sostanza si riducono a due: nel 393 S. Ambrogio soggiornò per alcuni giorni a Faenza, e, quanto alla chiesa di Imola, S. Ambrogio ne fa menzione in una lettera. Il primo evento si verificò nel 393, quando S. Ambrogio fu costretto a fuggire da Milano dove stava per arrivare l’usurpatore Eugenio. Per alcuni giorni si fermò a Bologna, poi proseguì lungo la via Emilia, forse con l'intenzione di andare a Roma, e infine si trattenne per un breve periodo a Faenza80. I motivi non sono noti: forse si trattò di una sosta forzata a causa del maltempo. Non mi sembra però che da questo si possa dedurre che Faenza dipendeva dalla metropoli di Milano; infatti nel corso della stessa trasferta S. Ambrogio si trattenne per almeno un anno a Firenze, che certamente non faceva parte della metropoli milanese. Quanto alla lettera in cui è menzionata la Chiesa imolese, si tratta di un documento ricco di spunti e di implicazioni, che pertanto merita una trattazione più approfondita.

                                                 73  A lui ricorrono  gli africani  del concilio di Cartagine del 397, i vescovi della Gallia al concilio di Torino del 398 e i vescovi spagnoli del concilio di Toledo del 400, concili di fatto indetti dall’ancor vivente  S. Ambrogio. 74  Cattaneo, 1972, p. 483. 75  Carli, 1786, pp 185-195. 76  Cattaneo, 1972, p. 483. 77  Ambrogio, Ep. 39. 78  La chiesa parrocchiale è stata intitolata a S. Ambrogio non perché tale  territorio fosse di competenza di Milano, ma perché fu edificata da famiglie lombarde fuggite in seguito alle scorribande degli Unni (452) o dei Longobardi(568); cfr. Cortini, 1933, p. 5. 79  Ambrogio. Ep. 23 80  Paulini , Vita S. Ambrosii  27,  in PL 14,38.


7. Lettera di S. Ambrogio al vescovo Costanzo.

Nell'anno 379, un vescovo di nome Costanzo, di sede non specificata, ma sicuramente vicina alla chiesa Imolese, ricevette da S. Ambrogio l’invito a visitare saltuariamente la chiesa di Imola, in quanto in quel momento sprovvista di vescovo81. E' opinione condivisa che l'attenzione di S. Ambrogio verso la chiesa di Imola, e l'autorità di cui appariva investito basterebbero a dimostrare che tale chiesa era una sua suffraganea; ma, come già si è osservato, prima di diventare vescovo di Milano, S. Ambrogio era stato civilmente governatore di un territorio comprendete anche l'attuale Emilia, e pertanto è probabile che godesse ancora di una certa autorità anche sul piano ecclesiastico; inoltre nel corso della sua attività pastorale S. Ambrogio si era più volte preoccupato di chiese non sottoposte alla sua giurisdizione, e pertanto sarebbe azzardato attribuire valore probante alla semplice evidenza del suo interessamento.  Oltre a queste considerazioni generali, esistono fatti più specifici. Nel 378, cioè l’anno precedente l'invio della lettera al vescovo Costanzo, S. Ambrogio partecipò a un sinodo romano finalizzato tra l'altro a valutare la situazione venutasi a creare in seguito alla crisi ariana. Come si è ricordato, per ordine dell'imperatore erano stati imposti vescovi ariani in molte chiese dell'Italia Settentrionale82 e forse in particolare nella Flaminia, dal momento che nel famoso Concilio di Rimini (359) gli ariani stravinsero. Con queste premesse, non sembra di poter escludere che anche la cattedra imolese fosse occupata da un vescovo ariano, e che questi, in seguito a scomunica papale, avesse abbandonato tale sede, lasciando, ovviamente, un clero di fede prevalentemente ariana. Tale eventualità spiegherebbe sia perché la sede era vacante, sia l'autorità con cui S. Ambrogio prendeva posizione nei confronti della chiesa imolese: lo faceva in forza di una delega papale. E' questa la tesi esposta nel 1787 dal Carli83; e del resto non è forse casuale che la lettera di S. Ambrogio a Costanzo fosse incentrata sul problema degli ariani. Infatti S. Ambrogio si limita ad invitare Costanzo a visitare la chiesa di Imola finché non sia stato eletto un vescovo; non dice che prossimamente verrà lui ad eleggerlo o a consacrarlo, né sembra interessato a tale elezione: la sua preoccupazione sembra invece rivolta alla presenza in loco di "Illirici" di fede ariana. D'altra parte già altre volte S. Ambrogio, in seguito a delega papale, si era interessato ad una sede vescovile estranea alla sua giurisdizione, come nel 378, in occasione dell’elezione di Anemio vescovo di Sirmio84. E comunque, a parte queste considerazioni, non era un fatto eccezionale che i vescovi dell'Italia settentrionale, considerata la grande distanza da Roma, prendessero decisioni arrogandosi prerogative metropolitiche, anche senza essere investiti dal papa di tale autorità; lo attestano le lettere con cui vari papi cercavano di riportarli nell'ambito delle loro competenze, o si lamentavano che avessero trasgredito le direttive sinodali. Così la lettera scritta nel 404 da Innocenzo I al vescovo di Rouen, o quelle scritte nel 417 dal suo successore Zozimo85. Più ricca di implicazioni ai fini del nostro assunto è l'identificazione della sede del vescovo Costanzo: infatti, se S. Ambrogio si sentiva autorizzato a impartirgli simili direttive, è legittimo supporre che la sede del vescovo Costanzo dovesse dipendere, in modo totale o parziale, dalla sede ambrosiana. Non si può escludere anzi che questo Costanzo fosse di scuola milanese, dato che Ambrogio lo chiama “figlio mio”. E' certo dunque che l'identificazione della sede di Costanzo fornirebbe un dato sicuro in merito all'estensione della giurisdizione ecclesiastica milanese. Sull'argomento sono state avanzate varie ipotesi; ma le più plausibili sono Faenza e Claterna, perché più vicine a Imola.
                                                 81  Ambrogio, Ep. 2. 82  E anche dopo che gli ortodossi ebbero ripreso il sopravvento, alcuni vescovi ariani, come Urbano di Parma, nonostante la scomunica continuavano a detenere le loro sedi.   83  Carli, 1786, p. 236. 84  Menis, 1973 p. 276. 85  Cattaneo, 1972, p. 481.


Il dibattito è ancora acceso.  Il Lanzoni afferma che Claterna è più vicina a Imola86, mentre il Lucchesi e altri87 affermano che invece le è più vicina Faenza; ma è chiaro che il criterio della distanza geografica, trattandosi di poche miglia, è poco indicativo. Su altre basi, il Lucchesi si schiera a favore di Faenza, in parte perché è convinto che le chiese di Imola e Faenza fossero suffraganee di S. Ambrogio, in parte perché non ci sarebbero prove del fatto che Claterna fosse una diocesi; invece il Palanque88, il Pasini89 e pochissimi altri identificano in Claterna la sede di Costanzo, benché non forniscano elementi atti a dimostrare che si trattasse di una sede vescovile.  Oltre a queste possibili sedi c'era la diocesi di Bologna, i cui vescovi erano ben noti a S. Ambrogio; ma di fatto la lista episcopale bolognese non contiene nessun vescovo di nome Costanzo90. Escludendo Bologna, e poiché, per i motivi esposti sopra, appare improbabile che Faenza fosse suffraganea della chiesa milanese, l'ipotesi di Claterna come sede di Costanzo sembra la più plausibile. La mancanza di testimonianze documentarie che indichino Claterna come sede vescovile non può comunque costituire una prova del contrario; si tenga presenta che Claterna, a differenza di altre città, fu distrutta molto presto, e questa può essere una delle ragioni per cui con tale qualifica non è ricordata; e del resto tutte le città romane poste sulla via Emilia furono sedi vescovili: perché mai Claterna avrebbe dovuto essere esclusa da questo privilegio? Non è quindi fuori luogo ipotizzare che la sede del vescovo Costanzo fosse Claterna. Se così fosse, questo Costanzo si potrebbe anche identificare con il destinatario di un'altra lettera che S. Ambrogio scrisse successivamente ad un vescovo di tale nome91; e sarebbe probabilmente quello stesso Costanzo che presenziò al sinodo milanese del 393 indetto da S. Ambrogio.


Conclusione

Le considerazioni fin qui esposte portano a concludere che in età romana Imola e Faenza appartenevano territorialmente alla provincia Flaminia, e che non dipendevano dal Vicariato Annonario, né erano suffraganee del vescovo di Milano. Questa tesi si fonda su un assunto iniziale, che pone il Sillaro come confine tra l'Emilia e la Romagna: un fatto dimostrato da una serie congruente di elementi, in base ai quali risulta evidente che il suo corso contrassegna il limite fra due diverse aree geologiche e fra due diverse realtà di ordine antropologico, culturale, linguistico; diverse sono le pratiche e le culture agricole, diverse le tradizioni. Imola e Faenza, ubicate ad est del Sillaro, trovano nel fiume il confine fisico, e, presumibilmente, anche politico e giuridico, che le destina a una diversa sfera di influenza.  


                                                 86  Lanzoni, 1927, p.772. 87  Lucchesi, 1983, p. 85. L'attribuzione apodittica di Imola all'antica provincia ecclesiastica milanese ha inibito ulteriori indagini sui vescovi di Milano; e gli studi di diverso orientamento sono stati di fatto ignorati o contestati: così, davanti ai dati esposti da Pierpaoli, 1988, p. 72 - il quale (sulla scorta dell’Agnello Ravennate, del Crisologo, Sermone 165, e dell’Ughelli, Italia Sacra, 1717-1722, t. II, pag. 623) sostiene che nell’anno 400 un Cornelio Imolese sarebbe stato consacrato dal Papa - alcuni studiosi, fra cui il Lucchesi, hanno contestato tale testimonianza con la semplice motivazione che all’epoca di detto vescovo (inizio V secolo) Imola era suffraganea di Milano, perciò eventuali suoi vescovi non potevano essere consacrati dal Papa. Cfr. Lucchesi 1969 pp. 78-81. 88  Palanque,  p. 691. 89  Pasini, 1996, p. 203. 90  Lanzoni, 1927, p. 771. 91  Ambrogio, Ep.72.


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Questo articolo  con alcune brevissime  variazioni è stato pubblicato in Pallas (Tolosa) n. 77 2008




Al di qua e al di là del Sillaro
Note sui confini occidentali della Romagna dalla preistoria al Medioevo

AI  MIEI  FIGLI FAUSTO E FABRIZIO
 Se i fatti dimostrano che un avvenimento  è accaduto, il constatarlo è storia  


Come è noto, i confini storici della Romagna non coincidono con gli attuali confini amministrativi  che la riducono alle tre province di Ravenna, Forlì e Rimini (1).  Purtroppo, nonostante  vari tentativi (2), questi confini non risultano  ancora  geograficamente fissati, cioè  ci sono ma non vengono ufficialmente riconosciuti. Per il fatto stesso che la regione Emilia- Romagna è designata da due nomi, corrispondenti a due aree distinte con una loro delimitazione legislativa, dovrebbe essere indicato ed evidenziato  almeno il confine  fra le stesse. E, di fatto, da tempi immemorabili  il confine fra queste  due aree esiste,  ed è segnato dal fiume Sillaro (dalla  sua sorgente alla confluenza nel Reno e dal Reno al mare) (3); e la consapevolezza di questo  confine, ben radicata  nella popolazione, stabilisce un senso di “appartenenza”: non a caso al di qua di questo fiume  gli abitanti si dicono Romagnoli, al di là si dicono Emiliani; tutto quello che è al di qua  si dice che è in Romagna, tutto quello che è al di là si dice che è in Emilia. Appare quindi piuttosto improbabile che, come qualcuno vorrebbe far credere (4), si tratti di un confine  inventato o immaginato. Scopo di questo scritto è dimostrare che il corso di questo fiume, anche se non ha sempre segnato  esattamente  il confine fra Romagna ed Emilia, ha costantemente rappresentato un preciso discrimine tra i popoli che si sono succeduti in questa zona da almeno 2500 anni (dai Villanoviani agli Etruschi ai Romagnoli) e ha segnato confini  territoriali (regionali, provinciali, comunali, di diocesi, di contado, di ducati, di legazioni, ecc.). Dati i limiti imposti al presente lavoro, si prenderà in esame solo un tratto del confine romagnolo; l’intenzione è di offrire  comunque  un contributo  alla tanto dibattuta questione se Bologna  ha o non ha mai fatto parte della Romagna.(5). Sono note le difficoltà che incontra chi si propone di descrivere qualunque tipo di confine, non solo perché la documentazione è spesso insufficiente  e contradditoria, ma anche perché i cronisti antichi erano interessati a far conoscere gli avvenimenti e non i confini. Inoltre i confini hanno subito  costanti cambiamenti,  sia perché spesso erano segnati da instabili corsi d’acqua, sia perché venivano ridisegnati dal susseguirsi delle vicende belliche, in quanto i vincitori ingrandivano il proprio territorio; e, considerato che si era continuamente in guerra, si può immaginare quanto sia arduo seguire  cronologicamente  le variazioni.  Nonostante tali difficoltà, i dati fin qui raccolti mi hanno portato alla convinzione che non esiste dalle nostre parti  un confine più importante  di quello segnato dal Sillaro. Iniziamo l’indagine con un significativo confine antropologico. Nel 1879, il colonnello medico Ridolfi Livi (6) riceve dal ministro della guerra dell’epoca  l’incarico di effettuare  una indagine  antropologica su tutto il regno e dopo  averla effettuata “fotografa”  i risultati raggiunti tratteggiando le varie aree geografiche  italiane  in base alla consistenza cefalica:  ebbene,  dando uno sguardo alle varie cartine,  si noterà un ben diverso  tratteggio  in


corrispondenza del corso del Sillaro.  Si tenga presente che, a parere di molti antropologi,  l’indice cefalico,  cioè il rapporto  geometrico fra lunghezza e larghezza del cranio,  è il più importante degli indizi della diversità delle razze; perciò non si può non essere sorpresi nel constatare un tratto distintivo di tale portata in corrispondenza di un così piccolo corso di acqua.  Anche il più scettico degli studiosi dovrà  ammettere che tale  diversità etnica non può essere frutto di recenti stanziamenti di popolazioni,  ma di lunghissime e antiche migrazioni. A parere di molti studiosi il Sillaro segna un  ben visibile confine naturale. Il Lucchi (7) inizia una sua conferenza con queste parole:”la diversità dei romagnoli rispetto ai bolognesi è confermata dalla geologia; la valle del Sillaro, come riporta Zangheri, è la linea di separazione etnica, geografica,(no-tare la diversità del paesaggio tra Sillaro e Santerno) e geologica: cambia l’accento, cambia il dialetto, cambia il vino e cambiano le rocce”. Giustamente il Lucchi ha ricordato lo Zangheri (8): questi  infatti  ha messo in evidenza la diversità  non solo geologica ma anche della fauna e della flora;  grazie a lui apprendiamo che in Romagna vi sono almeno un centinaio  di piante e di animali introvabili  al di là del Sillaro (9).  Già in epoca preistorica (VIII-IV) a. C questo fiume divideva  popolazioni con culture diverse; dice il Mansuelli (10) che il Villanoviano Romagnolo è diverso da quello bolognese; la sua opinione è condivisa dalla Bermond Montanari (11), che fa notare come in Romagna i più importanti aspetti della cultura materiale (armi, ceramica, oggetti ornamentali e funerari) si contrappongono omogeneamente a quelli felsinei. A parere di  Calvetti e di Servadei (12) esiste  una  contrapposizione “etnopolitica” tra  emiliani, eredi dei Galli Boi, e romagnoli eredi dei Galli Senoni. L’esistenza  di popolazioni tenute divise dal Sillaro conferma l’indagine antropologica del  colonnello Livi (13). Di tale diversità non tennero conto i Romani. Infatti in età Augustea l’Italia venne divisa in “regioni” e quella  designata dal numero VIII prese il nome di Aemilia dal nome  della strada che da Rimini arriva a Piacenza. Questa Aemilia corrisponde solo in parte alla attuale EmiliaRomagna; infatti comprendeva  dei territori che ora non ha più (Oltrepò Pavese e Mantovano), ed era mancante di territori ora facenti parte della nostra regione (ferrarese e sarsinate). Del fatto che tale regione riuniva  popolazioni diverse si accorse invece un altro imperatore romano, Diocleziano, che pensò bene di dividerla in due parti: una detta Aemilia ed una detta  Flaminia. Non è chiaro quale fosse il confine esatto  fra queste due regioni: l’opinione più diffusa è che a quei tempi fosse segnato dal Panaro. Il confine Panaro non  sembra molto convincente. Anzitutto dovremmo chiederci  la ragione per cui  la regione Flaminia  aveva tale nome. Non appare plausibile riferirlo alla via Flaminia, che partiva da Roma e arrivava a Rimini, perché non attraversava la regione; vi era invece una anonima strada  detta Flaminia II, che, partendo da una non ben precisata località ubicata fra Imola e Bologna, arrivava ad Arezzo (14). Ebbene secondo il Susini (15) tale strada aveva  pure un tragitto “padano”,  cioè andava verso la “bassa“ seguendo più o meno il corso dell’attuale Reno, perciò lungo il confine della Romagna. Non dovremmo sorprenderci se  un giorno constateremo che questa  strada  attraversava  tutta la Romagna e si congiungeva alla via Flaminia proveniente da Roma. Per vari secoli, fino all’inizio del  periodo Longobardo, non esistono ricordi di confine fra Flaminia  ed Emilia;  gli unici riferimenti  si possono ricavare da alcune testimonianze indirette. Da una lettera  scritta da S. Ambrogio nel 387 (16) si apprende  il miserevole stato in cui si trovavano  ai tempi suoi  le città allineate sulla via Emilia. Egli inizia il suo elenco da Claterna (città romana che si trovava fra Imola e Bologna), cioè la prima città della sua giurisdizione. Come è noto la “provincia ecclesiastica”  Flaminia  dipendeva invece da Roma. Altre testimonianze indirette: scrive Zosimo (17) che Alarico nel 408, essendo diretto a Rimini,  oltrepassata Bologna avrebbe  attraversato “tutta l’Emilia”; nella prima metà del secolo V, è testimoniata in Italia la presenza di Sarmati (18), alcuni dei quali si trovavano a Bologna ”città della Emilia”.  Questo significa che all’epoca di questi documenti il confine  fra Emilia e Flamina si trovava


ad Est di Bologna. In questo periodo scarseggiano  le linee confinarie; l’unica  ricordata da varie fonti  è una non ben precisata “Provincia delle Alpi Appennine”, citata per la prima volta nel cosiddetto “Catalogo Madrileno”; non si trattava in realtà di una provincia ma di una linea difensiva tracciata dai Bizantini  a metà del versante Appenninico, dalla Liguria alle Marche, con lo scopo  di difendersi dal lato toscano  sia dai Goti che dai Longobardi.  Nel catalogo  vengono  indicate  le più importanti  località  di questa linea difensiva, Ferronianum, Montebellum, Bobbio, Urbinium e un non meglio identificato oppidum Verona. Uno di questi toponimi interessa da vicino la presente ricerca: Montebellum, che da tutti gli studiosi  moderni viene collegato per motivi fonetici a Monteveglio di Bologna. Unico significativo dissenso è quello del Mommsen (19): a parere dell’autorevole studioso era più giusto collegarlo al Monteveglio di Cesena. Del resto Monteveglio di Bologna non è forse il collegamento ideale: infatti questa cittadina si trova nell’alta pianura, a 114 metri  sul livello del mare, una altezza che mal si addice ad uno fortezza che doveva trovarsi a “mezza costa”, perciò molto più in alto. Si può peraltro avanzare una terza ipotesi, confortata da motivi di ordine semantico, cioè  che  Montebellum si possa piuttosto identificare  con Monte Battaglia (dato che lat. bellum significa “guerra”), una località  esistente nel crinale  fra le valli del Senio e del Santerno. E non è improbabile che lo stesso Monte Battaglia corrisponda al  Càstron Baraktelìa riportato da Giorgio Ciprio (20) nell’elenco dei castra Bizantini: la consonanza fra i due termini può giustificare un’etimologia popolare.   Arriviamo così al periodo longobardo e vediamo la situazione  dei confini, premettendo che, come dice il Diehl (21) vi è al riguardo molta indeterminatezza.  Diamo la parola alle fonti: il primo ricordo di un confine fra le terre occupate dai Longobardi (Longobardia) e dai Bizantini (Esarcato), è riportato  nel Liber Pontificalis (22), dove si legge che  la linea LuniMonselice formava un designatum  confinium; la data è incerta ma si presume che risalga agli anni 600-602. Verso il 640, i Longobardi  cercano di conquistare l’Esarcato ma vengono fermati al fiume Panaro, che scorre tra Modena e Bologna delimitandone i territori. Per secoli  questo confine tra le due città, benché si trovi più volte ubicato altrove, sarà  dai cronisti e commentatori antichi considerato  il confine “ufficiale”  fra Longobardia  ed Esarcato, poi Romandiola, poi Romagna. Difficile spiegare le ragioni di una persuasione così radicata. Una potrebbe essere che i cronisti  medioevali si documentavano per lo più sulle cronache Altomedioevali  (Paolo Diacono, Procopio, l’Agnello Ravennate, ecc.), oppure, rischiando errori ancor più gravi, davano credito alle numerose donazioni, a privilegi, conferme, riconoscimenti, ecc., molti dei  quali  sono poi risultati falsi. Lo stesso Dante (Purg. XIV), intendendo definire il confine della Romagna, lo colloca fra ”il Po e il monte e, la marina  e il Reno”. Fatto sta che fino al XV secolo vi furono geografi e storici che esprimevano ancora  tali convincimenti.  Ritornando ai Longobardi, verso il 727 Liutprando  cerca  ancora una volta di conquistare l’Esarcato e Paolo Diacono (23), descrivendo l’impresa, afferma che egli riuscì a conquistare  molte città  esarcali, fra  cui Bologna ed il “ducato di Persiceto”; non ricorda invece Imola. Ancora Paolo Diacono (24) attesta che  Ildebrando, nipote di Liutprando, nel 733 arrivò a conquistare Ravenna ma venne respinto e per poco  non perse Bologna; anzi l’avrebbe sicuramente persa se in tale occasione non fosse stato aiutato da tre personaggi. Walcari, Peredeo e Roctari, a cui il cronista attribuisce la qualifica di Duchi. Da queste due testimonianze si evincono alcune notizie importanti: che per l’appunto  il confine  era assestato ad Est di Bologna e a Ovest di Imola, che a tale confine arrivava il ducato di Persiceto, cioè terre di proprietà di duchi: ed è appena il caso di ricordare che a Ovest del Sillaro, e cioè in Emilia, c’erano i Ducati, mentre a Est del Sillaro, cioè in Romagna, c’erano le Signorie, cioè, in altri termini, il Sillaro  segna anche il confine fra i Ducati emiliani e le  Signorie romagnole. Ed è proprio dall’ubicazione di detto ducato che abbiamo la possibilità di determinare dove era  esattamente il confine in tale periodo. Abbiamo già visto che questo ducato fu conquistato  nel corso dell’avanzata del 727; ebbene, un documento, di data incerta


ma non successivo al 744 (25), conferma che il confine longobardo era segnato dal “limes Persiceti” e  da una donazione di Giovanni Duca  al  monastero di Nonantola (26) dell’anno 776, si apprende che in  detto ducato  vi era la “silva maior”, (che si trovava a cavallo  della via Emilia fra Imola e Bologna), un “Petricolo”, (San Martino in Pedriolo), e un“Lignano” (Liano frazione di Castel San Pietro Terme). Degli stessi possessi, ricordati nel 1072 (27), faceva pure parte “Monte  Sceleri”, (Monte Cerere, località esistente nell’alta valle  del Sillaro). Alla luce di questi documenti si può ipotizzare che il confine  orientale del ducato di Persiceto fosse segnato  dal fiume Sillaro, anche se, di fatto, i confini in questa zona appaiono talora aleatori; infatti da alcune testimonianze indirette si apprende che per un certo periodo  il confine fra Longobardi e Bizantini è stato segnato pure dal corso dei fiumi Senio –Santerno. Nell’anno 743, epoca di Papa Zaccaria, dice il cronista della sua vita (28) che in un viaggio da Ravenna alla volta di Pavia, la prima città che egli incontrò appena entrato in territorio Longobardo fu Imola. Altra testimonianza:  nell’anno 755 Stefano II proveniente dalla Francia  per la via Emilia, oltrepassata Imola entra nelle terre Esarcali (29). Nel periodo a cui si riferiscono queste testimonianze il confine doveva trovarsi ad Est di Imola; e si può cercare di localizzarlo con maggiore esattezza. Data l’esistenza, nel crinale fra le vallate del Senio e Santerno, della fortezza di Monte Battaglia, di cui è stata sottolineata l’importanza storica (30), si può ipotizzare questo tracciato: crinale dalla parte montana fino alla via Emilia (difeso dai castelli di Monte Battaglia, di Limisano e Limadiccio), poi  proseguimento in pianura  lungo un tratto della via Longa (31) (difeso dal castello di Limitealto) ed il corso antico del Santerno-Senio che, come è noto, passava vicinissimo a Bagnacavallo. Una conferma  che questo tracciato poteva  corrispondere al limes  è costituita  dal  fatto  che  esiste   in loco il noto  forestum magnum (32), una vasta area  delimitata dal corso antico del Senio-Santerno, che nel 744 Liutprando donò alla chiesa Faentina: come è evidente, se questo territorio non fosse stato lon-gobardo non avrebbe potuto essere donato da Liutprando. Questo confine non può aver durato a lungo, molto più a lungo deve  essere stato invece segnato dal Sillaro, in caso contrario  sarebbe difficile spiegare le differenze culturali fra i territori delimitati da questo fiume, differenze che non si riscontrano nel Senio –Santerno e tanto meno in  corrispondenza di altri corsi d’acqua.  Si pensi anche solo alla misurazione delle terre: al di là del Sillaro  veniva fatta con la pertica longobarda di 12 piedi,  mentre  al di qua  si usava la pertica romana di 10 piedi (33).  Di questo importante confine che in base ai dati di fatto si può considerare  sicuramente esistente  in epoca longobarda, sono state  trovate  alcune tracce archeologiche (34).  Ben presto infatti, Bologna, diversamente da Imola, verrà, in molti documenti, ricordata come città “Longobarda” (cioè facente parte della “Longobardia” e non dell’Esarcato): stando al Privilegio di Berengario del 905 (35) Bologna  fa parte del Regno Longobardo; nell’anno 962 Leone VIII dona ad Ottone  I  le terre Esarcali (36), e fra le varie città  vi è Imola ma non Bologna; nel Concilio  del 967  il vescovo di Bologna Adelberto si trova insieme ai vescovi emiliani (37); nel 980, sotto lo stesso vescovo, la stragrande maggioranza della popolazione di Bologna è longobarda (38); nel 999 i presuli ravennati  detengono il dominio sopra un territorio che si estendeva  dall’alto  imolese al mare (39), dominio già a suo tempo riconosciuto a loro da  Ottone III;  nel concilio di Guastalla del 1106 (Mansi XX 1209), Bologna si trova con le diocesi emiliane; nel 1114  viene eletto Papa  Lucio II che, essendo  nato a Bologna è detto “longobardo” (40); e “longobarda” è detta la società d’armi che  si trovava  a Bologna già nel 1174 (41); come pure era chiamata “longobarda” la città di Bologna nella bolla papale del  1262 (42).    Che il Sillaro è il “naturale” confine della Romagna lo si  può bene apprendere passando in rassegna i secolari confini fra Imola e Bologna (43), e i rispettivi confini Romani,  Diocesiani e di contado (44).


Se vi sono  dei dubbi in merito alla dipendenza dall’Esarcato o dalla Longobardia di Imola e Bologna nei primi secoli  del secondo millennio, grazie alla documentazione fornita dai vari censimenti  questi dubbi scompaiono: si tratta del Liber Fumantorum Comitatus Imolae (“Estimo del contado di Imola”) (1265) e della  Descriptio Romandiole (“Descrizione della Romagna”) del Cardinale Anglico (1371), che, se la si confronta con la Descriptio civitatis  Bononiensis  eiusque comitatus (“Descrizione della cittadinanza bolognese e del suo contado”) dello stesso autore, consente di rilevare i confini fra questi due  territori; e si potrà ancora una volta  constatare che li divideva il Sillaro. Abbiamo detto che Dante aveva definito i confini della Romagna riferendosi al periodo esarcale; ma sempre Dante ha ritenuto opportuno descrivere anche quelli vigenti ai tempi suoi: nel canto XXVII del Purgatorio cita infatti le sette città romagnole Imola, Faenza, Ravenna, Cervia, Forlì, Cesena e Rimini, cioè la Romagna attuale. Innumerevoli sono in questo periodo i documenti attestanti che il Sillaro è diventato un confine consolidato sia fra le Legazioni  romagnola e bolognese, che fra Imola e Bologna; fra gli altri si può menzionare l’affermazione di Papa Sisto IV il quale nel 1475  dichiarò che” tale confine  doveva seguire il corso del Sillaro”. (45).  Siamo arrivati così alla fine del periodo preso in esame; per la situazione nei secoli successivi non resta che dare uno sguardo alla cartografia iniziando dalla Romagna olim Flaminia  (“Romagna un tempo Flaminia”) del Magini (anno 1589) e via via tutte le altre per rendersi conto che il confine è sempre e solo il Sillaro. Un vistoso cambiamento di confine  viene deciso nel 1859: il circondario di Imola, dalla provincia di Ravenna, viene assegnato alla provincia di Bologna. Ma nonostante ciò il Sillaro  rimane l’unico ed  il vero confine della Romagna.  Nel corso di questa ricerca abbiamo ricordato  varie tipologie di confini: naturale, storico, geografico, politico, antropologico, etnico, culturale;  è doveroso menzionare almeno quello linguistico, e, almeno di passata, segnalare quello costituito dalla densità degli insediamenti umani, un confine poco noto ma non per questo meno importante perché sicuro retaggio di antiche vicende che hanno  lasciato un segno lungo il corso del Sillaro (46). Concludendo: sarebbe interessante conoscere le ragioni per cui un così piccolo corso d’acqua, quasi un fosso, ha  per quasi 3000 anni segnato il confine di queste due aree. Questo interessante argomento è oggetto di ulteriori approfondimenti nel libro che sto scrivendo dal titolo La Romagna e i Romagnoli.

NOTE (1) Cfr. L. Gambi, Confini geografici e misurazione reale della regione romagnola, in “Studi Romagnoli”, 1950, pp.191-196; E. Rosetti, La Romagna, 1894;  P. Fabbri, Profilo storico dei confini della Romagna, in “La piê”,  1999, pp.33-40; G. Sgubbi, La Romagna: gente e confini, in Studi Solarolesi ed altri scritti di varia antichità, 2002, pp.5-7. (2) Progetto di legge: Romagna, identificazione della sua storica delimitazione, 2002. (3) In questa ricerca si prenderà in esame solamente  il tratto di confine segnato dal corso del Sillaro, facendo presente che in antico questo fiume confluiva nel Reno più a Sud; infatti Sesto Imolese si trovava in Romagna. (4) R. Balzani, La Romagna, 2001. L’autore ha cercato di dimostrare, con scarso successo,  l’inconsistenza della Romagna come regione. 5) G.B. Comelli, Sui confini naturali  e politici della Romagna in A.D.S.P. Romagna 1907; A. Vesi, Ragionamento intorno ai veri confini della Romagna, 1845. (6) G.B. Comelli,  op. cit., p. 6. 7) R.G. Lucchi, Le origini geologiche della Romagna, 1987 p. 1. (8) P. Zangheri Il posto della Romagna nel quadro  della biogeografia  in “Studi Romagnoli” 1950 p. 347. (9) Per la conoscenza di questo confine naturale si veda pure  A. Ruggeri, Gli ultimi capitoli  della storia geologica della Romagna in “Studi Romagnoli”, 1950, pp 303-312.


(10) G.E. Mansuelli, Formazione delle civiltà storiche nella pianura  padana orientale. Aspetti e problemi  in “Studi Etruschi”, 1965, pp. 27-28. (11) G. Bermond Montanari, Gli studi  sulla protostoria  dell’Appennino romagnolo  da L.B. Ugolini ad oggi in L’archeologo scopre la storia, “Quaderni  bertinoresi”, 1996, p. 27. (14) N. Alfieri,  Alla ricerca della  via Flaminia “minor” in “Rend. Accad..Sc. Ist. Bologna”  1975-76, pp. 51-67. (15) G. Susini,  Sulla via Flaminia  II  in A.A.V.V. Studi in  memoria di  Fulvio Grosso, 1981, p. 603.  (16) M. Bollini, Semirutarum Urbium Cadavera in “Rivista  Storica  dell’Antichità”, 1971, p. 163. Esiste una testimonianza  riguardante  la possibilità che sia Faenza che Imola facessero parte della giurisdizione milanese, ma non è da tutti  accettata. (17) Zozimo, Historia Romana  V  36. (18) Notitia Dignitatum  Occidentis  XLII  61.. (19) A. Benati, La provincia delle Alpi Appennine, un faticoso problema storiografico, in A.D.S.P. Romagna, 1978-1979, p.119. (20) P.M. Conti, L’Italia Bizantina nella “descriptio  Orbis Romani” di Giorgio Ciprio in “Mem. Accad. Lunigianesi di Scienze G. Cappellini”, 1970, pp 1-17. (La consulenza per i testi latini e greci è della  prof. Edi Minguzzi, n.d.A). (21) C. Diehl, Etudes  sur l’administration  Bizantine  dans l’ésarcat  de Ravenne, 1886, p. 54. (22) Liber Pontificalis  ed.  Duchesne,  I p. 498. (23) Paolo Diacono, Hist. Lang. VI 49, ed. Waitz. (24) Paolo Diacono, Hist  Lang. VI 54. (25) Agnello,  Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis ediz. Holder–Hegger; Vita  dell’arcivescovo Sergio,  p. 380. (26) A. Gaudenzi, Il monastero di Nonantola, il ducato di Persiceto e la chiesa di Bologna in “Bullettino dell’istituto storico italiano”, 1901, p. 19. (27) A. Benati,  I confini altomedioevali fra Imola e Bologna  in “Studi  Romagnoli”,  1975, p. 52. (28) A. Simonini, Autocefalia ed Esarcato  in Italia, 1969, p. 144. (29) O. Bertolini, Sergio arcivescovo di  Ravenna ed i Papi  del suo tempo in “Studi Romagnoli”, 1950, p. 54.  (30) G. Fasoli, Alla  ricerca di un toponimo in A.A.V.V. Monte Battaglia, Giornata di studi  21 luglio 1973, p.1 ss.; G. Sgubbi, Alla ricerca del toponimo Quinto dove nel 536 fu ucciso il re dei Goti Teodato in “Bollettino Camera di Commercio Ravenna”,  luglio-settembre 2002. Circa l’epoca in cui si sarebbe svolta la battaglia a cui allude il toponimo, la Fasoli propone il combattimento del 542, che ebbe come  protagonista il goto Totila. Da parte mia invece avevo ipotizzato una battaglia avvenuta nel 536 nel corso della quale sarebbe stato decimato l’esercito di Teodato; a questo punto mi pare che si possa aggiungere  anche una possibile battaglia fra Longobardi e Bizantini. (31) Vi sono buone ragioni per ritenere che il percorso via Longa–crinale Senio–Santerno  corrisponda al tragitto terrestre  ricordato nel Periplo dello Pseudo Scilace. Cfr. G. .Sgubbi, Solarolo dalla  più remota antichità all’anno mille, 1992, pp. 21 ss.; G. Sgubbi,  Alla ricerca  del tesoro di Spina nel santuario greco di Delfi, 2001, pp. 11-13; G. Sgubbi, Studi Solarolesi ed altri scritti di varia antichità, 2002, pp. 3-5. (32) G. Pasquali, Dal “magnum  forestum” di Liutprando ai pievati  del  duecento. Ricerche e studi, 1993. (33) V. Fumagalli, I luoghi della agricoltura in A.A.V.V. Le sedi della cultura in Emilia Romagna, “Altomedioevo”  1983,  p. 106. (34) A Palmieri, Un probabile confine  dell’esarcato di Ravenna nell’appennino Bolognese in  A.D.S.P. Romagna 1913 p. 38-59. (35) A. Vicinelli, L’inizio del dominio pontificio in Bologna   in  A.D.S.P. Romagna, 1920-1921,


p. 23. (36) ibid., p. 348 (37) ibid., p. 65. (38) ibid., p. 224. (39) N. Graziani,  La Romagna  regione storica d’Italia, 2002,  p. 8. (40) G.B. Comelli,  op. cit., p. 11 (41) ibid., p. 12. (42) ibid., p. 14. (43) A. Benati,  I confini altomedioevali fra Imola e Bologna  “Studi Romagnoli”, 1975, pp. 3563. (44) G.F.  Cortini, La diocesi  d’Imola in ” Forum Corneli “, 1931, pp. 2-9. (45) G. .Magnani, Sesto Imolese tra cronaca e storia, 1994, p. 7. (46)  P. Fabbri, Profilo storico dei confini della Romagna in “La Piè”, 1999, pp. 33-40.




Dall’Anatolia all’Etruria e da Spina a Pisa


Un gruppo di studiosi toscani guidati dal professore Gianfranco Bracci hanno fatto le dovute ricerche nell’ intento di individuare  il percorso di due antichissimi  tragitti, uno marino (dall’Anatolia all’Etruria) e   l’altro terrestre ( da Spina a Pisa). Grazie ad un qualificato e giusto  riscontro giornalistico, il  frutto delle loro scoperte è stato fatto conoscere anche al grande pubblico. Vediamo questi tragitti.  Tragitto marino: VIA DEL FERRO, DALL’ANATOLIA ALL’ETRURIA. Si tratta di un tragitto   datato  al 12° secolo a.C, che  sarebbe stato usato  per la . prima volta dagli etruschi nell’intento di emigrare verso occidente, alla ricerca di metalli. Il percorso sarebbe: partenza dalla città turca di Badrum, poi con una navigazione di piccolo cabotaggio,  coste greche, pugliesi, calabre siciliane, sarde,  corsiche,  approdo in Toscana nei pressi di Pisa. Tragitto terrestre: STRADA ETRUSCA DEI DUE MARI. Si tratta di un tragitto  datato al 4° secolo a.C, ricordato  nel Periplo del Mediterraneo del portolano greco Scilace di Carianda, questi, nel corso  della descrizione delle spiagge romagnole, in via del tutto eccezionale,cita una direttrice terrestre che da Spina in Adriatico raggiungeva Pisa nel Tirreno. Si tratta  della strada extraurbana più antica dell’Europa. Per gli studiosi toscani il tragitto sarebbe: Pisa,  Poggio Castiglioni, , Monterenzio, Marzabotto, Bologna, Campotto , Spina. Come si può vedere,  si tratta di due tragitti, ma essendo  collegati, formavano  una unica  direttrice, che dalla Turchia arrivava in  Romagna. I temi trattati sono affascinanti ed interessantissimi, infatti sollevano problemi storici non ancora definitivamente irrisolti: migrazione dei popoli, compresa la provenienza degli etruschi, antiche vie dei commerci, ecc. Considerato che da tempo mi interesso  di questi temi, al riguardo ho gia dato alle stampe diversi lavori, Circe  Ulisse ed Enea in Adriatico?,  Alla ricerca del tesoro di Spina nel santuario greco di Delfi,  Il tragitto terrestre segnalato nel periplo dello Ps Scilace,  Evoluzione ed aspettative riguardanti l’abitato preistorico di via Ordiere,   intendo portare un mio modesto contributo.  Premetto anzitutto che le mie ipotesi divergono molto da quelle formulate dagli studiosi toscani, divergenze scaturite da una diversa questione di fondo: per i toscani i primi popoli  arrivati  in Italia sarebbero arrivati  grazie ad una rotta “ tirrenica”, a mio modesto parere invece sarebbero arrivati  grazie ad una rotta “adriatica”. Conseguentemente . pur accettando  la partenza dalla Anatolia,  il punto terminale sarebbe Pisa e non Spina, cioè Anatolia,  Spina , Pisa, e non Anatolia, Pisa, Spina. La differenza, in apparenza formale è invece sostanziale, le motivazioni si potranno trovare nella apposita APPENDICE. Da questa diversa questione di fondo , scaturiscono  visioni storiche che  possono mettere in  discussione conoscenze della storia italiana credute inconfutabili. Venendo al tema:  considerando  Spina tappa intermedia, perciò punto di partenza per la via dei due mari, il tragitto designato dagli studiosi toscani . almeno per quanto riguarda  il tratto dai piedi degli Appennini a Spina, deve essere a mio parere rivisto, ed è proprio quello che mi accingo a fare, anzi mi limito a toccare solo questo punto,  tutte le altre problematiche saranno trattate in un mio prossimo lavoro che ben presto darò alle stampe dal titolo: Antichissime vicende  ambientate in Alto Adriatico ed in Romagna, estratte dalle più antiche storie del mondo. Vediamo cosa è scritto nel periplo: Gli etruschi con la città greca di Spina, distante 20 stadi dal mare, lungo il fiume Eridano e distante  3 giorni  di cammino  da una città etrusca  sul Tirreno.  


Tutti gli studiosi concordano,  pur trattandosi  di un passo più volte interpolato e perciò  di non facile interpretazione, che il portolano ha inteso descrivere l’effettiva  esistenza in loco di una importante direttrice che collegava i due mari. I pareri degli studiosi che si sono  interessati di questo tragitto non concordano  al riguardo della individuazione del possibile antico percorso: per alcuni il tracciato poteva essere Spina, Ravenna, Faenza, Valle del Lamone, Firenze , Pisa. Per altri invece Spina, Bologna, Valle del Reno, Pisa. Già detto ciò che propongono gli studiosi toscani, purtroppo non viene specificato  dove sarebbe stata esattamente ubicata  la strada che da Spina conduceva a Bologna,  hanno lasciato intendere che poteva trattarsi  anche di un  non ben specificato tragitto fluviale.  A mio parere invece,  per una serie di motivi che illustrerò, il tragitto da Spina fino  ai piedi degli Appennini doveva  corrispondere  all’attuale tracciato della via Lunga, una strada  ben visibile e   per molti tratti ancora percorribile,  che dai pressi di Spina ,  attraversando il territorio di alcuni comuni, Lugo, Bagnara Solarolo e Castel Bolognese, arriva alla via Emilia in corrispondenza della valle del Senio. Vediamo la ragione per cui mi sembrano poco credibili i tragitti proposti dagli altri studiosi; tragitto Spina Ravenna Faenza, a quei tempi, stiamo parlando del IV secolo a.C, nel tratto Spina-Ravenna  sfociavano vari fiumi romagnoli,  perciò ben difficilmente in quel tratto poteva esserci una strada ben praticabile, basti pensare  che ancora all’epoca dell’itinerario Antonini , almeno quattro secoli  dopo al periodo  che stiamo trattando, un tratto di quel tragitto si faceva solo in barca. Tragitto Spina Bologna;  altrettanto impraticabile cotesto tragitto via terra, in quanto, anche in questo caso, occorreva attraversare alcuni fiumi  e vastissime paludi, perciò, escludendo un tragitto fluviale, (nel periplo  è  chiaro che si intende  una strada),  anche tale proposta appare  insostenibile. Non ha caso,  nonostante assidue ricerche, di  questa fantomatica  strada  non è  stata trovata  nessuna traccia, se veramente fosse esistita, qualcosa si dovrebbe trovare,  non può essere scomparsa dal tutto. A mio parere non sarà mai trovata in quanto non è mai esistita! Vediamo invece il tragitto Spina –via Emilia, cioè  l’attuale  tracciato  della via Lunga; ove attualmente è tracciata tale via vi è da tempi antichissimi una lingua di terra molto alta, (non ha caso il Santerno  fu costretto a deviare   a destra verso il Senio, ed il Sillaro  non riuscì mai a superare),  ebbene tale alta  fascia di terreno, esente da alluvioni e sopraelevata rispetto alle paludi, un vero unicum per queste zone, ben presto si prestò ad essere abitata da popolazioni preistoriche, come gli scavi di via Ordiere stanno autorevolmente dimostrando, e ben presto si prestò ad essere usata  anche come via di comunicazione terrestre. A quei tempi, questa  era  l’unica possibilità per arrivare via terra, fino ai piedi delle colline, poi per attraversare gli Appennini  si poteva fare scelte diverse; se si voleva andare nel Lazio,  la più comoda era sicuramente la valle del Savio, se invece ,  come nel nostro caso, si voleva andare  verso Pisa, vi era solo l’imbarazzo della scelta, valle Senio, valle Santerno, valle Sillaro. Le ragioni che ho portato per ipotizzare la via Lunga come unica possibile direttrice per quei lontani tempi, e le ragioni che ho portato e che  porterò per escludere altri  possibili   tragitti  terrestri, mi sembrano validi, ma trovano una probante conferma da una  determinante constatazione: i sassi di Spina provengono dalle colline romagnole, se vi fosse stata una direttrice ben praticabile Spina-Bologna,   i sassi sarebbero  derivati dalle colline bolognesi.  Riassumendo: da antiche fonti greche, (Dionigi di Alicarnasso ed Ellanico di Lesbo), si apprende in  maniera inequivocabile che Spina  da tempi antichissimi, almeno dal 1500 a,C , era  un importantissimo scalo usato da    genti  Medio Orientali  intenzionati ad andare  in Toscana o nel Lazio. Questi, dopo aver  risalito l’Adriatico, ed arrivati,  grazie a questo comodo e breve tragitto terrestre, ai piedi degli Appennini, potevano a loro piacimento  usare una delle numerose vallate romagnole che, come i numerosi reperti archeologici dimostrano,  risultano  essere state tutte  da tempi antichissimi continuamente praticate. Naturalmente


pure ogni vallata toscana permetteva l’attraversamento in senso inverso, ma dalla via Emilia a Spina vi era un solo tragitto terrestre praticabile, il  tracciato attuale della via Lunga.   Niente impedisce di credere  che in antico vi fossero varie direttrici fluviali Bologna- Spina,  ma fra queste non può esserci quella segnalata dallo Ps Scilace.


APPENDICE:     INTENDO APPROFONDIRE UN PUNTO CHE, A MIO PARERE, GLI STUDIOSI CHE DA TEMPO SI INTERESSANO DEL PERIPLO DEL MEDITERRANEO, NON HANNO TENUTO  NELLA DOVUTA CONSIDERAZIONE. Come è noto, la descrizione  delle coste  corrisponde più o meno ad “avvisi ai naviganti”: possibili approdi, distanze fra gli stessi, popolazioni rivierasche ed altre notizie non solo utili,  ma a volte indispensabili per chi si appresta alla navigazione di un mare. Questo è proprio quello che si trova nel Periplo del Mediterraneo  ed in qualsiasi altro Periplo.  Scilace di Carianda o chi per lui, era sicuramente  a conoscenza che alcune generazioni prima della guerra di Troia, popolazioni orientali, sotto la generica voce “Pelasgi”, orientati ad andare  nei territori centro italici bagnati dal Tirreno, avevano scelto la rotta “adriatica”,  perciò,  ritenne giustamente opportuno descrive il luogo dell’approdo più comodo per raggiungere   la meta. Il portolano conosceva sicuramente i possibili tragitti fluviali che portavano verso la terra dei Tirreni, ma non ritenne opportuno segnalarli in quanto sapeva che tali tragitti non erano sicuri, infatti  potevano variare al seguito di un peggioramento climatico,  non solo,  tali tragitti potevano essere facilmente usati dagli abitanti del posto, ma non da persone  provenienti da altre aree, troppo grande era il rischio di trovarsi  “impantanati” nelle  vastissime paludi, perciò giustamente decise di segnalare l’unico,  sicuro e da tempo battuto tragitto terrestre, quello  appunto che da Spina  permetteva facilmente di raggiungere  le città tirreniche. Gli studiosi non sono entrati in tale “ottica”e conseguentemente hanno grandi dubbi sulla effettiva importanza  che il  tragitto attualmente segnato dalla via Lunga, ha  avuto  nei tempi antichi. 


 






Evoluzione ed aspettative riguardanti l’abitato preistorico scoperto nel territorio solarolese


In un periodo risalente almeno a 4 o 5 mila anni fa, popolazioni di non sicura provenienza fondarono un abitato nell’attuale territorio solarolese; si tratta del villaggio preistorico detto di via Ordiere, uno dei più grandi  abitati preistorici dell’alta Italia L’abitato si trova sopra un deposito alluvionale portato in loco  da un corso d’acqua che fino ad alcune decine di migliaia di anni fa raccoglieva le  acque sia della vallata del Santerno che quelle della vallata del Senio. Si tratta di  una striscia di terreno  stabilmente alta che essendo per questo esente da alluvioni, ben si prestava  ad essere abitata. Tale striscia, di larghezza variabile, parte dalla via Emilia ,   e arriva nella bassa lughese. Questo  aggregato, molto esteso ,si trovava a  non meno di una quindicina di km  dal mare,  in  una antichissima direttrice di traffico  che,  passando per  la valle del Senio, metteva in comunicazione  il mare Adriatico con  il mare Tirreno. Molto probabilmente si tratta della direttrice ricordata  nel periplo dello Ps Scilace,   risalente al IV secolo a.C. che  con un viaggio di tre giorni da Spina  arrivava a Pisa .  Tale direttrice  corrisponde  alla attuale via Lunga.  Questo abitato si trovava pure in prossimità di un corso d’acqua, probabilmente formato dal corso del Santerno  del Rasena , dai Romani detto  Vatreno e dai Greci Spinete.  Tipologicamente il villagio sembra inquadrabile fra le così dette “terramare” ma la mancanza di alcune caratteristiche , che in genere  evidenziano  questo genere di aggregazioni, mettono in discussione tale    tipologia: la  disposizione non ha nessuna forma geometrica ,(infatti si espande irregolarmente verso varie direzioni),   il terreno interessato non è emergente sopra  il territorio circostante,(il breve tratto di terrapieno  fu probabilmente costruito come argine  difensivo per frenare le acque del fiume),   non risulta che sia mai stato una cava di marna;  tutto il territorio circostante è disseminato da numerosi abitati preistorici, alcuni distanti anche poche centinaia di metri, segno evidente di una totale mancanza di pianificazione, e, molto interessante non risulta che verso il XII secolo a.C l’insediamento  sia stato interessato da un abbandono abitativo, durato  un paio di secoli, riscontrato  invece nelle altre terramare padane. Si tratta  riguardo a quest’ultimo,  di un enigmatico abbandono  insediativo, un vero rompicapo per gli studiosi; non si sa infatti  quali siano gli eventi che lo avrebbero provocato. Tale  abbandono non  è facilmente spiegabile, anche perché le aree preistoriche venete, dello stesso periodo,  non sembra siano state  interessate dal fenomeno. Le causa  dovrebbe  essere  stata “climatica”.  Mi  pare che   si debba   escludere quella di   una persistente siccità, con conseguente messa in discussione di qualsiasi pratica agricola, in quanto, se quella fosse stata la causa,  il fenomeno avrebbe sicuramente interessato anche le zone dell’oltre Po veneto.  Più  probabile  perciò che   l’abbandono  sia stato provocato da un lungo periodo piovoso, con conseguente  impaludamento, che ha impedito non solo  una qualsiasi pratica agricola ma ha creato anche grossi  problemi di transitabilità stradale.  Se così stanno le cose, si spiegherebbe l’abbandono per un lungo tempo  delle terremare padane, come pure si comprenderebbe il non necessario abbandono  abitativo della nostra area preistorica , dal momento che , come detto, questo  abitato si trovava in una fascia di terreno eccezionalmente alta, esente da alluvioni.    Naturalmente  solo i risultati degli scavi potranno dare  al riguardo  risposte definitive. L’orientamento Nord –Sud  delle numerose capanne  facilmente individuabili, fa pensare che i fondatori di tale abitato conoscessero  molto bene il vantaggio dell’orientamento  solare; la  leggerissima deviazione a levante  di alcuni gradi, fu   resa probabilmente necessaria per seguire  la pendenza del terreno.


Oltre che alla centuriazione romana, il loro orientamento corrisponde esattamente a quello della via Lunga, una via che a sua volta  partiva a perfetto angolo retto dalla via Emilia. Si tratta di  aspetti non casuali che meriterebbero di essere approfonditi.  Un  abitato  tanto grande, attraversato da una importante  direttrice terrestre e  con un breve  percorso fluviale,  facilmente collegabile alle rotte marittime,  non poteva non essere stato in rapporti anche con popolazioni lontanissime. In attesa che i dati dello scavo facciano luce su questi rapporti, mi sembra opportuno “rispolverare” alcune antichissime  cronache ,  che  ricordano antichi rapporti fra le nostre zone  ed alcune antiche popolazioni. Si tratta di  resoconti di viaggi e  di migrazioni, alcuni dei quali non tenuti nella giusta considerazione in quanto ritenuti  solamente frutto della fantasia  degli autori greci. Vediamo gli antefatti: verso il XII secolo A.C. tutto il Mediterraneo fu teatro di grandiosi sconvolgimenti :  avvenimenti  ricordati nelle Bibbia,  avvenimenti ricordati  nella Iliade e nella Odissea, (in particolare la caduta di Troia),   invasioni dei così detti “Popoli del Mare,” ricordati in alcune  stele egiziane,  crollo di alcuni imperi fra cui quello Ittita ed il  Miceneo,ecc. Tutti questi sconvolgimenti crearono delle migrazioni che a loro  volta crearono altre migrazione; alcune delle quali interessarono anche   l’alto Adriatico. Molti sono gli autori  della antica Grecia , che direttamente o indirettamente ricordano l’alto Adriatico: Esiodo, Erodoto, Tucidide, Licofrone,  Ellanico di Mitilene, Eumelo di Corinto, Artemidoro di Efeso, Callimaco. Molti sono i popoli che risultano  approdati nelle nostre coste: Pelasgi, Lelegi,  Tirreni, Tessali; a questi vanno aggiunti i leggendari Iperborei . Moltissimi i miti Greci ambientati  anche in Adriatico: Fetonte, le isole  Elettridi, tre fatiche di Ercole, (mandrie di Gerione, cerva Cerinea, e Pomi delle Esperidi), due saghe Argonautiche (quella di Apollonio Rodio e  quella tramandataci da Eumelo di Corinto, la cosi detta Leggenda Minia), la maga Circe, Dedalo ed Icaro, Cadmo ed Armonia, Gerione, Castore e Polluce. Alcuni eroi:   Antenore, Diomede, Odisseo,   Enea,  ed  alcune divinità: Artemide e Tiberino.  Molte le città che sarebbero state fondate da questi popoli oppure da questi eroi:  fra queste, Padova da Antenore, Ravenna dai Tessali, Spina da Diomede. Faenza dagli Attici, pure Imola sarebbe stata fondata da  un eroe fuggito da Troia. Sarebbe troppo lungo elencare tutti  gli avvenimenti che hanno avuto per protagonisti questi popoli, questi eroi e queste divinità nell’arco Adriatico, perciò vediamo di passare   in rassegna solo i miti e le cronache  che possono avere direttamente  interessato  il nostro abitato preistorico.

ISOLE ELETTRIDI

Queste isole leggendarie, che si sarebbero trovate alla foce del Po e che  sono ricordate da tantissimi autori greci, erano  il punto terminale dell’ambra , una resina all’epoca ricercatissima ,  proveniente dal mar Baltico. Considerato che l’ambra è stata trovata in quasi tutti gli abitati preistorici, sicuramente sarà trovata anche  nel nostro insediamento. La prima tappa degli Iperborei, leggendaria popolazione residente nell’Europa centrale, era in una delle  isole Elettride, ebbene la città di Pisa,  punto terminale della direttrice  Spinete – valle Senio –Tirreno, sarebbe stata fondata da Piso ,  re degli Iperporei. Codeste isole erano sacre alla dea Artemide, una dea corrispondente  alle romane  Diana e Feronia . Ebbene due santuari dedicati a Diana  si trovavano nel lughese:  uno di questi era  nei pressi della via Lunga, quello di Feronia si trovava a Bagnacavallo. A proposito di Bagnacavallo, vuole una antica tradizione che questa cittadina sia stata costruita sopra una delle isole Elettridi. Considerato che su queste  isole sarebbero approdati i protagonisti della Saga Argonautica, cioè la spedizione partita alla conquista  del “vello


d’oro”, stranamente  nello  stemma di questo  comune appare un cavallo bianco con scritto Cillaro, (cavallo più volte ricordato dallo storico greco Stersicoro) appartenente a   Polluce, uno dei Dioscuri, cioè la coppia di fratelli che risultano fra i partecipanti della già ricordata  saga degli Argonauti.

ENEA

Come è noto questo eroe  sarebbe fuggito da Troia dopo la distruzione della  città. Tutti gli studiosi concordano che questi avrebbe   fondato la città  di Lavinio, da cui poi avrebbe avuto origine  Roma. Divergenze si riscontrano invece  riguardo alla strada che questi intraprese per raggiungere  il Lazio. Quasi tutti gli studiosi ritengono che Enea raggiunse questa regione con una rotta tirrenica e una breve risalita del Tevere; non mancano comunque tradizioni che indicano  invece un  diverso tragitto  marittimo  (risalita dell’Adriatico) e conseguente diverso tragitto terrestre. Approfondiamo questa ultima e non impossibile  direttrice.   Una antica tradizione vuole che Enea per arrivare nel Lazio da Troia avrebbe percorso  a ritroso la strada che   il suo avo Dardano aveva fatto per arrivare da Cortona   alla Troade. Ebbene, se questa antica tradizione contiene un barlume di verità,( tradizione riportata anche nella Eneide Virgiliana), significa che Enea avrebbe fatto il tragitto  fiume Spinete , Cortona,  Lazio , conseguentemente sarebbe passato  dal nostro territorio.  Anche un passo di Licofrone potrebbe  mettere in discussione  il tragitto “tirrenico” tenuto da Enea, infatti si legge che  l’eroe prima di arrivare  nel Lazio  si trovava  nei pressi di Pisa, un passaggio inspiegabile  per chi da Troia dovesse andare,  via tirrenica, nel Lazio. Spiegabile invece per chi avesse  invece usato  il tragitto Adriatico, Spinete , valle Arno, Lazio. Qualcuno potrebbe giustamente chiedere la ragione per cui Enea, intenzionato a raggiungere  il Lazio, col tragitto Adriatico- Cortona, avesse dovuto per forza approdare  e   risalire il fiume Spinete: ebbene la risposta si  ricava da un passo di  Ellanico di Mitilene, questi parlando dei Pelasgi  dice:… i Pelasgi scacciati dal loro paese, la Grecia, arrivati al fiume Spinete lasciarono le navi, proseguirono il viaggio via terra e arrivati a Cortona l’occuparono poi proseguirono verso la Tirrenia … questo significa che anche  la direttrice Spinete-valle del Savio- Cortona, Lazio, era  nella antichità molto praticata.  A parere  di molti studiosi, il culto del dio Tiberino, dio delle acque, sarebbe stato portato in Italia da Enea,  non a caso il Tevere si chiamava Tiberiacum  e pure Tiberiacum si chiamava in antico il Senio. Semplice coincidenza? E allora come spiegare  che il nome ancor più antico del Tevere era Spino, cioè come il nome antico del fiume che attraversava il nostro abitato preistorico? Sappiamo dallo storico romano Plinio il Vecchio  che lo Spinete era un fiume proveniente dall’Imolese, il Vatreno, un fiume formato dal Santerno, dal Rasena e dal Senio. Oltre a quelle già elencate non mancano nelle nostre zone altre tracce di presenze di antichissime  popolazioni.  Da molte cronache antiche risulta che vi  era una città  chiamata Spina, fondata  all’epoca della guerra di Troia dai Pelasgi: Questa Spina non può assolutamente  corrispondere alla Spina etrusca scoperta nei pressi di Comacchio,  risalente al V secolo a.C, ma corrisponde  ad una città  più antica di almeno sette secoli, città ricordata da molti scrittori antichi; Strabone, Dionisio di Alicarnasso, Plinio, Polemone, Ellanico di Mitilene, Stefano Bizantino, Artemidoro di Efeso, città che   aveva eretto un “tesoro” nel santuario greco di Delfi. Si tratta quest’ultimo di un abitato   che se si vuole scoprirlo occorre cercarlo lungo  la già ricordata antica direttrice, cioè la via Lunga. Vi sono buone ragioni per credere che questa direttrice, dallo Spinete al Tirreno, sia stata usata dai Micenei antica popolazione greca. Tracce del loro passaggio  sono già state rinvenute lungo la valle del Senio, nei pressi di Monte Battaglia   e nel versante toscano.  Sicuramente le tracce “micenee” saranno trovate anche nel Solarolese.


Riassumendo: l’importanza di questo abitato preistorico è in particolare dovuto al fatto che si trovava in una delle più importanti direttrici  di traffico della antichità; infatti   le popolazioni  che dal  centro Europa  intendevano andare nella Italia centrale, dovevano obbligatoriamente usare le due direttrici  Spinete-valle del Senio oppure Spinete valle del Savio, perciò  dovevano passare dal nostro abitato preistorico. Altrettanto dicasi per le popolazioni che per tale scopo usavano la  rotta Adriatica Gli scavi intrapresi faranno molta “luce” al riguardo di queste antichissime migrazioni: Vi sono buone ragioni per credere che, a scavi conclusi, la preistoria e la protostoria romagnola ( e non solo romagnola) sarà in parte da riscrivere. Gli scavi “diranno” molte cose ma un “enigma” che riguarda il nostro abitato preistorico difficilmente sarà svelato :   la inspiegabile ragione per cui nell’area dell’abitato non sono state nel medioevo costruite le cittadine di Bagnara oppure di Solarolo. Bagnara vecchia si trova a meno di due Km, l’attuale Bagnara a poco più di due Km, Solarolo a circa 3 Km. Cosa avrà impedito che una di queste cittadine fosse costruita in loco?. Con tutte le riserve del caso,  formulo al riguardo due ipotesi: prima ipotesi (la più probabile), all’epoca della fondazione di Bagnara e di Solarolo, l’area preistorica non era più attraversata da un corso d’acqua.  Dove fu  fondato Solarolo  passava il Santerno, e dove fu fondata Bagnara vecchia passava il Rasena. Tutte le città medioevali sono state fondate in prossimità di un corso d’acqua. Seconda ipotesi (poco credibile): già in epoca romana detta area era considerata “terra di nessuno” cioè non apparteneva né all’ager Faentino, il cui territorio arrivava solo alla attuale via Lunga, né  all’ager Imolese, il cui territorio arrivava solo alla attuale via Pilastrino. Se, come è probabile, tali confini, oltre che costituire i  civili , hanno  nel medioevo continuato a fissare  anche quelli  ecclesiastici, le popolazioni che ad un certo punto ritennero necessario fondare qualche abitato, si resero immediatamente conto che un  centro nato  in tale  territorio non avrebbe potuto far  parte di nessuna  giurisdizione né  civile nè ecclesiastica, perciò  ritennero giustamente opportuno costruire detti centri abitati in altri territori. Mi rendo perfettamente conto della “debolezza” di questa ultima ipotesi, ma considerato che al riguardo si brancola  nel “buio”, tutto può servire per fare un po’ di “luce”.

PER SAPERNE DI PIU’

I temi qui sommariamente trattati sono solo una piccola parte di quelli scaturiti in oltre vent’anni di mie ricerche al riguardo della protostoria   solarolese, infatti  questi  temi, con maggiori approfondimenti, li ho più volte  trattati in vari saggi: Circe Ulisse ed Enea in Adriatico?;  Alla ricerca del tesoro di Spina nel santuario greco di Delfi;   Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica ;  La  via Lunga ed il Periplo dello Ps Scilace;  Il Senio l’antico Tiberiacum?;  Si tratta di saggi facilmente  consultabili in varie biblioteche della Emilia-Romagna.

  


Nota del 10.10.2010.    Questo articolo  è stato scritto nel 2006,  molto del suo contenuto ha trovato conferma  nei recentissimi scavi. 









Il quintario: una importantissima strada della centuriazione romana


In ordine di larghezza queste sono le strade   tracciate dagli agrimensori romani: 1° Decumano Massimo  metri  12 ; 2° Cardine Massimo metri 6 ;  3° Quintario metri 3,50 ; 4°  “strade  centuriali”  metri 2,30  Queste strade, eccetto il Quintario, sono state ampiamente descritte e commentate dagli studiosi di agrimensura,  mentre invece il Quintario, da quello che mi risulta,  è ancora quasi un “oggetto misterioso”,   infatti dalla stragrande maggioranza di loro non è citato, e  quei pochi che l’hanno citato lo hanno fatto  solo per confermarne l’esistenza. Più volte, ma senza grandi approfondimenti ho segnalato la  grande utilità del rintracciamento dei quintari, con questo articolo intendo spiegare bene il mio punto di vista.   Anzitutto una indispensabile premessa: quello   che dirò  corrisponde esattamente alla situazione della parte occidentale della centuriazione faentina (Faenza), ovviamente,   per trarne  delle conclusioni definitive,  occorre fare il confronto con altre zone centuriate. Per meglio capirci,  inizierò facendo presente alcune cose che tutti sanno. Quando gli agrimensori romani decidevano di centuriare un nuovo Ager,   per prima cosa  sceglievano dove fondare il forum, fatta la scelta, possibilmente  in zona centrale e quasi sempre in prossimità di un corso d’acqua,    tracciavano due strade  a croce, un Decumano Massimo,  ed un Cardine Massimo, e con queste strade,   verso i quattro punti cardinali,  continuavano fin  dove intendevano segnare il confine dell’Ager, oppure  fino a quando il terreno lo permetteva. Fatto questo, ogni 20 actus,  circa 705 metri,  tracciavano, parallelamente ai Decumani ed ai Cardini, altre strade, le così dette “centuriali”. Conseguentemente a questa pratica  venivano a formarsi dei quadrati, le così  dette centurie, in questo caso  20x20 actus,  cioè circa 50 ettari di superficie.   Per ragioni non sempre conosciute, a volte le misurazioni in actus erano diverse;  21x20, 24x20 ecc, in tal caso  non ne uscivano dei quadrati,  ma dei rettangoli, ma per il tema qui trattato la situazione non cambia. A questo punto entra in “scena” il problema Quintari. Ogni 5  strade,  sia nel verso dei Decumani che nel verso dei Cardini, veniva tracciata una strada leggermente più larga detta appunto Quintario. Per quale ragione questa quinta strada rivestiva una grande importanza?  Quintari dovevano essere  sia il Decumano che il Cardine massimo,  lungo i Quintari dovevano essere eretti i vici, i pagi ed i santuari,  il confine dell’ager doveva essere segnato da un quintario. Questi primi dati ci dicono quanto sia importante rintracciare  i quintari,    rintracciarli correttamente  significa dare un grosso contributo non solo ai problemi di confine,  ma in particolare  favorire la ricerca di molti agglomerati dell’epoca.  L’utilità non  riguarda solo il periodo  romano, riguarda anche il periodo  medioevale ed altomedioevale, infatti lungo i quintari, e solo lungo tale vie, sono stati successivamente erette le pieve, le parrocchie ed i castelli, non solo, molti confini attuali di comune sono ancora segnati dai quintari. Si potrebbe affermare, e non sarebbe una esagerazione, che i quintari  sono più importanti dei Decumani e dei Cardini Massimi. Fatta presente l’importanza, occorre pure far presente  con che “regola” o con che “schema” questi Quintari venivano tracciati,  in caso contrario difficilmente possono essere rintracciati.  Purtroppo,     per tracciare i Quintari venivano usati due “schemi”,  uno per comodità detto “secondo Frontino” e l’altro detto “secondo Igino Gromatico”. Prima di analizzarli occorre fare  una importante  precisazione:  nei catasti romani  i Cardini ed i Decumani Massimi erano indicati solo con le loro iniziali,  CM e DM, e non numerati.         Le strade dette


“centuriali” venivano  indicate   con la dicitura cardini oppure decumani e progressivamente numerati, primo, secondo, terzo, ecc.      I  quintari venivano numerati progressivamente e citati col loro nome,  primo quintario,  secondo quintario, ecc.       Naturalmente, al riguardo di queste ultime strade,  per distinguerle dalle altre consimili,  veniva pure aggiunto  la parola “sinistro”,  se sulla sinistra del  cardine o decumano massimo,  oppure “destro” se si trovava  sulla destra. Schema secondo Igino  Gromatico: giustamente, come abbiamo detto,  il cardine oppure il decumano massimo non doveva essere indicato con un numero, perciò,  escludendo queste ultime e dovendo la numerazione interessare solo le altre strade,  diventavano giustamente  quintari, la numero 5, la 10, la 15 ecc.   Al seguito di questo “schema” si formavano dei quadrati,  detti Saltus, di 25 centurie. Schema secondo Frontino: purtroppo non sempre veniva usato il corretto schema prima indicato, qualche volta si commetteva l’errore di iniziare la numerazione delle strade  includendo, oltre al  cardine o decumano massimo,  anche i quintari,  al seguito di questo errore finivano per  venire considerati quintari la   numero 5, la numero 9, la numero 13 ecc. Al seguito di questo errore  venivano formati dei “saltus” di  16 centurie. Nella centuriazione faentina è stato usato l’erroneo schema detto “secondo Frontino”. Il  Legnazzi, (1885- 1886),  nell’intento di elaborare  la centuriazione  fra  Imola e Faenza, ignorando l’errore commesso dagli agrimensori  in questa zona,  sbagliò completamente la sistemazione dei quintari, infatti non considerò quintario il cardine massimo faentino ed il cardine massimo  imolese. Al seguito di queste note appare evidente che per la utilissima ricerca dei quintari,  occorre tener conto  dei possibili errori commessi.   


 

   



Leggendo il catasto faventino

Difficilmente sarà trovato il catasto della centuriazione Faentina, ma considerata l’attuale  situazione, fotocopia di lontani tempi,  se venisse trovato,  più o meno troveremo   citate      alcune di queste  presumibile notizie.      Prendendo in considerazione solamente  il lato occidentale di questo Ager, cioè la parte che conosco abbastanza bene,  ed avendo la certezza  che in questo territorio i quintari sono stati tracciati con lo schema “secondo Frontino”,    azzardo  qualche suggestiva  ipotesi.      Dal cardine massimo faentino, il Naviglio, alla via Lunga, vi sono 13  strade centuriali di cui  4 sono quintari. Dal decumano massimo,  via Emilia , andando verso  il mare, vi sono   almeno  26  strade centuriali e 7 quintari. Vediamo, sempre immaginando  di leggere il catasto, ove sarebbero ubicati gli agglomerati  ed i santuari     All’incrocio del Cardine Massimo e del Decumano Massimo, troveremo naturalmente Faventia  con un tempio dedicato a Giove, edificio che successivamente diventerà la cattedrale di S. Pietro.    Vediamo cosa potremmo trovare nei  quintari decumani,  nel primo,  cioè la via Emilia, troveremo una mansio per cambio cavalli,  già ricordata nella Tabula Peutingeriana,  con la denominazione Simniun, nome preso dal fiume Senio. Considerato che nei pressi del ponte,  fu in epoca altomedioevale eretta la pieve di S. Procolo, quasi sicuramente troveremo citato anche  un santuario. Nel secondo quintario, troveremo un tempietto  ove era venerato il dio Termine, di possibile origine etrusca, poco  distante,  nei pressi del fiume Saternus, (Santerno), troveremo pure il vicus Quinto, ove nel 536 fu ucciso il re dei Goti Teodato.    Nel quinto   quintario,  troveremo un santuario ove successivamente è stata eretta la pieve di S. Stefano in Panicalis (Cotignola).    Nel sesto quintario, troveremo un tempio  dedicato alla  Dardanica Bona Dea (l’evirata),  ove successivamente è stata edificata la pieve  della altrettanto “evirata” S. Agata. Nel settimo quintario  troveremo  un tempio ove erano venerasti i Potiti, sacerdoti Dardanici del culto di Ercole, dopodichè è stata eretta la pieve di S. Potito.       Vediamo cosa potremo trovare nei quintari cardini. Nel primo quintario, che poi è anche il cardine massimo, troveremo un santuario ove successivamente sarà eretta la pieve di S Andrea in Panicalis, attuale S. Andrea sul Naviglio.   Secondo Quintario, un santuario ove si  venerava  Giove,  da cui la pieve di S. Pier Laguna. Nel terzo quintario,   un tempio  ove si venerava  un dio fluviale, poi  santuario della Salute, poco distante un  altro tempio pagano ove successivamente è stata eretta la pieve di S. Stefano in Barbiano.     Quarto quintario, l’antichissima via Lunga che segna il confine occidentale dell’Ager Faentino. Quì troveremo  un vico di cui è ancora  ben visibile l’elissoide, a poca distanza, sul corso dell’antico Santerno, un santuario  ove era venerato un dio fluviale, non a caso nei pressi  è stata eretta una chiesa dedicata a S.Giovanni Decollato. Dopo un paio di Km troveremo un vico,  contrassegnato anche questo da un  ben visibile ellissoide, futura Bagnara Vecchia. Ancora su questo  quintario, un altro santuario, ove poi è stata eretta la pieve di San Martino in Sablusi (Villa S. Martino).      Chissà se veramente tutto questo sarebbe  possibile trovarlo nel catasto, ho buone ragioni per essere fiducioso. Al riguardo della utilità della ricerca dei quintari: lunghissimo sarebbe l’elenco delle chiese parrocchiali e dei castelli che si trovano su dette vie. Tutte coincidenze?




I quintari: loro funzione e come rintracciarli



Non molo tempo fa, con tre articoletti,  Quintario una importantissima strada della centuriazione romana,  Leggendo il catasto Faventino, e I confini in epoca romana,   ho sollevato il problema  QUINTARIO.  Non ho fatto altro che far conoscere agli studiosi  ciò che avevo   appreso sul quintario,   al seguito di  trentennali ricerche  effettuate  sulla centuriazione ove io abito,   Solarolo  provincia  Ravenna. Naturalmente ho precisato che per poter fare delle affermazioni di un certo spessore, occorreva estendere  l’indagine anche  verso altre zone  del mondo romano.       Essendo stato invitato  a tenere conferenze in zone  extra romagnole,   ed avendo potuto  effettuare utilissimi    confronti con altre zone centuriate,    ho la possibilità  di fare alcune utili  precisazioni e di aggiungere qualcosa   a quello già detto  nei sopra citati  articoli.     Pertanto,  ciò  che riporterò in questo articolo,  sono  i risultati  delle mie ricerche, fino ad ora  conseguiti,  perciò   risultati  ancora  provvisori ,  in quanto,  a mio modesto parere,  il  “problema quintario”  , è ancora ben lontano dall’ essere definitivamente risolto.  Anticipo i risultarti  conseguiti,    che naturalmente  nel corso dell’articolo cercherò di spiegare nei minimi particolari,   al riguardo della sistemazione dei quintari, ho affermato,  senza tema di essere smentito, che in alcune aree centuriate è stato usato lo “schema Frontino”,  un quintario ogni quattro centurie,     in altre è stato invece  usato lo “schema Igino Gromatico” , un quintario ogni cinque centurie. Naturalmente non posso escludere che in “altre” aree siano stati usati altri “schemi.”      Per quanto riguarda  la numerazione delle strade, sia le centuriali che i quintari, “barcollo ancora  nel buio”, infatti  ho aggiunto “ipotesi alle ipotesi”.       La  prima cosa  che intendo  sottolineare è  la “colpevole latitanza “ degli studiosi,  al riguardo di questo importante aspetto della centuriazione.    Porto un esempio che ne descrive  l’evidente  trascuratezza,   prendiamo in mano   il bellissimo volume Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Modena,   dicembre 1983- febbraio 1984. Questo  libro contiene saggi di  qualificatissimi studiosi della centuriazione romana:  Settis,  Gabba,  Capogrossi Colognesi ,  Tozzi,  Favory,  Laveque,  Chouquer,  Carandini, Castagnetti,  Vallat,   Pagano, ed altri,  ma   fino a pagina  128  non troveremo la parola quintario,  la troveremo in alcune pagine  successive,  ove ci si limita a far  presente  che in epoca romana,   fra le altre strade,  venivano tratteggiati pure i quintari.  Decisamente troppo poco.   Di questi esempi potrei portarne a decine, infatti,  in moltissimi  articoli sulla centuriazione, tale parola non compare.    Mi rendo perfettamente conto che  per rintracciare  i  quintari si incontrano grande difficoltà:    la pratica della  centuriazione  ha durato  almeno 600 anni,    nel corso di un cosi lungo periodo tale  pratica    è stata regolata da diverse disposizioni di leggi ,  gli agrimensori   sono stati  costretti ad adattarsi ad innumerevoli e  diverse  situazioni paesaggistiche,  situazioni paesaggistiche che  nel corso dei secoli  hanno    sicuramente  subito ulteriori trasformazioni,  perciò non è possibile   rintracciarli   basandosi  solamente nei segni che queste strade  hanno lasciato sulla terra.  Si tenga anche conto  che,  al riguardo di tale pratica,  gli agrimensori  ci hanno tramandato ben poco,  perciò  alla luce di queste considerazioni,  non deve sorprendere  se  non esiste  una “regola aurea”che descriva  lo schema usato per  tracciare i quintari,  una regola che  avrebbe potuto  favorire  un facile rintracciamento.     Questo però non deve giustificare  il disinteresse  verso questo importante  aspetto della centuriazione,   infatti  la bibliografia,   al riguardo del quintario,   è praticamente inesistente.     Nel corso delle conferenze che ho effettuato,  ho cercato di  descrivere nei minimi particolari quelle che a mio parere  sono state le funzioni del quintario,  che  brevemente sintetizzo: strade di grande traffico nell’interno degli ager, perciò usate   sia da quelli che potremmo  chiamare “pubblica utilità”, ma,  nella occorrenza,  usati anche per spostamento di truppe.  Lungo il loro tragitto sono stati costruiti i  vici , i pagi  ed eventuali agglomerati umani,     funzioni catastali e postali,    delimitazione  dei saltus,  una di queste strade era riservata alla transumanza, cioè i calles,  diventati in epoca medioevali i tratturi.  Ma la  funzione più importante  che aveva il quintario era quello di  segnare  i confini degli ager,   sul come veniva segnalato questo importante  confine, si e detto tutto ed il contrario di tutto,  fiumi,  cippi,  diversa orientamento della centuriazione, distanza  equidistante, ecc,   il fatto stesso che ogni studioso  ha fatto  al riguardo proposte diverse,  la dice lunga sulla comprensione del  come veniva effettivamente  tracciato.


Uno sguardo  alla situazione attuale,   conferma  che effettivamente i quintari hanno avuto   le funzioni che ho appena accennato,  infatti su queste antiche strade si trovano le pievi,  le parrocchie,  i castelli,   i santuari,    piccoli e grandi agglomerati umani.  Molti confini provinciali e comunali sono  tuttora  contrassegnati dai  loro   antichi percorsi.  Non credo che tutto questo possa essere annoverato fra le  “inspiegabili  coincidenze”.       Alla luce di queste  considerazioni,  mi pare che il problema quintario,  meriti di essere approfondito in quanto  permette  di aprire una  importante “finestra “ sul nostro passato, infatti  offre   concrete  possibilità di rintracciare  gli antichi agglomerati  scomparsi, sia di epoca romana che di epoca altomedioevali. Come  rintracciare i quintari      Iniziano  questo non facile compito analizzando  quel poco che   ci hanno tramandato i gromatici,  per vedere  se è possibile  trarne qualche utile  indicazione:   Igino Gromatico  ci  fa sapere che  dalla sistemazione dei quintari  doveva scaturire un saltus  quadrato  di 25 centurie, cinque centurie per ogni lato.  Da   Frontino apprendiamo  che per una insieme di ragioni, forse per errore,   sono scaturiti anche  dei saltus  di 16 centurie,  perciò un quintario  ogni quattro centurie.   Esistono anche altre proposte ed altri esempi,  ma da quello che ho potuto constatare,    nella  stragrande maggioranza  delle centuriazioni  sono stati usati   le indicazioni di Igino,     oppure gli  “errori”  segnalati da Frontino.     Sono fermamente convinto  che il saltus corretto sia quello consigliato da Igino, non solo perché  il significato della parola     quintario  significa uno  ogni 5  centurie, ma anche   perché solo  con  tale  saltus è  possibile  effettuare una corretta variazione della centuriazione.   Nel corso delle conferenze  che ho effettuato,  mi sono lungamente soffermato sul significato e sulle molteplici funzioni dei saltus, un aspetto che tralascio,  in quanto  per  rintracciare i quintari, scopo primario di questo articolo,   occorre approfondire ben altri aspetti.     Cerchiamo ora  di dare una risposta ad una importante domanda:     considerato che  l’apparato stradale romano aveva come punto di partenza e di riferimento  il decumano massimo ed il cardine massimo,    il conteggio delle strade per poi  tracciare il quintario,  da dove iniziava?   A parere degli agrimensori  e dei pochissimi studiosi che si sono interessati di questo problema, il conteggio doveva  iniziare  con l’inclusione del cardine o decumano massimo, cioè  contare    anche quello.  In   apparenza,   doveva essere una operazione facile,  ma evidentemente  non lo era,    più spesso di quello che si crede e per ragioni che   non conosciamo, come i fatti dimostrano,  l’operazione deve avere incontrato delle  enormi  difficoltà.     Difficoltà  giustamente evidenziate  da Igino Gromatico,  questi, sicuramente uno dei più preparati agrimensori  di epoca romana,  si chiede e chiede,  se la prima linea alla destra del cardine o decumano massimo  debba essere chiamata prima,  oppure seconda.   Considerato che anche  Igino consiglia l’inclusione,  la domanda appare superflua e   troppo ovvia la  a risposta,  se il conteggio doveva iniziare dalla prima strada,  la linea successiva  doveva essere considerata  la seconda.  Invece, come già detto, forse per regole poco chiare, spesso  venivano commessi errori.      Prima di iniziare  il conteggio  delle strade, scopo  rintracciare i quintari,   occorre rispondere ad una altra  precisa domanda:  in epoca romana le strade come erano classificate e  contrassegnate?  La nomenclatura  attuale delle strade  la conosciamo bene,   ogni strada  è contrassegnata  da iniziali.  Una  A  ed  un numero,  per le autostrade.    SS con un numero, per  le statali.  SP con un numero e con un nome, per   le provinciali.  SC senza   alcun numero( in verità occorreva),   ma con un nome,  per  le comunali.   In tale maniera  si riesce facilmente a distinguere le strade dalla più grande alla più piccola.  Ma la situazione in epoca romana non è altrettanto chiara.    Pur senza aver fatto  particolari approfondimenti,  mi risulta che   le consolari erano  contrassegnate con un nome, Emilia, Flaminia ecc.  I  decumani ed i cardini massimi ,  venivano individuati  con le semplici iniziali,    DM (decumano massimo),   e KM ( cardine massimo). Le  strade  centuriali ,    cioè quelle che delimitavano  le centurie,  venivano contrassegnate  con la iniziale K,   se cardine, e con la iniziale D,  se  decumani,   seguite da un numero, e con la dicitura destra oppure sinistra  a seconda della loro  posizione rispetto ai cardini e decumani massimi.  A parere di qualche studioso, queste ultime strade   non  venivano  numerate,   in quanto non avevano   alcuna funzione.  Effettivamente, le centurie venivano  contrassegnate con un numero, senza aver bisogno di  nominare le strade che le delimitavano, ma , considerato che   se Igino ha sentito  il bisogno di  chiedere  come deve essere chiamata una di quelle strade, significa  che ,  per ragioni che non conosciamo, vi era la necessità di distinguere le une dalle altre.  L’incertezza rimane, una incertezza che riguarda particolarmente  i quintari, considerato che queste erano strade di grande traffico,  aventi  pure  funzioni postali e catastali, vi sono buone ragioni per credere che oltre al nome quintario,   nome  dato a questo tipo di strada,     venisse pure numerato,  sia per  essere distinto dagli altri quintari,   sia  che per essere  facilmente localizzato. 


Più avanti, nel corso delle “indagini preliminari” dovrò  volutamente omettere  di sottolineare anche   la   necessita di  consultare anche   ciò che altri hanno scritto al riguardo della locale centuriazione,  eppure   la grande  utilità è  fin troppo evidente, ma attenzione,   al riguardo della sistemazione dei quintari,  alcuni scritti potrebbero  essere fuorvianti.    Porto un esempio illuminante:   ho sotto agli occhi  il contributo del padovano Legnazzi,   riguardante  la centuriazione fra Imola e Faenza. Questi , fermamente convinto che  tale  centuriazione  fosse  stata  tracciata  come nel padovano, cioè con lo schema Igino, (tracciamento padovano comunque meritevole di essere verificato),     fece in modo che dalla sistemazione dei quintari,   scaturissero dei saltus di 25 centurie.  Questi, non essendosi reso conto  che in detta zona la centuriazione era stata invece tracciata con  l’erroneo schema Frontino, commise, seppur involontariamente,  una lunga fila di errori.      Mi sorprende una cosa, nonostante che da anni faccio presente agli studiosi  che la carta Legnazzi è inaffidabile, una inaffidabilità ampiamente documentata,   la totalità degli studiosi della attuale centuriazione  continua a  riportare  tale carta,  come esempio di “centuriazione romagnola”.    Questo per dire che occorre  evitare di partire  ” col piede sbagliato”. Pur tenendo conto che ogni area  è “una storia a sé”, le indicazioni che seguiranno,  se seguite con attenzione,   permettono,  come più volte è accaduto,   di rintracciare i quintari,     con una certa facilità. Per prima cosa, dovremo fare  alcune indagini  preliminari,   valide per ogni  area centuriata.   Avendo trovato alcune tracce di centuriazione, ricostruiamola tutta,   per una area abbastanza grande,   più o meno come  doveva o poteva  essere,     sia per il verso dei cardini (Sud- Nord),   che per il  verso dei decumani  ( Est-Ovest). 



Fig.1 Area centuriata con cardine e decumano massimo  Al seguito di  questa indispensabile operazione,  disponiamo  di una   mappa  a forma di scacchiera della zona che vogliamo indagare, che, fra l’altro,   ci da  la possibilità di fare una importante verifica, rendersi conto  con quale tipo di centurie  è stata tracciata  tale centuriazione. La più comune  era


quella di centurie  da  20x 20 actus,   cioè di  circa 705 metri di lato,   ma a  volte sono state usate centurie diverse,  in tal caso occorre controllare che la lunghezza dei lati  abbiano una corrispondenza  con gli actus,  se così non fosse,  la centuriazione potrebbe anche non essere romana. Ad ogni modo, per procedere occorre verificare con esattezza  quale tipo di centuria è stata usata.    Due utili controlli:  dopo aver controllato se alcune strade tuttora  praticabili,  corrispondono  alle maglie della centuriazione,     si controlli pure se in alcune di queste si trovano allineati edifici religiosi, (pievi,  parrocchie, santuari),   oppure edifici civili, ( castelli, agglomerati piccoli e grandi),  in quanto in tal caso  potremmo aver già individuato un quintario,  ma per sincerarsene occorre, oltre naturalmente al conteggio che  sarà spiegato,    fare uno scavo in detta strada, se la larghezza  è attorno ai 4 metri,  potremmo dire che siamo stati “baciati dalla fortuna”  in quanto  faciliterebbe il proseguo della ricerca.    Dovremo  pure  darci   da fare,  per rintracciare  il cardine ed il decumano massimo,   impresa non facile,  il più  delle volte  queste due strade  si incrociavano al centro del forum romano, ma non sempre, in alcuni casi,  per svariate ragioni,   si incrociavano  fuori  dal centro urbano, ma occorre rintracciali. Il rintracciarli  è una  operazione  praticamente indispensabile.   Sperando in un esito positivo. Come individuare  correntemente i  quintari se la centuriazione è stata tracciata  con lo schema  Iginio Gromatico.


Fig.2 Saltus di Igino Gromatico


Iniziamo  dal cardine o decumano massimo. Punto di riferimento  di queste strade è quello di effettuare la sistemazione dei quintari e di iniziare l’eventuale numerazione delle strade, come a suo tempo fu il punto di riferimento per iniziare la centuriazione. L’individuazione dei quintari è abbastanza facile,  dopo 5 centurie troveremo il primo quintario, dopo altre 5 il secondo, e cosi via. Così facendo vengono a formarsi dei  saltus di 25 centurie.


Più problematico il conteggio e la numerazione sia delle strade centuriali che dei quintari.  A mio parere,  contrariamente alle indicazioni dei gromatici, e della totalità degli studiosi, il conteggio NON deve  iniziare dal Cardine o decumano massimo, se proprio vogliamo  dare  un numero  a questa strada,  metteremo uno  zero.  Conseguentemente  la prima strada centuriale avrà il numero uno ed altrettanto il primo quintario. Qualcuno potrebbe giustamente chiedere la ragione per cui  il conteggio non deve iniziare dal Cardine e decumano massimo. Domanda pertinente, una ragione c’è, se fosse quello l’inizio,  ci troveremmo nella paradossale situazione,  che ad una  unica linea corrisponderebbe ben tre strade:  il cardine o decumano massimo, un quintario ed una   strada centuriate.  Essendo tutte e tre incorporate in una unica linea, come potranno essere citate  in una mappa? Nell’impossibilità ci citarle tutte e tre, sicuramente sarà citata solo   la più importante , cioè il cardine o il decumano massimo, e delle altre due che ne facciamo? Le lasciamo lì,  facendo confusione? Oppure le  cancelliamo?    Sono fermamente convinto che alcuni  agrimensori romani si  saranno resi  conto che  seguendo alla lettera  le indicazioni di Igino, cioè iniziare  il conteggio sia dei quintari che delle strade centuriali,   includendo il cardine o decumano massimo, avrebbero creato  una   confusione interpretativa,  confusione che  col metodo sopra indicato, veniva eliminata.  Il metodo  è praticamente perfetto, le strade centuriali  ci sono tutte,  e tutte progressivamente numerate, altrettanto i quintari.   Di fronte a questo tipo di centuriazione, Igino troverebbe la risposta al suo interrogativo, anzi non l’avrebbe neanche   formulata.     Vi sono molte tracce di questo tipo di centuriazione, cioè col saltus da 25 centurie, ma sono convinto che al seguito di una attenta indagine, constateremo  che invece,  più spesso di quello che crediamo,  sia  stato usato l’erroneo  schema Frontino, cioè saltus di 16 centurie.     Come individuare correntemente i quintari se la centuriazione è stata tracciata con l’erroneo  schema Frontino.





Fig.3

Saltus Frontino

 Anche in questo caso, l’individuazione è facile,  ogni 4 centurie un quintario,  percio  saltus di 16 centurie. Che questa è la sistemazione dei quintari,   non vi sono dubbi, l’ho potuto constatare  nel corso delle mie ricerche, per quanto riguarda il conteggio e la numerazione delle strade, la situazione si fa complicata.    Abbiamo già visto  la  confusione che si può creare iniziando il conteggio dal cardine e decumano massimo,  considerato che in questo caso  è stata usata tale pratica, non è facile ipotizzarne le conseguenze. Tentiamo una possibile ipotesi, considerato che il primo quintario e la prima strada centuriale, essendo  incorporate ai cardini o decumani massimi,  non possono essere visibilmente numerate, dovremo per forza  numerare solo le successive, conseguentemente la prima strada centuriale che troveremo,  dovrà essere contrassegnata col numero 2 , come pure con un 2  dovrà essere contrassegnato  il primo quintario.   Ipoteticamente  questo sarebbe il modo per  “limitare” i danni, ma rimangono molti interrogativi,   che solo con  il  ritrovamento di  un catasto, avente  questo tipo di centuriazione, si potrà  dare adeguate  risposte.  La centuriazione di Imola e Faenza  è stata tracciata  con questo schema, errori e confusione compresi.  Tracce di tale centuriazione, sono state riscontrate  anche altrove, Minturno, Terracina ed in alcune zone della Francia, ma a mio parere è più diffusa di quello che pensiamo.       Pur senza spiegarne le ragioni, Frontino dice che questa  è una centuriazione “sbagliata”, aveva ragione,  la confusione è  ed era evidente, due strade, pur essendo esistenti, non  risultano nelle mappe,   non solo, con tale schema  venivano  formati dei saltus di 16 centurie, un saltus   che mal si prestava a creare un diverso  orientamento centuriale.







Fig.4

Centuriazione con diverso orientamento


Se per una insieme di ragioni poteva esserci  la necessita di cambiare l’orientamento della centuriazione, per esempio, a causa della non perfetta  pendenza del terreno, oppure per creare  un ben visibile confine di ager, si ricorreva alla pratica qui presentata. In questa maniera  venivano risolti  molti “problemi” fra cui il  rovinare il minor numero di centurie, e fare in modo che le strade dei due ager  continuassero a combaciare. Per far questo era indispensabile tracciare il confine con un quintario, (ecco un  esempio  dimostrante che i confini di ager venivano tracciati con dei quintari),  e la centuriazione  doveva essere stata tracciata con  lo schema delle 25 centurie.  Come ben dimostrato dal disegno, dopo 5 centurie di “apertura”,  troveremo lo spazio esatto di una centuria,  dopo dieci  centurie lo spazio esatto di due centurie, dopo 15 centurie lo spazio esatto di tre centurie ecc. Con un saltus formato da 16 centurie questo non era possibile, infatti occorreva tagliare  moltissime  centurie.  Una curiosità da tenere presente, da Varrone si apprende che esistevano pure  dei saltus formati da quattro centurie,  un quintario ogni due centurie,  ebbene se queste quattro centurie venissero divise per 4, le centurie diventerebbero 16 ,   come  il saltus di Frontino, ma in tal caso le centurie sarebbero più piccole. Come è noto, quando si dice che i quintari ,  hanno pure il compito di delimitare i saltus,  di  25,  oppure 16 centurie, non sempre viene specificato la superficie di tali centurie, come pure non viene   specificato se queste devono essere  quadrate,  oppure rettangolari,  considerato che  vi sono tracce di


almeno una ventina di diverse centurie, i saltus  delimitati dai quintari,  potrebbero essere diversi nella forma e nella superficie.    Come si può notare rintracciare i quintari non è una “impresa”  facile, ma neanche impossibile.    Il cercare di rintracciarli, indipendentemente dal risultato, è pur  sempre   un approfondimento che sicuramente migliora la conoscenza della propria centuriazione, perciò,   una azione utile. Ultimissima curiosità, potrebbe anche accadere  di trovare due quintari appaiati, cioè alla distanza di una sola centuria, ebbene in tal caso il problema si complica.  Nel mio territorio ho trovato una situazione di questo tipo,  ma  penso di aver dato una esauriente spiegazione:  esistenza in loco di una antichissima via,  che per un certo periodo  ha avuto anche funzioni transumanti,  area interessata da  antichissimi confini e da due  percorsi di fiumi. Naturalmente,   non è detto che  in altri luoghi  le ragioni siano identiche, occorre studiarle.  Un appello agli studiosi. Sono fermamente interessato a conoscere  le varie realtà locali, come pure sono interessato a conoscere i vostri  commenti. Gli antichi dicevano una cosa giusta:  I complimenti fanno piacere, ma non servono a niente, le critiche non piacciono, ma sono utilissime.                       Prego perciò  sintonizzarsi sull’utile, Buona ricerca.



POSTILLA Ad articolo ultimato e spedito ad alcuni “addetti ai lavori”, uno studioso  di Pavia mi ha scritto  rivolgendomi una serie di domande:  ”per quale ragione,  nel conteggio  delle  strade del saltus di 16 centurie,  lei ha ipotizzato  la possibile  scomparsa  di  due strade, sia la  prima centuriale,  che il primo quintario? Quali le controindicazioni se nel conteggio  venivano indicate  entrambe le strade  col numero uno, come infatti è stato fatto nel saltus da 25 centurie?  Giustissime domande che giustamente meritano una risposta.    Considerato che  non vi sono fonti che spieghino il comportamento degli agrimensori,  ho provato ad immaginarlo e per prima cosa mi sono fatto due domande:  i  quintari venivano tracciati subito, oppure in un secondo momento? La numerazione delle strade veniva effettuata subito, oppure  in un secondo momento? La risposta alla prima domanda sembra ovvia, sicuramente i quintari saranno stati tracciati subito, anche perchè  tale strada doveva essere più  larga delle centuriali.   Per la seconda domanda la riposta è dubbiosa,  subito o dopo?   Se fatta subito,  potevano rendersi conto degli errori che stavano commettendo e rimediare,  per rimedio si intende fare invece il saltus  da 25 centurie  e conteggio relativo,  se fatta dopo, constatavano gli errori commessi, ma  non  vi era più la possibilità di rimediare. Vi sono buone ragioni per credere che la numerazione  venisse  effettuata in un secondo tempo, mentre i quintari venivano tracciati subito. Tracciando subito i quintari,   si saranno resi conto  che  creavano dei saltus da 16 centurie,   ma non è detto che fosse considerato “un errore”.  Conseguentemente:  gli agrimensori    esperti  non includevano il cardine e decumano massimo.    Subito od in seguito, numeravano progressivamente sia  i quintari,  che le strade centuriate,  e  vediamo la loro opera nei saltus da 25 centurie, Gli agrimensori con poca esperienza:   hanno incluso il decumano e cardine massimo,  hanno creato dei saltus da 16 centurie, conseguentemente  hanno creato la confusione   che constatiamo nei saltus da 16 centurie. La risposta che ho dato  all’amico di Pavia è questa: se gli agrimensori avessero iniziato il conteggio non includendo, avrebbero di fatto costruito solo dei saltus da 25 centurie,  perciò nessun problema.  Purtroppo i fatti ,  cioè l’effettiva esistenza dei saltus da 16 centurie, ci dicono che gli errori sono stati commessi e conseguentemente, come io ho ipotizzato, due strade,  pur essendoci,    risultano”scomparse”.







I terremoti e gli insegnamenti della storia



Come è noto, nel corso dei terremoti  che stanno devastando una parte della regione Emilia, si sono aperte delle crepe nel terreno dalle quali è uscita acqua e sabbia. Tali fenomeni sono stati definiti “strani” e mai accaduti. Se leggiamo la storia apprendiamo invece  che sono accaduti altre volte e neanche tanto lontano, infatti sono accaduti nel ravennate. Tralasciando di descrivere i devastanti terremoti del  467,  del 743, e del 1302, appare doveroso descrivere quelli  che si sono verificati  nel  1591, in quanto hanno  avuto delle caratteristiche quasi identiche a quelli  del  modenese. Da una antica cronaca si apprende che  nel giorno 20 luglio e nel giorno 28 agosto , di detto anno,  “nelle valli di Classe e nelle valli di San Vitale  al seguito di due fortissime scosse  si aprirono nel terreno grandissime  bocche dalle quali  usci un fumo puzzolente” Vi sono buone ragioni per credere che  l’artefice  di tale fenomeno  sia stata la placca che nel corso del suo cammino verso le Alpi, sta  creando non pochi problemi  agli abitanti di varie zone. Se così fosse  non deve sorprendere  se il territorio  dell’oltre Po,   sarà  prossimamente interessato a detti fenomeni. Prevedere i terremoti è praticamente impossibile,  ma considerata la successione di tali eventi, logica  sarebbe  prendere le dovute precauzioni A volte la storia ci dà degli insegnamenti, purtroppo spesso  non l’ascoltiamo.






Articoli non compresi in questa raccolta possono essere trovati in molte biblioteche della Romagna 

SOLAROLO   RAVENNA  GIUGNO 20

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