martedì 12 febbraio 2019

GIURISDIZIONE AMBROSIANA


GIUSEPPE SGUBBI

IMOLA E FAENZA:
LORO POSIZIONE GIURISDIZIONALE CIVILE ED ECCLESIASTICA DURANTE IL PERIODO ROMANO*

Indispensabile premessa.

Tre sono gli scopi di questo lavoro :
A) sollevare un “problema” che dopo un lungo periodo di vivaci discussioni è stato da tempo accantonato; un accantonamento forse dovuto al convincimento che i risultati conseguiti fossero definitivamente accertati, mentre invece, come vedremo, sussistono su alcuni aspetti vari dubbi, e molte sono le domande rimaste senza risposte.
B) Mettere in discussione le “prove” riportate dagli studiosi che si sono interessati a questo tema, in quanto non sempre sono state convincenti.
C) Considerato che questo tema è stato affrontato da autorevolissimi studiosi, fare, seppur con comprensibile imbarazzo, alcune ipotesi alternative.
Dal titolo si evince che nel corso di questo scritto si parlerà in particolare di confini di epoca romana, infatti solo individuando tali confini è possibile determinare la posizione geografica o topografica di Imola e Faenza. Purtroppo la situazione confinistica di tale epoca non è per niente chiara.
Lo spunto per questa ricerca è nato da una ricerca sui confini. Un paio di anni fa scrissi un articolo ( 1) il cui scopo era quello di determinare il confine fra l’Emilia e la Romagna; ebbene, avendo dato uno sguardo ai lavori effettuati da altri studiosi al riguardo di tale tema, avevo notato che il periodo romano era contrassegnato da un “vuoto” storiografico. Notai la stranezza di questo vuoto, e pensai che probabilmente ciò era dovuto al fatto che in tale periodo non erano segnalati problemi di confini e che perciò il “silenzio” degli studiosi fosse da addebitare alla mancanza di testimonianze antiche. Invece non era cosi. Verso la fine di detta ricerca mi resi conto che il tema confini, pur non essendo mai ricordato il Sillaro, era stato oggetto di vivace dibattito; mi ripromisi quindi di ritornarci, e questi sono i risultati.
Una importante precisazione: il titolo potrebbe trarre in inganno, infatti potrebbe far pensare che questa ricerca abbia preso in esame la situazione di Imola e Faenza per tutto il periodo romano; non è cosi, ha riguardato solo alcuni periodi ben precisi, qualcosa nel primo secolo d.C, quasi niente nel secondo, poco nel terzo, molto nel quarto, niente nel quinto.
In seguito alla riforma voluta dall’imperatore Diocleziano (circa anno 397), l’Italia si è trovata divisa in due vicariati: vicariato annonario con capitale Milano ed il vicariato suburbicario con capitale Roma. Oltre alla divisione sopra accennata l’Italia, si trovava da almeno un secolo divisa anche in regioni, all’epoca dette “provincie”: Liguria, Emilia, Piceno, Campania, ecc. Una di queste era detta Flaminia, il cui territorio corrispondeva più meno alla attuale Romagna.
Non è chiaro dove fosse esattamente il confine fra i due vicariati; di sicuro doveva trovarsi dalle nostre parti, infatti dando uno sguardo alle testimonianze antiche, si apprende che per alcune di queste Imola e Faenza erano in vicariato annonario, per altre erano invece in vicariato suburbicario.
Si tenga presente che nel corso del IV secolo, che, come precisato, è il periodo riguardo al quale il problema dei confini sarà maggiormente approfondito, oltre ai civili, risultano esistenti anche alcuni confini ecclesiastici, un insieme di confini non ben distinti, che creano non poche difficoltà nel cercare di determinarli con un certo grado di attendibilità.
Considerato che le nostre zone sono state interessate da questi confini, si rende necessario rispondere ad alcune domande: dove era esattamente il confine fra vicariato annonario e vicariato suburbicario? In quale di questi vicariati si trovava la Flaminia? Dove era il confine fra Emilia e Flaminia? Di quali di queste regioni facevano parte le città di Imola e Faenza? Identiche sono le domande in ambito ecclesiastico alle quali occorrerebbe rispondere.
Anticipo il risultato delle mie ricerche: il confine ecclesiastico, e probabilmente anche il civile, era segnato dal corso del fiume Sillaro, perciò, contrariamente al parere di tutti gli studiosi, Imola e Faenza non dipendevano da Milano ma da Roma.
Devo premettere che questo mio radicato convincimento non è frutto di documenti che altri studiosi non hanno esaminato, ma che è una convinzione scaturita grazie a spunti ed indizi dovuti ad una mia “teoria sui confini” che, nel bene o nel male, mi ha condizionato ed indirizzato per tutto il percorso di queste intricate ricerche.
Cosa dice questa “teoria”? Se in un posto vi è da tempi remoti un confine naturale con ben evidenziate caratteristiche etniche, nel caso che nel corso dei secoli vi fosse la necessità di segnare in zona un confine , sia di ambito civile che ecclesiastico, si ricorrerà inevitabilmente a tale percorso, in quanto, essendo tale confine ben radicato nella popolazione, meglio si presta a tale uso.
Il caso vuole che in zona vi sia un confine naturale che ha le caratteristiche rispondenti a detta teoria: si tratta del corso del fiume Sillaro.
Come confine naturale il Sillaro non è secondo a nessun fiume emiliano-romagnolo, infatti sulle due sponde vi si trova una ben evidenziata diversità geologica; i gessi si trovano solo sulla sua riva destra, e detiene pure una ben accentuata diversità di fauna e di flora; un centinaio di piante e di animali sono introvabili ad ovest del Sillaro.
In epoca preistorica, questo fiume ha tenuto separate alcune popolazioni: Villanoviani, Galli ed altre etnie diverse, non a caso nel corso di una indagine antropologica fu riscontrato un diverso indice cefalico fra le popolazioni che attualmente questo fiume divide. Il corso di questo fiume disegna il classico confine etnico.
Mettendo a confronto il corso di questo fiume e quello degli altri fiumi romagnoli, seguendone le secolari evoluzioni, abbiamo la dimostrazione che la sopracitata “teoria” offre buone garanzie di attendibilità; quasi tutti i fiumi romagnoli in epoca romana o altomedioevale hanno segnato qualche confine, ma poi quasi tutti hanno perso tale funzione, il Sillaro invece ha continuato ininterrottamente nei secoli a designare confini, sia civili che ecclesiastici. Breve elenco dei confini segnati dal Sillaro dalla antichità ad oggi: Villanoviani romagnoli e Villanoviani bolognesi; galli ed umbri; ager imolese e ager claternate; territorio imolese e territorio bolognese; diocesi imolese e diocesi bolognese; ducato di Persiceto ed Esarcato; ducati e signorie; Longobardia ed Esarcato; Romagna ed Emilia. Ebbene questi ben riscontrabili dati di fatto mi hanno fermamente convinto che il Sillaro, nel corso del periodo che sto trattando, nonostante non sia espressamente documentato da nessuna antica testimonianza, abbia sempre segnato il confine, dell’Emilia e della Flaminia, del vicariato annonario e suburbicario, della metropoli milanese e metropoli romana ed altri eventuali confini che all’epoca avessero la necessità di essere segnati in tale zona.
Il lettore potrebbe giustamente farmi presente che, date le premesse, mi accingo a scrivere alcune pagine di storia basandomi molto su dei “convincimenti” e poco su dei documenti: questo mio comportamento non deve sorprendere più di tanto; non molto diversamente si sono comportati gli studiosi che hanno trattato questo tema. Come è noto questo periodo, cioè il cosi detto Tardoantico, è contrassegnato da una grave penuria di testimonianze, pochi sono i documenti disponibili e quei pochi dicono cose diverse, conseguentemente, e non poteva essere diversamente, i pareri scaturiti dalle ricerche sono spesso divergenti: divergenti i “convincimenti”, divergenti i documenti, divergenti le conclusioni.
Una precisazione “bibliografica”: gli autori e le opere riportate nelle note, volutamente ridotte al minimo per evitare una eccessiva lunghezza dell’’articolo, sono solo una piccolissima parte della sterminata bibliografia esistente in tema, infatti per fare questa ricerca ho consultato oltre 600 opere, quasi tutte scritte in italiano. Gli studiosi eventualmente interessati a prendere visione di tutta la bibliografia possono consultare l’apposito opuscolo facilmente reperibile in alcune biblioteche.(2 )
Per comodità di esposizione ho ritenuto opportuno dividere questo lavoro in vari capitoli: Situazione da Augusto a Diocleziano, situazione civile nel IV secolo, situazione ecclesiastica nel IV secolo, lettera di S.Ambrogio al vescovo Costanzo.

SITUAZIONE DA AUGUSTO A DIOCLEZIANO
(dal I al III secolo)

Uno solo è il tema che sarà approfondito nel corso di questo capitolo: l’esistenza o meno in epoca romana di una regione denominata Aemilia, territorialmente corrispondente alla regione emiliano-romagnola.
Come è noto, dai primi tempi della dominazione romana fino all’epoca di Augusto, il territorio corrispondente alla attuale regione Emilia- Romagna, pur essendo con vari nomi spesso ricordato: Cispadana, Ager Boico, Gallia Togata, Provincia Ariminum, non aveva confini ben definiti, perciò sorvoliamo su questi primissimi tempi.
Al seguito della nota divisione in regioni voluta dall’imperatore romano Augusto, il territorio corrispondente attualmente alla regione emiliano- romagnola, come tutti gli studiosi concordano, corrispondeva alla regione VIII°. A parere della stragrande maggioranza degli studiosi, salvo lodevoli eccezioni, nel corso del I° secolo d.C. il territorio della VIII° regione augustea avrebbe preso il nome di Aemilia. Questi portano a sostegno della loro tesi la testimonianza di Marziale. Come è noto verso l’88 d.C il poeta romano Marco Valerio Marziale si trovava a Forum Corneli (Imola) e nel corso di tale permanenza scrisse alcuni dei suoi famosi epigrammi. Ebbene, a parere dei suddetti autori, alcuni suoi versi testimonierebbero l’esistenza, già a quel tempo, di una regione chiamata “Aemilia”.
Vediamo che cosa ha detto Marziale(3). Nel libro III,4, spedendo a Roma il suo terzo libro, lo accompagna con le seguenti frasi: “vai a Roma , mio libro; se donde tu venga ti chiedono, dalla regione dirai, che la via Emilia attraversa.” Pur prendendo atto che le espressioni poetiche non sono mai facilmente decifrabili, il senso di queste parole dovrebbe essere che il poeta si trovava in quel periodo in una regione, non dice quale, attraversata da una via chiamata Emilia, non si vede come questa frase possa essere interpretata diversamente. Se una persona si trova in una regione attraversata da una via e nomina tale via, non è affatto detto che intenda dare il nome della regione. Se Marziale, ipoteticamente, invece di trovarsi ad Imola, si fosse trovato in una città umbra, oppure in una città toscana, regioni attraversate rispettivamente dalle vie Flaminia e Claudia, e avesse spedito un libro accompagnandolo con le stesse parole, unica differenza il nome delle vie che attraversavano le suddette regioni, avremmo forse dedotto con sicurezza che le due regioni si sarebbero chiamate una Flaminia e l’altra Claudia? Perciò voler ad ogni costo ricavare dalle frasi del III libro di Marziale la sicura esistenza di una regione chiamata Emilia, mi pare una forzatura.
Esistono invece altre testimonianze di Marziale che potrebbero essere interpretate in vari modi. Nel libro VI 85,6, avendo il poeta appreso la morte di Rufo, suo amico bolognese, e sapendo che per questa morte molte persone piangono dice: “Lacrime versa o Bologna orbata ahimè del tuo Rufo e per tutta l’Emilia il cordoglio risuona.”
Pure nel libro X 12,1, Marziale, rivolgendosi all’amico Domizio, che sta partendo per le vacanze, riporta la parola Emilia: “Tu per le terre dell’Emilia andrai “. Effettivamente in questi ultimi due epigrammi, la parola Emilia può essere interpretata ”regione Emilia”, ma, considerato che pochi mesi prima Marziale, volendo indicare un territorio, aveva detto attraversato dalla via Emilia, non si può affatto escludere che anche nel VI° e nel X° libro abbia voluto intendere la stessa cosa. In Marziale compare più volte la parola “Emilia” e la parola” regione”, ma non compare mai la frase “regione chiamata Emilia”, una frase che avrebbe, senza alcun dubbio, reso comprensibili le sue testimonianze. Alla luce di queste note non mi pare si possano riportare i passi di Marziale come “sicura testimonianza “ che già nel I° secolo d.C. “tutto” l’attuale territorio della regione Emiliano-Romagnola era chiamato Emilia, perciò almeno il proverbiale dubbio dovrebbe rimanere. Si tenga inoltre presente che un decennio prima, Plinio il Vecchio, (Hist. Nat. III 115) il più famoso storico della romanità, descrivendo accuratamente la VIII° regione Augustea (città ,fiumi, ecc), non dice che tale regione aveva preso il nome Emilia, se così fosse stato, non avrebbe mancato di riferirlo. Perciò è mia ferma convinzione che nel corso di tutto il periodo romano non sia mai esistita una regione Aemilia interamente corrispondente al territorio della Emilia-Romagna. Per essere più chiaro: quando appare per la prima volta il nome di una regione detta Aemilia , in contemporanea sarebbe apparsa anche una regione chiamata Flaminia, conseguentemente per Emilia si intendeva solamente il territorio da Bologna in sù e per Flaminia da Imola verso le Marche. Continuiamo l’indagine su questo tema cercando di datare la sicura esistenza di due regioni denominate Emilia e Flaminia.
Nel corso del II secolo d.C. ma in date incerte ( per qualcuno verso il 170, per altri verso il 160) le nostre due regioni si trovano ricordate in alcune iscrizioni. Si tratta di personaggi, in genere magistrati, che avevano governato provincie o regioni, ne troviamo uno che verso il 166 governava la Aemiliae et Flaminia, (C.I.L.VIII, 5354), ed un altro che governava Flaminiam et Umbriam (C.I.L. XI 377). Da queste iscrizioni si apprende che un’ ampia zona è stata fatto oggetto di una divisione amministrativa e da questa sono nate alcune regioni fra cui la Emilia e la Flaminia.
Vediamo di indagare come la Flaminia abbia potuto ricevere tale denominazione.
Considerato che l’Emilia ha preso il nome dalla via che l’attraversa, non si può escludere che altrettanto sia accaduto anche al riguardo della Flaminia.
Il Susini(4) è convinto che anticamente una via che convenzionalmente chiama Flaminia II°, proseguisse da Rimini verso il cuore della pianura, valicasse il Rubicone nei pressi del Compito, e raggiungesse Pisignano, San Pietro in Vincoli, San Pancrazio, Russi, Bagnacavallo, Lugo, Massa Lombarda ed il Delta Padano. Nereo Alfieri(5) ha rilevato in maniera persuasiva che G. Flaminio nel 187 ha costruito una via Flaminia detta Flaminia minor, che da Arezzo, seguendo il crinale fra il Sillaro e l’Idice, arrivava a sud di Claterna. Per il Susini(6) detta via, cioè la Flaminia minor, proseguiva il suo percorso verso il guado del Po di Primaro, congiungendosi alla Flaminia prima accennata proveniente da Rimini. Nella carta geografica che il Coronelli(7) diede alle stampe nel 1707, appare ben evidenziato il tracciato di una via chiamata Flaminia, che, partendo poco a ovest di Imola, arriva al mare Adriatico. Non solo, anche qualche tratto romagnolo della via Emilia era detta Flaminia; questo si deduce da un documento riportato dal Lanzoni(8) riguardante la città di Forli (in liviensis foris non longe per Flaminiam viam,) e da alcune cronache imolesi del diciottesimo secolo(9). Da queste notizie si ricava che la antica regione Flaminia era interessata da vari percorsi di una strada chiamata Flaminia, perciò è possibile che il nome della regione derivi da detta via. Non si può comunque neanche escludere che il nome Flaminia sia stato dato da popolazioni provenienti dall’Umbria che, sia in epoca preromana che romana, si sono stanziate in Romagna; si tratta di popolazioni che avendo abitato nella valle Tiberina, arrivate nelle nostre zone, avrebbero fra l’altro dato al fiume Senio il nome Tiberiaco.(10) Ho già fatto presente in premessa, che sono fermamente convinto che il confine fra la Emilia e la Flaminia doveva trovarsi non lontano dal corso del fiume Sillaro, ebbene, questa non è solo una mia opinione, ma è anche quella dei due più autorevoli studiosi dell’epoca romana, il Susini ed Tibiletti. Vediamo le loro affermazioni. Il Susini, descrivendo il tracciato verso il mare della già ricordata via Flaminia minor dice “quasi a costituire un autentico limes settentrionale della nascente Romagna.(11). Ancor più chiaro è il Tibiletti, corso del citato articolo, dopo aver elencato le divisioni amministrative avvenute durante l’età imperiale romana, fa una affermazione particolarmente significativa; “è singolare che il confine fra la nuova, ridotta Aemilia e la Flaminia, richiami a grandi linee quella che dopo millenni e dopo le vicende bizantine, longobarde e medioevali, sarà la suddivisione fra la Romagna e i moderni ducati. Indubbiamente è mera causalità, almeno secondo lo stato della nostra conoscenza, tanto scarsa, delle più profonde leggi storico-geografiche.” (12) Questo significa, perciò, che al seguito della divisione amministrativa avvenuta nel 215, Faenza ed Imola facevano civilmente parte della Flaminia. Si tratta ora di vedere se tale situazione, è rimasta tale anche durante i successivi periodi romani. Trovo incomprensibile la ragione per cui gli studiosi che si sono interessati dei confini esistenti nel periodo tardoantico non abbiano tenuto conto delle affermazioni fatte dal Susini e dal Tibiletti.(13)

SITUAZIONE CIVILE NEL IV SECOLO

Come abbiamo già detto, al seguito di varie suddivisioni succedutesi nel corso del secondo e terzo secolo, in particolare quella dell’imperatore Diocleziano, l’Italia si è trovata divisa in due vicariati: annonario con capitale Milano e suburbicario con capitale Roma. Non è chiaro se l’Italia si trovò divisa in due vicariati e consegnata a due vicari, oppure divisa in due vicariati e consegnata ad un solo vicario, oppure un solo vicariato ma consegnato a due vicari. A parere di alcuni studiosi(14) la Diocesi Italiciana ( cosi era chiamato il territorio italiano) era l’unica Diocesi dell’impero governata da due Vicari. Questo significa che ogni Vicario poteva per necessità, per esempio in caso di carestia, o anche per altre ragioni, sconfinare nel territorio dell’altro vicario. Non solo, la elezione di un nuovo vicario spesso significava cambiamento giurisdizionale del territorio, infatti un Vicario di famiglia ricca poteva pretendere una maggiore estensione territoriale da governare. Come si può capire ci troviamo di fronte a un confine “ballerino”, conseguentemente si incontrano enormi difficoltà a determinarne esattamente il tracciato.
Il nostro territorio si è trovato interessato da due confini: quello fra vicariato annonario e suburbicario e quello fra Emilia e Flaminia, cioè la futura Romagna.
Per poter determinare i due confini occorre dare una risposta a due già segnalati interrogativi: quali sono le regioni del vicariato annonario ? E quali sono le città facenti parte della Flaminia? Nonostante le sopra citate difficoltà, cerchiamo di approfondire l’argomento.
Vediamo anzitutto come si sono pronunciati gli studiosi, precisando che cotesti pareri riguardano esclusivamente la situazione del IV secolo.
Riguardo alla appartenenza della Flaminia alla Annonaria o alla Suburbicaria, i pareri degli studiosi sono discordi: per la stragrande maggioranza di loro,( 15) facevano parte della Annonaria sia l’Emilia che la Flaminia ed anche una parte del Piceno,( le Marche), perciò Imola e Faenza, indipendentemente che queste città si trovassero in Emilia oppure nella Flaminia, si sarebbero trovate nel vicariato Annonario, cioè sotto Milano. Per altri(16) invece la Flaminia faceva parte della Suburbicaria. Per i primi, il confine meridionale della Annonaria si trovava in una linea che andava dall’Esino, fiume marchigiano, all’Arno, il fiume di Firenze, perciò per questi autori il confine era lontano dalle nostre zone. Quelli che invece dicono “Flaminia in Suburbicaria” mettono in confine della Flaminia con l’Emilia fra Forlì e Forlimpopoli; perciò, per questi studiosi, le città di Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, conseguentemente sotto Milano. Mi preme sottolineare un importante particolare: da quello che mi risulta nessuno di questi ultimi studiosi porta una testimonianza antica che documenti l’esistenza in tale periodo di un confine fra Forlimpopoli e Forli)
Vediamo in dettaglio i pronunciamenti degli studiosi e le motivazioni da loro riportate.
Dai loro scritti mi pare di aver capito che le loro convinzioni sono scaturite da antiche testimonianze riportate in alcuni cataloghi di provincie e dalla citazione “Italia” che compare in vari documenti. Approfondiamo questa ultima citazione, in quanto significherebbe” vicariato annonario”.
Al concilio di Sardica del 343 i vescovi firmatari si firmano in vari modi: quelli dell’alta Italia, oltre alla loro sede, aggiungono anche la voce Italia ( Protasio Milano Italia , Severo Ravenna Italia ,ecc), mentre invece quelli della Italia centrale e meridionale oltre al nome aggiungono solo la provincia. La citazione Italia ricordata in questo documento sembra dimostrare che in tale anno la regione Flaminia, la cui capitale era Ravenna, si trovava civilmente in vicariato Annonario. Non mancano pure anche altri documenti antichi che lasciano intendere la stessa cosa. Ma non mancano anche documenti, fra cui molti rescritti imperiali, per esempio quelli riportati dal Giardina(17, in cui la voce Italia corrisponde indistintamente a qualsiasi parte del territorio italiano; infatti dei 18 testi riportati ben 12, con tale dicitura, si intendono tutta la penisola, 3 sono dubbi, ed appena 3 si riferiscono al vicariato annonario. Perciò ovvia conseguenza, non è possibile definire il confine civile fra il vicariato Annonario e Suburbicario nel corso del IV secolo basandosi solamente sui documenti antichi che riportano la voce Italia .
Vediamo invece che cosa si può ricavare dando uno sguardo agli antichi cataloghi delle “provincie”, precisando che per “provincia” a quei tempi si intendeva “regione”.
Come già detto, vi sono buone ragioni per pensare che gli studiosi moderni abbiano raggiunto il loro convincimento al riguardo dei confini tardo antichi al seguito delle notizie riportate da questi cataloghi, perciò approfondiamone il contenuto.
Si tratta di cataloghi scritti in varie epoche (dal IV all’VIII secolo) ma che a parere degli studiosi descrivono la situazione della seconda metà del IV, cioè il periodo qui maggiormente trattato, ma vedremo che non sempre è così, spesso si rifanno a situazioni molto più tarde.
Passiamo in rassegna gli elenchi di provincie maggiormente presi in esame iniziando dalla Notitia Dignitatum. Nell’elenco delle provincie descritte in questo catalogo, vengono ricordate fra le altre, la Flaminia et Piceno con l’aggiunta Annonaria, e successivamente il Piceno con l’aggiunta suburbicario. La dicitura è molto chiara. Se la notizia riportata fosse sicura, ad un certo momento la Flaminia, una parte del Piceno e conseguentemente le città di Imola e Faenza, avrebbero fatto parte del vicariato Annonario e perciò sotto Milano. Questo è il documento antico che ovviamente viene riportato da moltissimi studiosi, ma a parere di alcuni questo catalogo era mancante di alcune pagine originarie, aggiunte con una certa arbitrarietà da uno studioso tedesco, perciò sarebbe poco affidabile. Nonostante questa presumibile inaffidabilità, da questa fonte deve essere nata la convinzione che il confine fra vicariato annonario e vicariato suburbicario fosse continuamente segnato dal corso dei fiumi Esino –Arno. Da quello che mi risulta, cotesto catalogo, e la già ricordata sottoscrizione dei vescovi al concilio di Sardica, sarebbero le uniche ed abbastanza affidabili testimonianze antiche che, seppur non fissando con precisione il confine civile fra i due vicariati, ci dice che in alcuni periodi del IV secolo la Flaminia ha fatto parte del vicariato annonario. Nella Notitia Dignitatum si trova pure una notizia che potrebbe essere interessante per il nostro tema: il confine orientale della regione Emilia è segnato dal corso del fiume Idex, (Idice). Se questa ultima segnatura è esatta, Imola, Faenza, ed in tal caso anche Claterna, all’epoca del documento, si trovavano in Flaminia. Naturalmente vi sono delle testimonianze antiche che testimoniano l’appartenenza di Ravenna e della Flaminia in vicariato suburbicario, per esempio due rescritti imperiali, anni 364 e 365,( C.Th.IX.30, 1,3).
Esaminiamo anche gli altri cataloghi riportati da vari studiosi: il Latercolo di Polemio Silvio ed il Latercolo Veronese . Si tratta di due utili elenchi che testimoniano le provincie all’epoca esistenti, ma di nessuna utilità per il nostro tema, in quanto non riportano alcun confine.
Vediamo pure il cosiddetto Catalogo Madrileno e quello riportato dallo storico dei Longobardi Paolo Diacono. Si tratta di due elenchi perfettamente identici; uno deriva dall’altro, probabilmente il catalogo madrileno deriva dalla cronaca di Paolo Diacono, ma sono importanti in quanto riportano pure le città delle varie regioni. Ebbene, nell’elenco delle città dell’Emilia mettono pure Imola. La presenza di questa città ha sicuramente convinto alcuni studiosi che Imola all’epoca apparteneva alla regione Emilia e che conseguentemente il confine fra Flaminia ed Emilia doveva essere segnato o dal corso del fiume Santerno o da quello del Senio, perciò non dal Sillaro, ma, se guardiamo meglio questi due cataloghi troveremo qualcosa che ci fa rivedere questa convinzione: nell’elenco delle regioni in questi due cataloghi, e solo in questi due, compare la provincia delle Alpi Appennine. Non entriamo in merito all’esistenza o meno di questa enigmatica provincia, vero problema storiografico, che per trattarlo come si deve occorrerebbe scrivere un intero capitolo, non chiediamoci neanche, seppur sarebbe importante, sapere dove Paolo Diacono ha attinto le notizie riguardo a questa presunta provincia: dal catalogo interpolato di Polemio Silvio? Dalla quasi contemporanea Descriptio Orbis Romani di Giorgio Ciprio? Da una raffigurazione geografica andata perduta? Quello che qui interessa è di far presente che la dicitura Alpi Appennine compare solo in epoca bizantina, infatti, a parere di molti studiosi, non sarebbe altro che una linea difensiva creata dai Bizantini per arginare l'avanzata longobarda, perciò, questi due cataloghi non descrivono la situazione della fine del IV secolo, bensì una situazione di alcuni secoli successivi, conseguentemente le città ricordate, Imola compresa, riguardano semplicemente le città conquistate dai Longobardi.
Altro elenco di provincie; la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate.
Da questo elenco si apprende, anche se non fissa esattamente il confine, che la Flaminia, con le città di Imola e Faenza, qui detta Provincia Ravennatis,(IV,29) faceva parte del vicariato annonario. Ma questa cosmografia contiene un particolare inspiegabilmente trascurato dagli studiosi: questa opera, scritta nella seconda metà del settimo secolo a Ravenna, fu commissionata dalla curia arcivescovile ravennate e perciò non può non prestarsi a qualche riflessione. Come è noto, all’epoca dell’arcivescovo Mauro la chiesa ravennate riuscì a raggiungere la così detta autocefalia, cioè la indipendenza dalla chiesa romana, con tutta una serie di privilegi, alcuni dei quali sono documentati nella “epigrafe dei privilegi” esistente nella basilica di S. Apollinare in Classe, ma, è altrettanto noto che, per raggiungere tale scopo, la curia arcivescovile fece di “tutto”, compreso anche alcune “carte false”. Una di queste fu la Passio S. Apollinaris, allo scopo di dimostrare che la loro chiesa era di origine apostolica, cioè fondata nel primo secolo da un Apostolo, (18) Una altra “carta falsa” fu quello di far scrivere un diploma, il tristemente famoso “ diploma di Valentiniano III”, un elenco di chiese che, da tempi immemorabili, sarebbero state dipendenti alla chiesa ravennate. Sicuramente usarono la Passio Sactorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi et Ursicini(BHL3514)), per dimostrare che tale chiesa non era da meno di Milano, cioè che anche lei poteva vantare dei martiri;(19) buon ultimo, fu fatta scrivere la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate, il cui scopo era quello di dimostrare che la chiesa ravennate non dipendeva da Roma. Mi fa piacere aver constatato che il Mazzarino, commentando tale cosmografia, non escluda nemmeno lui la possibilità che fosse appositamente stata scritta per la “dignitas episcopalis ecc”(20), conseguentemente, anche il contenuto di questa cosmografia, in particolare il passo riguardante la posizione giurisdizionale di Ravenna, deve essere preso con le dovute cautele. Commentando questo capitolo, mi pare di poter dire che è praticamente impossibile determinare esattamente i confini civili dell’epoca basandosi esclusivamente sulle testimonianze antiche.

SITUAZIONE ECCLESIASTICA NEL IV SECOLO

Il quarto secolo è stato sicuramente uno dei secoli più importanti nella storia della chiesa. Varie sono le ragioni che lo hanno reso tanto importante: Costantino fa in modo che la religione cristiana diventi religione di stato, favorendo cosi la conseguente evangelizzazione di tutto il territorio, sia cittadino che rurale; praticano la loro attività pastorale i tre più grandi padri della chiesa,( S. Ambrogio, S. Gerolamo Sant’Agostino) e alcuni vescovi di eccezionale levatura (Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Ilario di Poitiers e Atanasio di Alessandria); vengono indetti due concili ecumenici (Nicea nel 325 e Costantinopoli nel 381) ed alcune centinaia di concili provinciali, alcuni dei quali ebbero vasta risonanza, come per esempio quelli di Arles (314), Sardica(344), Rimini (359). Non a caso nel corso di detti sinodi e concili sono state prese delle decisioni riguardo alla liturgia ed al primato papale, ancora oggi valide, e, importante per il nostro tema , in questo secolo vengono poste le basi per le future metropoli ecclesiastiche.
Anzitutto due parole sulla diffusione del cristianesimo: a parere degli studiosi, tre sarebbero le provenienze della religione cristiana verso le nostre terre.
A) Da Classe, favorito dalla presenza in loco del porto romano che metteva in comunicazione l’alto Adriatico ed il medio oriente.
B) Da Milano lungo la via Emilia.
C) Da Roma attraverso l’Umbria. A mio parere quest’ultima direttrice è quella che ha più interessato le nostre zone. Abbiamo già visto che dall’Umbria, lungo la valle Tiberina, sono arrivate nel territorio romagnolo varie popolazioni. Sarebbe strano se non fossero arrivati anche dei cristiani; infatti se diamo uno sguardo ai santi venerati in Romagna, constateremo che quella deve essere stata la provenienza privilegiata.
Essendo in tema evangelizzazione, mi pare opportuno toccare un aspetto riguardante il nostro tema, che potrebbe dare ottimi spunti per determinare la dipendenza di Imola e Faenza dalle chiese antiche, cioè la pratica liturgica in uso nei primi tempi in tali chiese. Purtroppo da questo aspetto, a prima vista promettente, non è possibile ricavare qualcosa di concreto, in quanto non si conosce esattamente la provenienza della liturgia siriaca, cioè la antichissima liturgia praticata in tutte le chiese dell’Italia settentrionale; infatti non è chiaro se sia arrivata da Milano, da Ravenna, oppure da Roma attraverso l’Umbria. Senza alcun dubbio la provenienza “siriaca” di moltissimi santi romagnoli farebbe pensare ad un arrivo da Roma,(21) ma il tema deve essere approfondito.
Pure meritevole di essere approfondito sarebbe il “problema” dell’arianesimo per vedere quanto ha inciso sui primi tempi del cristianesimo in Romagna. Si tratta di un tema scarsamente studiato, che potrebbe far luce su alcuni punti oscuri, in particolare riguardo alle numerose sedi vescovili emiliano romagnole per lunghi periodi sprovviste di vescovi. Ilario di Poitiers ci ha tramandato una lista di vescovi ariani che avevano partecipato al concilio riminese del 359,(22) non si può infatti escludere che alcuni di questi fossero romagnoli. Una ricerca sul periodo ariano riguardante questa zona potrebbe anche dare un risposta ad un importante interrogativo: chi era il metropolita ortodosso dell’Italia settentrionale? Vi sono buone ragioni per credere che fosse S. Eusebio di Vercelli.
Senza alcun dubbio l’eresia ariana fu l’eresia che più di altre ha fatto “soffrire” la chiesa nel corso della sua bimillenaria storia, si pensi solo alla situazione che si era venuta a creare riguardo alle sedi episcopali; durante il secolo IV, dalla seconda metà degli anni 50 alla prima metà degli anni 70, le sedi vescovili più importanti, compreso quelle di Milano e di Roma, erano occupate da vescovi ariani. Non molto dissimile era la situazione di quasi tutte le sedi vescovili italiane, infatti l’imperatore Costante fece in modo che ogni sede fosse occupata da vescovi fedeli all’arianesimo.
L’arianesimo fu un fenomeno molto complesso che non investi solo il clero, ma tutta la società civile. In ogni piccola o grande chiesa questa eresia aveva provocato grandi ed infinite discussioni; mentre attualmente nelle canoniche si discute di eutanasia, in quei tempi si discuteva della trinità; mentre oggi nelle botteghe si discute dei temi più disparati, a quei tempi si discuteva della incarnazione.
Entriamo ora nel tema centrale di questo scritto: la metropoli milanese con particolare riguardo al periodo ambrosiano.
Due parole su S. Ambrogio.
Vescovo di Milano dal 374 al 397, ma alla data della sua elezione era da quattro anni ”governatore” civile di alcune regioni fra cui l’Emilia. S. Ambrogio è giustamente considerato uno dei massimi padri della chiesa, la sua liturgia, l’ambrosiana, è in alcune chiese ancora oggi praticata, ed il contenuto delle sue opere è ancora oggi tenuto in grande considerazione. Il periodo “ambrosiano”, anche grazie ai numerosi suoi scritti, è uno dei periodi più conosciuti e dibattuti del tardo antico. Molti sono temi di questo periodo che meriterebbero di essere approfonditi, ma due sono quelli che interessano il nostro tema: l’esistenza o meno della metropoli milanese e la dipendenza di Imola e Faenza ha detta metropoli.
Si tratta di problemi di difficile soluzione, infatti un numero incredibile di studiosi italiani ed esteri ha trattato questi temi senza aver dato risposte soddisfacenti, questo però non significa che non se ne possa più parlare. Per comodità di esposizione il tema Metropoli milanese ho ritenuto opportuno dividerlo in due parti: il periodo pre ambrosiano ed il periodo ambrosiano. Vediamo che cosa è stato detto in proposito.

Metropoli pre ambrosiana.
A parere di alcuni cronisti settecenteschi ed ottocenteschi, la chiesa milanese sarebbe stata fondata da S. Barnaba, o da S Antalone, cioè da uno dei 72 discepoli di Cristo, conseguentemente tale chiesa sarebbe stata insignita del titolo di metropoli ecclesiastica, già dalla sua fondazione. Effettivamente, come già detto, le chiese che potevano vantare una origine apostolica o sub apostolica non erano soggette alla dipendenza papale, perciò anche se in antico non erano espressamente dette “metropoli”, avevano di fatto poteri metropolitici. Ma l’origine della chiesa milanese non risale a tale alta antichità: il suo primo vescovo, S Antalone, ha tenuto tale cattedra solo verso la fine del II secolo, se non addirittura all’inizio del III. L’errore, se cosi si può dire, commesso da questi eruditi fu quello di aver dato eccessivo credito ad una antica cronaca, il De situ civitatis Mediolani(23) opera di data incerta, meglio conosciuta come Datiana Historia, ed ad uno scritto di Paolo Diacono (24) il De Episcopis Mettersibus (VIII secolo) nelle quali effettivamente viene riportata la notizia che questi due discepoli sarebbero i fondatori di varie chiese, fra cui quella milanese. Sicuramente cotesti eruditi presero sul serio anche l’anonimo scrittore greco che verso il VI secolo stilò il catalogo dei 72 discepoli, e non si resero conto che questi scelse dalle sacre scritture dei nomi alla rinfusa, che ad ogni nome assegnò arbitrariamente una diocesi. Perciò tale antichissima presunta metropolanità, deve essere respinta senza esitazione.
Poco credibile è pure l’ipotesi che la chiesa milanese sia diventata metropoli al seguito della divisione civile dell’Italia al seguito della riforma voluta dall’imperatore Diocleziano avvenuta nel 297; siamo ancora nel periodo delle grandi persecuzioni! Sorprende non poco che vi sia ancora qualche studioso che crede a questa eventualità. Molti sono invece gli studiosi fermamente convinti che nei primi decenni del IV secolo la chiesa milanese fosse sicuramente metropolita. Questi portano come “prova” uno scritto di S. Atanasio. Questo santo, descrivendo le vicende del sinodo milanese del 355, fa presente che alcuni vescovi, a causa degli ariani, furono costretti all’esilio e riporta i loro nomi, fra gli altri Dionisio di Milano, Lucifero di Cagliari e Paolino di Treviri; ebbene, considerato che a questi tre vescovi S Atanasio aggiunge la dicitura Metropolis .(25), cotesti studiosi hanno pensato che si possa intendere “Metropoli Ecclesiastica”, mentre invece, come definitivamente accertato, sia Paolino di Treviri che Lucifero di Cagliari non erano all’epoca metropoliti ecclesiastici, conseguentemente per metropoli si deve intendere niente di meno che la istituzione civile.
Gli studiosi che hanno ritenuto Milano metropoli ecclesiastica anche prima del periodo ambrosiano, cercano di avvalorare la loro convinzione facendo presente che in vari concili i primi firmatari furono vescovi milanesi. Effettivamente chi firmava per primo, oppure per secondo dopo il Papa, poteva benissimo essere considerato un metropolita, ma dai documenti risulta che questa regola fu valida solo verso la fine del IV secolo. Perciò il constatare che nel corso del già ricordato concilio di Milano del 355, ove effettivamente Dionisio, vescovo di Milano, sarebbe stato il primo firmatario, non può essere una prova sicura che il vescovo milanese era metropolita, in quanto, nel già ricordato concilio di Sardica (343), Protasio di Milano pose la propria firma solo al sesto posto. Si tenga pure presente che a parere di vari studiosi, fino a tutto il IV secolo l’unico metropolita dell’occidente era il Papa.(26) Non mancano studiosi pure convinti che, quando Milano divenne capitale dell’impero romano(anno 286), diventasse automaticamente anche metropoli ecclesiastica. Tutto è possibile, ma quella non era una prassi automatica, infatti nel 402 pure Ravenna diventò capitale dell’impero romano, ma la sua chiesa diventò metropolita solo trent’anni dopo. Non esiste un solo documento che dimostri in modo inequivocabile che prima di Ambrogio la chiesa milanese abbia usufruito dei diritti metropolitici.

Periodo ambrosiano.
Vediamo anche qui come al riguardo si sono espressi gli studiosi. A parere di quasi tutti la situazione esistente in epoca ambrosiana sarebbe stata questa: Imola e Faenza in Emilia, la Emilia sotto la metropoli milanese e conseguentemente Imola e Faenza sotto la dipendenza ecclesiastica di S Ambrogio. Il confine fra la metropolitana ambrosiana e la metropolitana romana si sarebbe trovato fra Forlimpopoli e Forlì, perciò anche Forli sotto Milano. Nessun documento viene portato per dimostrare che quello era effettivamente il confine fra le due giurisdizioni, perciò devo pensare che la loro convinzione sia basata solamente sul fatto che, ritenendo civilmente “ milanesi” queste due città,(ma abbiamo già visto che al riguardo sussistono molti dubbi,) lo fossero anche ecclesiasticamente.
Vediamo quali sono le ragioni portate dagli studiosi per dimostrare la esistenza della istituzione metropolita durante l’episcopato di S. Ambrogio.
Due parole sul significato di metropoli ecclesiastica. Nonostante che al riguardo si continui ancora a discutere, in genere si intende che il compito del metropolita sia quello di consacrare i vescovi della sua giurisdizione, di indire sinodi e di svolgere attività pastorale su tutto il territorio di sua competenza. Un punto è particolarmente controverso: se l’autorità del metropolita era parziale(sopra di lui il Papa), oppure se l’autorità era totale, cioè nessuno sopra di lui. A mio parere, come vedremo più avanti, e a parere di pochi altri, l’autorità del metropolita milanese, ammesso che nel IV secolo tale metropoli fosse già stata istituita, sarebbe stata solamente” parziale.”
Le motivazioni o “prove” che vengono riportate dagli studiosi per dimostrare che in epoca ambrosiana già esisteva la istituzione metropolitana sono due, una lettera che S.Ambrogio avrebbe scritto alla chiesa di Vercelli, e la sua intensa attività pastorale.
Vorrei precisare che non tutti gli studiosi, che hanno trattato i problemi riguardanti la metropoli ambrosiana, hanno ritenuto opportuno motivare le ragioni per cui la ritengono esistente; infatti, per la stragrande maggioranza di loro, tale esistenza sarebbe un dato inconfutabile.
Approfondiamo le due “prove” sopra accennate per vederne l’attendibilità.
Lettera di S Ambrogio alla chiesa di Vercelli.(27)
Si tratta di una lettera senza data, l‘unico riferimento per datarla è che quando fu scritta la sede vescovile di Vercelli era vacante, perciò due sole possibili date: anni 370-372, se al seguito della morte del vescovo Eusebio; anno 396, se al seguito della morte del suo successore Limenio. Riguardo della data i pareri degli studiosi non sono convergenti, dopo profondi studi lo Schepens (28) l’avrebbe datata al 372, ma per la quasi totalità degli studiosi la data di tale lettera sarebbe il 396. Vediamo che cosa contiene questa lettera di tanto importante per essere riportata da tutti gli studiosi: sarebbe l’unica lettera ove S.Ambrogio ricorderebbe l’esistenza a suo tempo della metropoli milanese e ne darebbe addirittura i confini, perciò della massima importanza per il nostro tema, in quanto in nessun altro suo scritto S Ambrogio ha lasciato intendere di essere un metropolita. Vediamone il contenuto. S Ambrogio, se è lui che scrive, si lamenta col clero vercellese del fatto che da tempo la loro sede vescovile è mancante di vescovo e che a causa di tale mancanza non è stato possibile creare altri vescovi, con la grave conseguenza che tante altre chiese ne sono rimaste sprovviste. Molto probabilmente la chiesa di Vercelli era una “scuola” di vescovi. La lettera prosegue elencando le regioni ove vi erano le chiese senza vescovo: Liguria , Emilia, Venezie, e le regioni confinanti. Fra le regioni confinanti vi era pure la Flaminia.
Chiunque si rende conto della grande importanza che riveste il contenuto di questa lettera, ma esistono seri dubbi riguardo della sua effettiva paternità.
Nei primi anni 90, con due articoli, la professoressa Barbara Agosti ha sollevato molti dubbi sulla “ambrosianita” di tale lettera.(29) Varie sono le ragioni portate da questa studiosa: lettera stranamente firmata con la dicitura Servus Cristi, il cui significato sarebbe Monaco, perciò, precisa la studiosa, chi scrisse quella lettera non poteva essere S. Ambrogio, ma un vescovo di origine monacale, infatti non risulta da nessuna fonte che S Ambrogio abbia avuto tale origine(30): all’epoca di S Ambrogio vi erano in Lombardia altri religiosi di nome Ambrogio (31): un Ambrogio vescovo, un Ambrogio monaco ed un Ambrogio martire, che spesso furono confusi con S.Ambrogio.(32)
La Agosti continua facendo presente che non sarebbe S Ambrogio il vescovo Ambrogio ricordato in una iscrizione esistente nella Basilica Apostolorum, e che non sarebbe S Ambrogio, l’Ambrogio che sarebbe stato visto al funerale di S. Martino, anche perché S Ambrogio era morto da almeno 6 mesi; che tale lettera non può essere stata scritta da S. Ambrogio nel 372, cioè durante il periodo che la chiesa di Vercelli era vacante al seguito della morte di Eusebio, in quanto S. Ambrogio non era ancora stato eletto vescovo; che è poco credibile che S. Ambrogio l’abbia scritta nel 396, (chiesa vacante al seguito della morte di Limenio,) in quanto stranamente non ricorda questo ultimo vescovo, che come è scritto in un antichissimo calendario di Vercelli, sarebbe stato il vescovo che lo ha consacrato; che S.Ambrogio in occasione di tale lettera non si sarebbe recato personalmente a Vercelli in quanto gravemente ammalato, perciò, conclude la studiosa, anche la data del 396 crea forti dubbi sulla sua “ambrosianità”(33)
La Agosti ha il merito di aver sollevato seri dubbi su tale lettera, ma precisa che anche altri prima di lei si erano accorti che qualcosa al riguardo non “quadrava”; il biografo Paolino, non ritenne inopportuno mettere cotesta lettera fra quelle meritevoli di essere date alle stampe: probabilmente si era reso conto anche lui che non era di S.Ambrogio; pure i padri Maurini, monaci dell’ordine di S.Mauro, che nel sedicesimo secolo pubblicarono tutte le opere ambrosiane, sollevarono seri dubbi sulla paternità ambrosiana di tale lettera.(34)
Veramente, quando alcuni mesi fa lessi tale lettera, rimasi perplesso sul fatto che S Ambrogio si lamentava per la presenza di chiese vacanti, proprio Lui che aveva consacrato tanti vescovi! Notai la stranezza ma sorvolai; ora invece rileggendola, noto quanto siano interessanti e motivate le “perplessita” della Agosti. Sorprendentemente i contributi della Agosti non sono stati tenuti in considerazione dalla stragrande maggioranza degli studiosi moderni, pochi di loro infatti hanno ritenuto opportuno riportare in bibliografia detti scritti e farne un commento, vediamo quei pochi e come si sono pronunciati: il Savon (35) si limita a mettere in discussione la non impossibile ambrosianità del “servus Cristi”, il Visonà si limita a rimandare al Savon,(36) ed altrettanto si comportano la Lizzi (37) e la Ruggini(38). La Billanovich invece, da quello che mi risulta unica studiosa, nel corso di alcuni scritti(39), dà ragione alla Agosti. Il Savon, il Visona, la Lizzi e la Ruggini, non discutono tutte le perplessità della Agosti, in quanto pare che non abbiano conosciuto anche il secondo articolo di questa studiosa, un articolo invece conosciuto dalla Billanovich. Mi pare comunque impossibile che fra i tantissimi studiosi che si sono interessati del periodo ambrosiano, solo i sopra accennati abbiano conosciuto gli articoli della Agosti (40), penso piuttosto che non abbiano ritenuto sufficientemente valide le perplessità di questa studiosa, solo cosi si spiegherebbe la loro altrimenti inspiegabile “latitanza”, una latitanza grave, in quanto non avere tenuto conto delle affermazioni della Agosti, significa pure non aver tenuto conto anche dei pareri del Morigia, dei Maurini, di Paolino, dello Schepens, e della Billanovich. Nonostante “l’indifferenza” della stragrande maggioranza degli studiosi, mi pare che “l’ambrosianita” della lettera “ad Vercellensies” meriti di essere rivista.
Devo comunque prendere atto che, con sorpresa, nonostante le evidenti “perplessità”, si continui a riportare cotesta lettera come “prova” determinante per ritenere esistente la metropoli milanese durante il periodo ambrosiano.
Vediamo ora l ‘altra prova: l’intensa attività pastorale praticata da S.Ambrogio durante il suo pontificato.
Effettivamente S.Ambrogio ha svolto una intensa attività pastorale: consacrato vari vescovi, (Piacenza, Brescia, Aquileia, Ivrea, Novara ecc), ha indetto vari sinodi (381 Aquileia, 390 e 393 Milano, ha scritto un grande numero di lettere, è intervenuto in varie dispute. Senza alcun dubbio il comportamento di S. Ambrogio è stato il classico comportamento di un metropolita, ma, come è noto, questi ha svolto tale attività non solo nel presunto suo territorio metropolita, ma anche ben al di fuori della metropoli lombarda: elegge vescovi a Sirmio e Nicomedia, alcuni li depone, indice il sinodo di Capua, scrive lettere ovunque, si interessa ed interviene in problemi delle chiese in Gallia, Spagna, Africa, Siria, Grecia. Non poteva essere il metropolita di tutto il mondo! Non è possibile perciò delimitare l’area metropolita di S. Ambrogio tenendo conto dei luoghi ove questi ha svolto la sua attività pastorale; logica vuole che tutta questa attività, e la continua richiesta del suo intervento da parte dei vescovi di tutto il mondo, non dipendesse dal fatto di essere considerato metropolita, ma piuttosto fosse dovuta alla sua eccezionale personalità. Una constatazione, fatta presente da alcuni studiosi, è che molti si rivolgevano a S.Ambrogio in quanto i Papi dell’epoca erano “di scarsa levatura”.(41), conseguentemente la seppur eccezionale attività pastorale di S Ambrogio non può essere portata come prova di una certa validità per confermare l’esistenza in tale epoca della metropoli milanese.
Si tenga presente anche un particolare di una certa importanza: le regole riguardanti il comportamento dei metropoliti sono state dettate solo in occasione del concilio di Torino indetto negli anni 398- 400,(42) cioè alcuni anni dopo la morte di S Ambrogio. Altro particolare degno di nota: lo pseudo Decretum gelasianum (43) contiene una dichiarazione fatta “in un concilio tenuto sotto papa Damaso”,( sicuramente quello del 382), ove viene fatto presente che l’unico metropolita dell’occidente è il vescovo di Roma; tutti i vescovi occidentali presenti a tale sinodo, S. Ambrogio compreso, ratificarono il testo senza discutere e questo significa che S.Ambrogio sapeva benissimo di essere un vescovo che dipendeva dal Papa.
Da quello che mi risulta, due soli studiosi hanno chiaramente affermato che, a loro parere, all’epoca di S. Ambrogio non esisteva la metropoli milanese: uno è il Carli(44) e l’altro e il Cattaneo(45), ma le loro motivazioni non sono state tenute nella giusta considerazione.
Il compito del Carli e del Cattaneo è stato solo quello di discutere sulla esistenza della metropoli milanese, mentre il mio compito è anche quello di determinare la posizione ecclesiastica di Imola e Faenza, cioè se queste due città erano o non erano “suffraganee” di S Ambrogio, di conseguenza si è reso necessario da parte mia fare ulteriori indagini riguardo questo tema.
Si tenga presente che, siccome S.Ambrogio, prima di diventare vescovo di Milano, era stato civilmente governatore di un territorio comprendete anche la attuale Emilia, non si può escludere, anzi vi sono buone ragioni per credere, che una certa autorità l’abbia mantenuta anche ecclesiasticamente, ma a mio parere, una dipendenza non totale, ma parziale.
Già abbiamo accennato al parere degli studiosi riguardo questo tema,: Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, l’Emilia avrebbe fatto parte della metropolitana milanese, conseguentemente queste due città dipendevano da S. Ambrogio.
Perciò, secondo gli studiosi, nell’ultimo quarto del IV secolo, la chiesa milanese era metropoli, il metropolista era S. Ambrogio e le chiese Imola e Faenza sarebbero state sue suffraganee.
Devo purtroppo ripetere una cosa già detta: nessuno studioso, da quello che mi risulta, ha portato valide testimonianze atte ad avvalorare queste loro tanto radicate convinzioni, infatti si sono limitati ad affermarlo, come fosse una cosa scontata. Nonostante le puntigliose ricerche che ho effettuato, non ho trovato nessun indizio che confermi l’opinione degli studiosi, anzi ne ho trovato vari che invece fanno pensare diversamente. Eccone alcuni: nessun vescovo di Imola e di Faenza ha mai partecipato a sinodi indetti dal vescovo milanese; nessun vescovo di Imola e Faenza è stato consacrato da S Ambrogio o da altri metropoliti milanesi, nell’elenco che S. Ambrogio fa delle città esistenti sulla via Emilia,”semidirutarum urbium cadavera” (46) che per qualcuno era l’elenco delle città della sua giurisdizione, non sono elencate queste due città, infatti inizia da Claterna e finisce a Piacenza, S.Ambrogio non ricorda mai il martire imolese San Cassiano, a Faenza non è venerato nessun santo Ambrosiano, nell’imolese una solo chiesa è titolata a S Ambrogio, ma si sa che tale intitolazione non ha niente a che fare con la sua attività pastorale((47); infine si può aggiungere che S. Ambrogio non ha mai ricordato la Flaminia, mentre invece ha ricordato più volte la Emilia (48). Non vedo, considerati tutti questi “indizi” contrari, come si possa con una certa sicurezza affermare che Imola e Faenza erano suffraganee di S Ambrogio. Per quanto mi risulta sussistono seri dubbi anche al riguardo della presunta “metropolanità” di S.Ambrogio. A mio parere, (e qui concordo pienamente con i già citati Carli e Cattaneo,) ciò era dovuto solamente al suo prestigio personale e non ad una riconosciuta effettiva giuridica esistenza. Se effettivamente fosse esistita la giurisdizione metropolitica milanese, questa “supremazia” sarebbe stata ereditata anche dai successori di S. Ambrogio, invece questo, come sarebbe stato logico, non è accaduto; infatti, a parte Simpliciano, suo immediato successore, perciò “erede di scelte ambrosiane”, a cui ricorrono gli africani del concilio di Cartagine del 397, i vescovi della Gallia al concilio di Torino del 398 e i vescovi spagnoli del concilio di Toledo del 400, (concili di fatto indetti dall’ancor vivente S.Ambrogio,) tutti gli altri vescovi, ad iniziare da Venerio(401-411), erano vescovi senza alcuna autorità sugli altri colleghi.
Si tenga pure presente che il primo documento certo della effettiva metropolanità della chiesa milanese risale solo al 451.(49)
Non è una novità che alcuni vescovi occidentali, sia della Italia settentrionale che della Gallia, considerata la grande distanza da Roma, prendevano delle decisioni “metropolitiche”, anche senza essere investiti di tale autorità, costringendo vari papi a scrivere lettere ad alcuni vescovi facendo loro presente che questi, nel corso della loro azione pastorale avevano preso delle decisioni che andavano ben oltre quelle che erano le loro competenze; significative quelle scritte da Innocenzo I nel 404 al vescovo di Rouen, e quelle scritte nel 417 dal suo successore Zozimo(50,)che più o meno contengono le stesse lamentele, cioè che questi avevano palesemente trasgredito le direttive sinodali.
In verità due sono le “prove” che alcuni studiosi hanno portato per dimostrare che Faenza ed Imola erano sotto l’influenza ambrosiana. Vediamole:
A) per Faenza; anno 393, S Ambrogio alloggia per alcuni giorni in quella città,
B) per Imola; una lettera in cui S Ambrogio ricorda la chiesa imolese. Passiamo in rassegna queste due presumibili “prove”.
Permanenza di S Ambrogio a Faenza.
Nel 393 S. Ambrogio scappa da Milano in quanto sta per arrivare l’usurpatore Eugenio. Per alcuni giorni si ferma a Bologna, poi prosegue lungo la via Emilia forse intenzionato ad andare a Roma. Non è chiara la ragione per cui il santo si ferma pure a Faenza,(51) forse si tratta di una sosta forzata a causa del maltempo, ed è proprio durante il soggiorno faentino che riceve l’invito dei fiorentini perché vada nella loro città, ove resterà almeno un anno. Considerato che a Firenze S. Ambrogio resta molto tempo e considerato che Firenze non faceva parte della metropoli milanese, non si vede come una brevissima e forzata permanenza a Faenza possa essere considerata una ”prova” per dimostrare che questa città era sua suffraganea .

Lettera di S Ambrogio ove ricorda la chiesa Imolese.
Si tratta di una lettera di una certa importanza e che perciò merita una approfondita trattazione, infatti sarà trattata con un apposito capitolo.

LETTERA AL VESCOVO COSTANZO

L’anno 379 un vescovo di nome Costanzo, di non specificata sede, ma sicuramente vicina alla chiesa Imolese, riceve l’ invito da S. Ambrogio di visitare saltuariamente la chiesa di Imola, in quanto in quel momento sprovvista di vescovo.(52)
Moltissimi sono gli studiosi che hanno espresso il loro parere riguardo alla sede di questo Vescovo: chi dice Faenza chi dice Claterna. Non sono mancate anche ipotesi su altre sedi, ma giustamente accantonate in quanto troppo lontane da Imola. Pochi sono gli elementi sicuri che possono scaturire dalla lettura di questa lettera, ma uno è certo: la sede del vescovo Costanzo doveva dipendere, dipendenza totale o parziale, sicuramente dalla sede ambrosiana, infatti ben difficilmente S. Ambrogio si sarebbe rivolto ad un vescovo non suo suffraganeo per dargli simili direttive. Non si può affatto escludere che questo Costanzo fosse di scuola milanese, non a caso lo chiama “figlio mio”. Chiunque si rende conto perciò di quanto questa lettera sia importante per il tema che stiamo trattando; determinando con sicurezza la sede di questo Costanzo, avremmo un “punto fermo” riguardo alla estensione della giurisdizione ecclesiastica milanese. Approfondiamone perciò il contenuto.
L’interessamento di S. Ambrogio verso la chiesa imolese farebbe pensare che tale chiesa fosse sua suffraganea; questo è anche il parere della stragrande maggioranza degli studiosi, ma abbiamo già visto che S.Ambrogio, nel corso della sua azione pastorale, si è più volte interessato di tante chiese non sue, perciò, pur essendo un ottimo indizio, il semplice interessamento non può essere portato come prova sicura di “sua” chiesa, perciò occorrono altre prove, o altri indizi, ma , da quello che mi risulta, altre prove o altri indizi non esistono, mente invece esistono i validi “ indizi” già riportati, che mettono fortemente in dubbio la dipendenza di Imola e Faenza dal vescovo milanese. Mi rendo conto che questi ultimi indizi non sono sufficienti per negare con sicurezza matematica la non dipendenza ambrosiana di Imola, ma mi pare che sia ancor più difficile considerare Imola “ambrosiana” solo grazie al sopra detto interessamento. Vediamo ora di rispondere alla domanda “chiave” di questo capitolo: quale era la sede di questo Costanzo?
Abbiamo già detto quali sono i pareri degli studiosi: Faenza oppure Claterna. Vediamo quali sono le motivazioni che riportano questi studiosi per avvalorare le loro ipotesi. Per il Lanzoni la sede di questo Costanzo sarebbe Claterna, la “prova” sarebbe che Claterna sarebbe stata la città più vicina ad Imola.(53) Per il Lucchesi ed altri studiosi faentini,(54) la sede di Costanzo sarebbe stata Faenza, in quanto era invece questa la città più vicina ad Imola. Chiunque si rende conto della vistosa “debolezza “ di queste prove; l’appartenenza vescovile del vescovo Costanzo non può essere determinata tenendo conto solo della distanza di poche miglia. Il Lucchesi, aggiunge anche alcune motivazioni, che sembrano più consistenti; a suo parere la sede poteva essere solo Faenza, sia perché non esistono documenti che dichiarano Claterna diocesi sia ed in particolare in quanto è sua ferma convinzione che le chiese di Imola e di Faenza fossero suffraganee di S Ambrogio.(55). Per il Palanque(56), il Pasini (57), e pochissimi altri, la sede di Costanzo sarebbe Claterna. Questo significa che, almeno a loro parere, Claterna doveva all’epoca essere sede vescovile, ma, anche qui, cosa grave, non portano al riguardo testimonianze o motivazioni per tale dimostrazione. La mia considerazione al riguardo è questa: S.Ambrogio doveva obbligatoriamente rivolgersi ad un vescovo di una “sua” chiesa. Ebbene, siccome a mio parere la chiesa faentina, per i motivi già detti, non dipendeva dalla chiesa milanese, conseguentemente il Santo non ha potuto rivolgersi al vescovo di questa città, e ha dovuto rivolgersi ad altre chiese che si trovassero vicine ad Imola, ma che fossero sue suffraganee. Perciò Faenza non poteva essere la sede del vescovo Costanzo. Ma allora a quali chiese ha dovuto rivolgersi S.Ambrogio? Le uniche due chiese che avessero tali, a mio parere, indispensabili requisiti, erano Claterna e Bologna, perciò ad una di queste ha dovuto rivolgersi. Proporre anche Claterna come possibile sede del vescovo Costanzo comporta comunque la dimostrazione che tale città fosse sicuramente diocesi, cioè sede vescovile, purtroppo, che io sappia, non vi sono testimonianze antiche e sicure che lo provino. La mancanza di testimonianze documentarie che dimostrino Claterna sede vescovile, non può comunque essere una “prova” sicura che questa città non ha mai avuto un vescovo. Si tenga presente che Claterna, a differenza di tante altre città, fu distrutta molto presto, questa può essere una delle ragioni per cui con tale qualifica non è ricordata, come pure si deve tenere presente un altro importante particolare; tutte le città romane poste sulla via Emilia furono sedi vescovili, quindi sarebbe molto strano che solo Claterna non lo fosse stata.
Ma, pur, con tanti dubbi esistenti, sono personalmente convinto che Claterna fosse diocesi. Che cosa me lo fa pensare? Mi sono fatto una domanda: se a Claterna non vi era un Vescovo, e S.Ambrogio, come abbiamo visto, ha dovuto necessariamente dare ad un vescovo suo suffraganeo la cura di Imola, a quale altra chiesa vescovile avrebbe potuto rivolgersi? La risposta può essere una sola: Bologna, fra l’altro chiesa con vescovi che conosceva molto bene. Ma i fatti dicono che a Bologna non si e rivolto, infatti la lista episcopale bolognese non contiene nessun vescovo di nome Costanzo.(58 ) Queste semplici constatazioni sono per me una “prova” per poter dire che Claterna all’epoca non poteva non essere diocesi: perciò Claterna era sede del vescovo Costanzo.
Se questa mia ipotesi fosse valida, troverebbero la risposta anche due altri interrogativi: questo Costanzo sarebbe pure il destinatario di una altra lettera che S. Ambrogio scrisse successivamente ad un vescovo di tale nome,(59) come pure si avrebbe la certezza che il vescovo Costanzo, presente al sinodo milanese del 393 indetto da S Ambrogio, fosse effettivamente quello di Claterna.
Detto questo , ammesso che le motivazioni riportate abbiano una certa validità, dobbiamo dare una risposta ad una domanda: se veramente Imola non faceva parte della metropoli milanese, come si spiega l’interessamento di S.Ambrogio verso tale chiesa ? Non mi pare che per rispondere a questa pertinente domanda sia sufficiente far presente, come in altri casi, che S.Ambrogio si era già più volte interessato a chiese non sue. Pur prendendo atto che sarebbe pur sempre una “risposta”, cercherò di dare più credito a questa motivazione, facendo l’ennesima ipotesi. L’anno 378, cioè quello precedente alla lettera ambrosiana al vescovo Costanzo, come è noto, S. Ambrogio partecipa ad un sinodo romano, ove, fra gli scopi per cui fu indetto, vi era la necessità di discutere la situazione venutasi a creare al seguito della” crisi ariana”. Come è noto e come già detto, al seguito di detta crisi, a molte chiese dell’Italia settentrionale fu imposto, per ordine imperiale, un vescovo Ariano, ma, nonostante che da vari anni gli ortodossi avessero avuto il sopravvento sugli ariani, alcuni vescovi ariani, per esempio Urbano di Parma,(60) pur essendo stati scomunicati, continuavano a detenere le loro sedi, (La scomunica papale di un vescovo emiliano potrebbe fra l’altro essere una “prova” che almeno in quel periodo, il Papa era il metropolita di tutto l’occidente). Ebbene non si può escludere che anche ad Imola vi fosse stato un vescovo ariano e che, al seguito della scomunica papale, avesse abbandonato tale sede, ma che il clero imolese fosse in maggioranza di fede ariana. Questa non impossibile eventualità spiegherebbe la ragione dell’interessamento di S.Ambrogio verso la chiesa imolese. L’interessamento di S Ambrogio verso la chiesa imolese non sarebbe perciò nient’altro che un interessamento su delega papale; mi fa piacere constatare, che, seppur inascoltato, questo parere fu espresso nel 1787 anche dal Carli(61) Non a caso la lettera che S.Ambrogio scrisse a Costanzo era particolarmente incentrata sul problema degli ariani. Infatti nella citata lettera S Ambrogio si limita ad invitare Costanzo a visitare la chiesa di Imola affinché non sia stato eletto un vescovo, ma, attenzione, non dice che prossimamente verrà lui ad eleggerlo o a consacrarlo, non sembra affatto preoccupato per tale elezione: la sua preoccupazione sembra invece rivolta alla presenza in loco di Illirici di fede ariana.
D’altronde non sarebbe la prima volta che S. Ambrogio, seppur per finalità diversa, si interessa, al seguito di delega papale, ad una sede vescovile non facente parte della sua giurisdizione. Ciò era già accaduto nel 378, in occasione dell’elezione di Anemio vescovo di Sirmio(62). Non so fino a che punto questa ipotesi possa essere valida, ma, fra le ragioni per cui il famoso concilio di Rimini (359) ove gli ariani stravinsero, fu tenuto in quella città, può esserci che nella Flaminia le sedi vescovili erano tutte occupate dagli ariani, perciò poca meraviglia se anche la sede imolese era stata occupata da un vescovo ariano.
Termino con una avvertenza: nonostante che questi temi siano stati in passato affrontati da numerosissimi e qualificatissimi studiosi italiani ed esteri, nel corso di questo scritto ho detto molte cose diverse da quelle dette da loro, e fatto delle valutazioni che metterebbero in discussione cose che sembravano definitivamente accertate. Essendomi anch’io chiesto come questo sia potuto accadere, mi sono dato questa risposta: la evidente differenza di valutazione e di ipotesi fra li studiosi ed il sottoscritto è che gli studiosi diversamente dal sottoscritto non hanno tenuto conto della presenza in loco del confine segnato dal fiume Sillaro.
Già si è fatto un cenno ai confini che questo fiume ha segnato nel corso della storia, ma dando uno sguardo al suo corso, constateremo pure che è contrassegnato da tutta una serie di diversità: antropologiche, culturali, linguistiche, folkloristiche, pratiche e culture agricole, insediamenti abitativi,ecc. Si tratta di evidentissime diversità non riscontrabili negli altri fiumi emiliano-romagnoli e perciò difficilmente spiegabili, se non prendendo atto che in loco deve esserci stato un confine che nel corso dei secoli ha ininterrottamente tenuto diviso due diverse aree. Alla luce di queste constatazioni, ho potuto formulare ipotesi alternative.


Note
1 G. Sgubbi , Il Sillaro confine della Romagna, Faenza 2003.
2 G. Sgubbi G, Bibliografia Tardoantica, Faenza 2006.
3 Marziale, Epigrammi traduzione ”G. Ceronetti.” 1954
4 G. Susini, Storia e cultura nell’antico territorio lughese, in Storia di Lugo I Dalla preistoria alla età moderna, 1995, p. 86.
5 N. Alfieri , Alla ricerca della Flaminia “miior”, in Rend. Accad.Sc.Ist.Bologna 1975, pp. 51-67.
6 G. Susini, Sulla via Flaminia II , in “Studi antichi in memoria di F. Grosso” 1985, p. 603.
7 La Romagna nella stampa dal cinquecento all’ottocento, a cura di Sandra Faini e Luca Majoli Ravenna.1992,fig. 16
8 F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII. Faenza 1927, P.767.
9 Memorie della chiesa cattedrale di Imola, Imola, 2005, p.415.
10 G. Sgubbi , Il Senio l’antico Tiberiaco?Faenza 2002
11 G. Susini, Sulla via Flaminia II , cit. p. 604
12G. Tibiletti, L’amministrazione romana, in “Storia della Emilia-Romagna” a cura di Berselli 1975, p.144.
13 Eppure la Cracco Ruggini nella introduzione della sua opera Economia e società della Italia Annonaria Bari 1995 pag XXV ringrazia per i suggerimenti ricevuti sia il Susini che il Tibiletti, ma a quanto pare di tali suggerimenti non ne ha tenuto conto.
14 A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’impero in L’Italia Romana Bari 2004 p. 273
15G. Cipolla, Giurisdizione metropolitica della sede milanese nella regione X. In <Ambrosiana>, Milano, 1897, p. 71.
16 C.Violante, Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale nel medioevo 1986 p.32
17 A. Giardina, L’Italia Romana 2004 p. 274 .
18 Effettivamente se una chiesa poteva vantare una origine apostolica o sub apostolica, cioè fondata da un Apostolo oppure da un discepole di Cristo, poteva pretendere di essere completamente indipendente dalla chiesa romana, ma, come è stato ampiamente dimostrato, la fondazione della chiesa ravennate risale alla fine del II secolo se non addirittura all’inizio del terzo. Quelli che inventarono la detta Passio sapevano che il vescovo ravennate S. Severo aveva partecipato al concilio di Sardica (343) e perciò occorreva fare in modo che i predecessori di questo vescovo, per raggiungere il periodo apostolico, riempissero un periodo di quasi trecento anni; per far questo furono costretti ad usare due stratagemmi; inventarono qualche vescovo, per esempio san Procolo,( cifr G. Sgubbi, Un enigma di Pieve Ponte il titolare San Procolo, Faenza 2003 p. 6). e ad alcuni vescovi attribuirono pontificati incredibilmente lunghi: ( S. Severo anni 64 e S. Marcellino 50)
19 Particolarmente interessante questa Passione in quanto potrebbe essere stata scritta da un Ambrogio ravennate, perciò le notizie riportate potrebbero essere veritiere e permetterebbero di rivedere alcuni aspetti riguardanti i primi tempi della chiesa ravennate. Le indagini al riguardo potrebbero essere indirizzate verso un tema di una certa importanza: mi riferisco alla possibilità che i martiri Gervasio e Protasio corrispondano ai Dioscuri. Considerato che nel ravennate vi sono molte testimonianze riguardanti i due gemelli protagonisti della Saga Argonautica, e che all’epoca della Passio vi erano in loco molti pagani di origine orientali, non si può escludere che questa sia pure servita al clero ravennate per facilitare il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, perciò si tratta di un tema che ben si presta ad essere approfondito. Detto tema, all’inizio del secolo scorso, fu oggetto di un vivace dibattito, si veda al proposito: Rendel Harris. The Dioscuri in the Christian Legend. London 1903; Franchi De Cavalieri, I santi Gervasio e Protasio sono una imitazione di Castore e Polluce? In Nuovo Bollettino di Archeologia Cristiana 1903; H.Delehaye, Castor e Pollux dans les Legends Hagiographiques in Anal. Boll. 1904; P . Saintyenes, Les Saintes successeur des Dieux 1907, e recentemente G. Sgubbi Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica. Faenza 2006.
20 S.Mazzarino, Da Lollianus et Arbetio al mosaico storico di S Apollinare in Classe. In”Helikon” Messina 1965 pp56-57.
21G. Sgubbi, Un enigma di Pieve Ponte il titolare S. Procolo, cit, p. 3. Se diamo uno sguardo ai santi venerati in Umbria nei primi tempi del cristianesimo constateremo che alcuni di questi sono venerati anche in Romagna: S.Cassiano, S.Eustacchio, S.Valentino, S.Savino, ed alcuni si trovano pure nelle nostre liste episcopali; S.Apollinare, S.Procolo e S.Orso. Un particolare interessante che meriterebbe di essere approfondito riguarda il vescovo S.Orso; questi, vescovo ravennate che avrebbe tenuto tale cattedra dal 369 al 396, pur essendo sicuramente originario della Sicilia, deve necessariamente essere vissuto per un certo periodo anche in Umbria, in caso contrario difficilmente si spiegherebbe la ragione per cui la sua morte avvenuta il 13 aprile, fu annunziata 14 giorni prima, da un Giovanni, monaco di Spoleto, cifr G. Gregoire, Il monachesimo in Umbria in Ricerche sull’Umbria tardo Antica e Preromanica_ atti del II convegno di Studi Umbri Gubbio 1964 p. 268.
A parere della stragrande maggioranza degli studiosi la liturgia siriaca sarebbe arrivata nelle nostre zone grazie ad un tragitto marittimo, essi portano come “prova” l’arrivo di S.Apollinare a Classe, ma se diamo uno sguardo alla Passio S.Apollinaris , versione greca,(codice greco di S. Salvatore 29), tale opinione potrebbe essere riveduta: se è pur vero che quando il vicario chiese a S.Apollinare da dove era arrivato, questi rispose “Antiochia”,(cap XVI), perciò con un presumibile tragitto marittimo, è però anche vero che, quando il tribuno Tecla fece la stessa domanda al soldato Ireneo(cap IV) , questi rispose da “Roma”; questo significa che S. Apollinare sarebbe arrivato da Antiochia a Roma via mare, ma poi che il tragitto da Roma a Ravenna sarebbe stato effettuato via terra. La provenienza del cristianesimo in Romagna è già da parte mia fatto oggetto di ricerche, che ben presto saranno date alle stampe col titolo: La provenienza umbra del cristianesimo romagnolo. Quando iniziai queste ricerche ero fermamente convinto che una indagine al riguardo della pratica liturgica sarebbe stata utilissima per il mio tema, ebbene, devo ammettere la mia profonda delusione, nonostante le ricerche effettuate, non sono approdato a risultati di qualche consistenza, porto due esempi significativi riguardanti alcuni aspetti “liturgici”: nonostante che sia Ravenna che Gubbio non abbiamo mai dipeso dalla chiesa milanese, nelle loro chiese era praticata la liturgia ambrosiana. Ero pure convinto, ma anche qui sono rimasto deluso, che utili indizi avrebbero potuto scaturire al seguito di una ricerca sull’orientamento delle primitive cattedrali, purtroppo, forse a causa della penuria di dati archeologici, non ho trovato niente di concreto. QUA
22 Hilarius fragmenta historica VIII. 1. Restitutus, Gregorius, Honoratus, Arthemius, Iginus, Priscus, Primis, Taurinus, Lucius, Mustacius, Urbanus, Honoratus, Solutor.
A questo elenco potremmo aggiungere anche una lista di vescovi che all’epoca del Baronio si trovavano nell’archivio della chiesa di Vercelli: Cacilianus, Valens, Ursacius, Saturninus, Eutiminus, Junior, Proculus, Martinianus, Probus, Gregorius, Victor, Vitalianus, Gaius, Paulus, Germinius, Evagrius, Epittetus, Leontius, Olympius, Trophon, Dionisius, Acatius, Eustatius, Rotanus, Olimpius, Stratolalus, Florents, Quintilius, Caprens.
Come pure si può aggiungere anche una lista di vescovi riportati da S Atanasio:Probatius, Viator, Facundinos, Joseph, Numedius, Sperantius, Severus, Heraclianus, Faustinus, Antoninus, Heraclius, Vitalius, Felix, Crispinus, Paulianus. Anche in queste due liste vi possono essere dei vescovi romagnoli.
23 P. Tomea, Qualche riflessione sulla epistola “de Civitates Mediolani” in Aevum 1989.
24 Paolo Diacono . De Ordine Episcoporum Mettensium,. Mon Germ Hist. II p. 261
25 G.Villa, Fasti della metropoli e del metropolita Milano 1830 p. 12
26 E.Cattaneo, op. cit p. 472
27 Epist Ad vercellensis Maurini 63
28 P.Schepens, L’Ambosiastre et saint Eusèbe de Verceil in Recherches de Science Religeuse 37 (1950) p. 297.
29 B. Agosti, L’Epistola Ad Vercellensis di Ambrosius Servus Cristi in Rivista Cistercense 1990, pp 215-217. Idem Alcuni Ambrosi a Milano alla fine del IV secolo e la Basilica Apostolorum in Rivista Archeologica dell’Antica Provincia e Diocesi di Como 1991 pp 5-35
30 Che effettivamente S. Ambrogio non si firmava mai “Servus Cristi” lo si apprende dando uno sguardo alle passioni a lui falsamente attribuite, infatti la presenza del “Servus Cristi” in dette passioni, è stata la ragione principale per cui sono state successivamente considerate “Pseudo Ambrosiane”; Passio Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi Ursicini BHL 3514; Atti S.Agnese PL XVII 813 ; le due Passio SS. Vitale ed Agricola; BHL 8690 e 8692 ;ecc.
31P. Morigia, Historia dell’antichità di Milano 1592 p. 332
32 Biblioteca Sanctorum” voce” S. Ambrogio
33 B. Agosti, Epist Ad Vercellensis cit. p. 217
34 B. Agosti, idem p. 217.
35 H. Savon, Ambrosie de Milan Paris 1997 pp 326-329.
36 G. Visona, IlCristianesimo a Novara e sul territorio: le origini Novara 1999 pp 150.151
37Rita Lizzi Testa, Senatori, Popolo, e Papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani Bari 2004 p. 115.
38 Cracco Ruggini, Vercelli e Milano nessi politici e rapporti ecclesiali nel IV secolo in Eusebio di Vercelli ed il suo tempo 1997 Roma p. 100
39 M.P.Billanovich, L’Autore dei tituli Ambrosiani : S Ambrogio o un vescovo di Pavia? In Italia Medievale ed Umanistica 1993 p. 51: idem Le circoscrizioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale tra tarda antichità e l’alto medioevo in Italia Medievale ed Umanistica 1991 p.23.
40 Posso capire la ragione per cui questi studiosi non hanno conosciuto anche il secondo articolo della Agosti; effettivamente è stato pubblicato in una rivista di non grande diffusione, ma mi pare strano che non abbiano conosciuto neanche gli scritti della Billanovich.
41 “Figure di Papi scialbe” cifrG.R. Palanque, Le metropoli ecclesiastiche alla fine del IV secolo in Storia della chiesa di Fliche A e Martin V Torino 1940 p. 708
42 E.Cattaneo, Sant’Ambrogio e le costituzioni delle Provincie Ecclesiastiche dell’Italia settentrionale in Ravennatensia 1972 pp 467-484.
43 V. Grossi, Il Decreto Gelasianum. Nota in margine della chiesa di Roma alla fine del secolo V. in Augustinianum 2001, p. 241
44 G.R. Carli, Del diritto metropolitico della chiesa di Milano Milano 1786 pp 185-195.
45 E. Cattaneo, Sant’Ambrogio e le costituzioni cit. pag.
46 Epistola Maurini 39
47 La chiesa parrocchiale col patrono S.Ambrogio non è derivata dal fatto che tale territorio era di competenza milanese, ma che tale chiesa fu edificata da famiglie lombarde fuggite al seguito delle scorribande degli Unni (452)oppure dei Longobardi(568) cifrG,F, Cortini, Storia di Castel Del Rio Imola1933 p. 5.
48 Epistola 23 Maurini
49 E. Cattaneo, op. cit. p. 483
50 E. Cattaneo, op.cit. p.481
51Paulini , Vita S Ambrosii 27 in PL 14,38.
52 Epistola 2 maurini
53 F. Lanzoni, Op. cit.p.772
54 G Lucchesi, La diocesi di Faenza in scritti minori. Faenza. 1983. p. 85
55G,Lucchesi. Op. cit. p. 85. Il considerare “ sicuro” perciò senza il proverbiale dubbio, che Imola faceva parte della antica provincia ecclesiastica milanese, ha di fatto impedito una “serena” indagine riguardante i vescovi di tale città, infatti, nonostante che L’Ughelli (Italia Sacra t. II p. 623) abbia dichiarato che nell’anno 400 un Cornelio Imolese sarebbe stato consacrato dal Papa, nonostante che questo fosse pure il parere dell’Agnello Ravennate, M.Pierpaoli, Il libro di Andrea Agnello Ravenna 1988, p.72, e testimoniato pure dal Crisologo,(sermone 165), alcuni studiosi, fra cui il Lucchesi (Stato attuale degli studi sui santi dell’antica provincia ravennate, in Ravennatensia 1 Cesena 1969 pp 78-81), hanno contestato tale testimonianza con la semplice motivazione che <all’epoca ricordata dal Crisologo,( inizio V secolo) Imola era suffraganea di Milano, perciò eventuali suoi vescovi non potevano essere consacrati dal Papa.> Certe “sentenze”, frutto di convincimenti troppo radicati, lasciano perplessi.
56 G.R.Palanque, op. cit. p. 691.
57 S. Pasini, Ambrogio da Milano 1996 p. 203
58 F. Lanzoni, op. cit. p. 771
59 epistola 72 Maurini
60 F. Lanzoni, op. cit p. 807
61 G.R. Carli, op. cit. p. 236
62 G. Menis, Le giurisdizioni metropolitiche di Aquilea e Milano nella tarda antichità in AAAd 1973 p. 28

APPENDICE
Nel corso di una conferenza mi è stata rivolta una domanda: la constatazione dell’esistenza documentaria di un confine segnato dal corso del fiume Idice e la mancanza documentaria dell’esistenza di un confine segnato dal corso del fiume Sillaro, non è forse sufficiente per mettere in discussione i suoi radicati convincimenti?
Domanda legittima che merita una giustificazione.
L’inesistenza documentaria di un confine segnato dal fiume Sillaro. Se numerosissimi e qualificati studiosi, nonostante la mancanza di alcun documento, hanno ugualmente ritenuto opportuno “sentenziare” che detto confine si trovava ad Est di Forli, non vedo la ragione di non potere anch’io fare altrettanto, anzi, diversamente da questi studiosi, ho portato vari indizi che possono rafforzare tale ipotesi.
La mancanza di documenti antichi che ricordino un confine segnato dal Sillaro non può comunque significare che documenti del genere non siamo mai esistiti, possono esserci stati, ma andati tutti perduti. Esempio: se l’unico documento che ricorda un confine segnato dal corso del fiume Idice, fosse andato perduto, si sarebbe potuto affermare, ma erroneamente , che nessun confine era segnato dal corso dei fiumi.
Non si può inoltre escludere che all’epoca, per definire l’appartenenza giurisdizionale di una città, non venisse citato il confine territoriale della stessa, ma semplicemente l’appartenenza giurisdizionale delle autorità sia civili che ecclesiastiche, e questo spiegherebbe la ragione per cui vi è tanta penuria di documentazione riguardante tali confini.
Per quale ragione è ricordato un confine segnato dall’Idice?
Una ragione potrebbe esserci: come è noto in epoca romana il confine fra il territorio della città di Claterna e quello di Imola era segnato dal fiume Sillaro ed il confine col territorio di Bologna era segnato dal fiume Idice. Ebbene, al seguito della distruzione di detta città, e relativa scomparsa delle autorità sia civili che ecclesiastiche, si rese necessario aggregare il suo territorio a quello di una altra città confinante, perciò a quello di Imola oppure a quello di Bologna. Ebbene il citato documento fa ritenere che tale territorio sarebbe stato aggregato a quello di Imola e conseguentemente alla Flaminia. Questo significa che in tale periodo, il corso del fiume Idice segnava vari confini: il confine territoriale fra Imola e Bologna, il confine fra la ragione Flaminia e la regione Emilia (come riferito nella Notitia Dignitatum), il confine fra vicariato Annonario e vicariato Suburbicario e naturalmente il confine fra la metropoli ecclesiastica romana e la metropoli ecclesiastica milanese.
Al seguito di questa variazione territoriale può esserci stata la necessità, forse per ragioni amministrative, di designare esattamente il nuovo confine.
Si trattò sicuramente di un evento eccezionale e di breve durata, infatti successivamente il territorio di Claterna fu definitivamente incorporato al territorio bolognese e conseguentemente tutti i sopra citati confini ritornarono ad essere segnati dal corso del fiume Sillaro.
Solarolo 2006

GIUSEPPE SGUBBI VIA BORGO BENNOLI 30 48027 Solarolo (RAVENNA) ITALIA Tel 3479438906
JOSELFSGUBBUS@LIBERO.IT

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