domenica 3 febbraio 2019

pubblicato i Pallas Tolosa

GIUSEPPE SGUBBI


Note sulla giurisdizione civile ed ecclesiastica di Imola e Faenza in età romana

Introduzione

Questo lavoro ha come oggetto la determinazione dei confini di Imola e Faenza e della loro posizione giurisdizionale in età romana, un problema che è di fatto ancora aperto, anche se altri studiosi hanno creduto di averne proposto soluzioni definitive.
La disamina prende le mosse da una mia recente ricognizione sui confini fra l'Emilia e la Romagna (1). Nel corso della ricerca avevo notato che non esistevano lavori recenti relativi al periodo romano; il vuoto storiografico mi era apparso ingiustificabile, dal momento che testimonianze antiche dimostravano invece che l'argomento era stato oggetto di un vivace dibattito.
Ho creduto quindi opportuno contribuire a colmare la lacuna esaminando la situazione dei confini appunto in questo periodo, e in particolare nel IV secolo d.C., quando, in seguito alla riforma dell'imperatore Diocleziano (circa anno 397 d.C.), l'Italia si era trovata divisa in due Vicariati: Vicariato Annonario con capitale Milano, e Vicariato Suburbicario con capitale Roma, i quali amministravano le varie regioni (chiamate dai Romani provinciae) in cui già da almeno un secolo era articolata la penisola: fra queste, insieme alla Liguria, l'Emilia, il Piceno, la Campania ecc., c'era la Flaminia, il cui territorio corrispondeva più meno all'attuale Romagna.
Mi propongo pertanto i seguenti obiettivi:

  1. determinare il confine tra Emilia e Flaminia, e quindi l'appartenenza territoriale di Imola e Faenza;
  2. individuare l'ubicazione del confine tra Vicariato Annonario e Vicariato Suburbicario
  3. stabilire se le due città appartenevano al Vicariato Annonario

tenendo conto che nel corso del IV secolo accanto a questi confini civili esistevano anche alcuni confini ecclesiastici.

1. Il Sillaro, confine fra l'Emilia e la Flaminia


Data la scarsità, la frammentarietà e la contraddittorietà delle fonti, gli studiosi sono stati costretti a sopperire alle carenze del materiale documentario affidandosi a vari criteri di ricostruzione storica (2); per quanto mi riguarda, mi sono attenuto a un principio fondamentale, frutto di ripetute esperienze: un confine naturale, contrassegnato, fin da tempi remoti, dalla contrapposizione di diverse culture ed etnie, tende a rimanere inalterato nel corso del tempo, perché finisce per costituire uno schema radicato nella mente della popolazione.
Come ho avuto occasione di dimostrare nella mia pubblicazione sopra citata, alla quale rimando, fra Emilia e Flaminia esiste un unico confine con queste caratteristiche: il fiume Sillaro, che, rispetto alla precarietà dei confini segnati da altri fiumi romagnoli in epoca romana o medievale, ha tracciato nei millenni una linea di demarcazione costante.
Già solo come confine naturale il Sillaro non appare secondo a nessun fiume emiliano-romagnolo: infatti costituisce una precisa discriminante sia dal punto di vista geologico (per esempio, i gessi si trovano solo sulla sua riva destra) che da quello della fauna e della flora: un centinaio di specie di piante e di animali sono introvabili ad ovest del Sillaro.
Ma questo fiume rappresenta anche un confine antropologico e culturale: già in epoca preistorica demarcava i territori di popolazioni di varie etnie, come attesta la diversità di indice cefalico emersa dai risultati delle indagini antropologiche, e, successivamente, ha continuato ininterrottamente a segnare un limite preciso: dapprima ha diviso villanoviani romagnoli e villanoviani bolognesi, poi Galli ed Umbri, quindi ager imolese e ager claternate, territorio imolese e territorio bolognese, diocesi imolese e diocesi bolognese, Longobardia ed Esarcato, ducato di Persiceto ed Esarcato, ducati e signorie, Romagna ed Emilia.
Pertanto, data la costanza di questa sua funzione di demarcatore naturale e culturale, è plausibile ipotizzare che il Sillaro coincida con il confine tra Emilia e Flaminia, tra il Vicariato Annonario e quello Suburbicario, e con ogni altro eventuale confine presente nelle stesse zone.
Sulla base di queste e altre considerazioni, sono quindi giunto alla conclusione che Imola e Faenza, ubicate entrambe ad Est del Sillaro, appartengono alla Flaminia.
Mi propongo ora di dimostrare che in età romana Imola e Faenza non dipendevano da Milano.
2. Aemilia e Flaminia in età imperiale (dal I sec. a. C. al III sec. d.C.)
Esistevano di fatto in età imperiale due regioni denominate Aemilia e Flaminia, territorialmente corrispondenti alle regioni Emilia e Romagna?
Come è noto, dai primi tempi della Repubblica fino all’epoca di Augusto, il territorio corrispondente all'attuale regione Emilia-Romagna, pur essendo con vari nomi spesso ricordato, (Cispadana, Ager Boicus, Gallia Togata, Provincia Ariminum), non aveva confini ben definiti.
In seguito alla divisione in regioni voluta da Augusto, il territorio attualmente corrispondente alla regione emiliano- romagnola venne a costituire la regione VIII; il nome Aemilia le sarebbe stato assegnato nel corso del I secolo d.C., come alcuni sostengono sulla scorta dell'epigramma III, 4 di Marco Valerio Marziale, composto verso l' 88 d.C. mentre il poeta si trovava a Forum Corneli (Imola). Il passo è quello in cui il poeta licenzia il libro con il verso: “vai a Roma, mio libro; se donde tu venga ti chiedono, dalla regione dirai, che la via Emilia attraversa.” (3). In realtà però in questo passo il poeta afferma semplicemente di trovarsi in quel periodo in una regione - non dice quale - attraversata dalla via chiamata Emilia; e, anche a voler concedere al linguaggio poetico valenze polisemiche, un significato diverso attribuito al testo sembra a dir poco congetturale. Se Marziale fosse stato in una città dell'Umbria e avesse detto di trovarsi in una regione attraversata dalla Via Flaminia, avremmo forse dedotto che tutta quella regione si chiamava Flaminia? A questa stregua, anche la Toscana, attraversata dalla Via Claudia, dovrebbe chiamarsi Claudia; il che non è.
Altri passi di Marziale offrono però spunti più significativi, come nella commemorazione della morte di Rufo, un suo amico bolognese: “Lacrime versa o Bologna, orbata ahimè del tuo Rufo, e per tutta l’Emilia il cordoglio risuona.” ( VI 85, 6). L'accenno all'Emilia si ritrova nel saluto all'amico Domizio, in procinto di partire per un viaggio: “Tu per le terre dell’Emilia andrai“ (X 12,1).
In questi ultimi due epigrammi il nome Emilia potrebbe sottintendere il termine regione, ma non si può neanche escludere che sottintenda via. Insomma, in Marziale compaiono più volte la parola Emilia e la parola regione, ma non compare mai un'espressione inequivocabile come “la regione chiamata Emilia". Alla luce di queste note è piuttosto azzardato considerare i passi di Marziale come sicura testimonianza del fatto che già nel I secolo d.C. tutto l’attuale territorio della regione emiliano-romagnola era chiamato Emilia. Del resto un decennio prima Plinio il Vecchio (Hist. Nat. III 115), nella sua pur accurata descrizione della VIII regione Augustea (città, fiumi, ecc), omette di riferire che tale regione aveva preso il nome Emilia; data la sua acribia di storico, se così fosse stato non avrebbe certo mancato di ricordarlo.
Queste considerazioni portano a dedurre che in età romana la regione Aemilia non corrispondesse all'intero territorio dell'Emilia-Romagna. In realtà, quando appare per la prima volta il nome di una regione detta Aemilia, contemporaneamente appare anche una regione chiamata Flaminia; di conseguenza per Aemilia è legittimo intendere solamente il territorio da Bologna in su, e per Flaminia da Imola in giù. E' quindi opportuno cercar di datare con maggiore sicurezza la nascita delle due regioni denominate Emilia e Flaminia.
Nel corso del II secolo d.C., con ogni probabilità fra il 160 e il 170, le due regioni sono citate in alcune iscrizioni, in relazione a governatori di province o regioni; uno di questi magistrati verso il 166 governava Aemilia et Flaminia, (C.I.L.VIII, 5354), un altro governava Flaminia et Umbria (C.I.L. XI 377). Da queste iscrizioni si apprende che un'ampia zona era stata fatta oggetto di una divisione amministrativa che aveva determinato la nascita di alcune regioni fra cui l'Emilia e la Flaminia.
E' assai probabile che entrambe le regioni abbiano tratto la loro denominazione dalla via che le attraversava. Il Susini (4) è convinto che anticamente una via che convenzionalmente chiama Flaminia II proseguisse da Rimini verso il cuore della pianura, valicasse il Rubicone nei pressi del Compito, e raggiungesse Pisignano, San Pietro in Vincoli, San Pancrazio, Russi, Bagnacavallo, Lugo, Massa Lombarda ed il Delta Padano. Nereo Alfieri (5) attribuisce al console Flaminio la costruzione, nel 187 a.C., di una via Flaminia detta Flaminia minor, che da Arezzo, tenendo il crinale fra il Sillaro e l’Idice, arrivava a sud di Claterna. Per il Susini (6) questa Flaminia minor proseguiva il suo percorso verso il guado del Po di Primaro congiungendosi alla Flaminia II proveniente da Rimini. Nella carta geografica che il Coronelli diede alle stampe nel 1707 (7), appare chiaramente evidenziato il tracciato di una via chiamata Flaminia che, partendo poco a ovest di Imola, arriva al mare Adriatico. Peraltro anche qualche tratto romagnolo della via Emilia era detto Flaminia, come si deduce da un documento riportato dal Lanzoni (8) riguardante la città di Forlì (in liviensis ??? foris non longe per Flaminiam viam) e da alcune cronache imolesi del diciottesimo secolo (9). Da queste notizie si ricava che l'antica regione Flaminia era interessata dai vari percorsi di una strada chiamata Flaminia; e pertanto è plausibile che il nome della regione derivi da detta via. Non si può comunque neanche escludere che il nome Flaminia sia stato assegnato da popolazioni provenienti dalla valle Tiberina, poi trapiantate in Umbria e infine stanziatesi in Romagna in età romana e preromana, le quali, memori dell'antica origine, avrebbero fra l’altro attribuito al fiume Senio il nome Tiberiaco (10).
Come credo di aver dimostrato, il confine fra l'Emilia e la Flaminia era segnato dal corso del fiume Sillaro; questa tesi è condivisa da due autorevoli studiosi dell’epoca romana, Susini e Tibiletti (11). Il Susini, descrivendo il tracciato verso il mare della via Flaminia minor, afferma che si dirige verso il mare “quasi a costituire un autentico limes settentrionale della nascente Romagna" (12). Il Tibiletti, dopo aver elencato le divisioni amministrative di età imperiale, osserva: “E' singolare che il confine fra la nuova, ridotta Aemilia, e la Flaminia, richiami a grandi linee quella che dopo millenni e dopo le vicende bizantine, longobarde e medioevali, sarà la suddivisione fra la Romagna e i moderni ducati. Indubbiamente è mera casualità, almeno secondo lo stato della nostra conoscenza, tanto scarsa, delle più profonde leggi storico-geografiche.” (13). Questo significa perciò che, in seguito alla divisione amministrativa del 215, Faenza e Imola facevano già civilmente parte della Flaminia. Si tratta ora di vedere se tale situazione è rimasta tale e quale in età romana anche in tempi successivi.

3. Vicariato Annnonario e Vicariato Suburbicario

Come si è ricordato, in seguito a varie suddivisioni succedutesi nel corso del II e III secolo, in particolare quella dell’imperatore Diocleziano, l’Italia si trovò divisa in due Vicariati: Annonario, con capitale Milano, e Suburbicario, con capitale Roma. Non è chiaro se ai due Vicariati fossero preposti due Vicari o uno solo, o se ci fosse un solo Vicariato affidato a due Vicari; secondo alcuni studiosi (14) la Diocesi Italicana, così era chiamato il territorio italiano, era l’unica Diocesi dell’impero governata da due Vicari. Questo significa che ogni Vicario poteva, se necessario, per esempio in caso di carestia o per altre ragioni, sconfinare nel territorio dell'altro Vicario. Inoltre l'elezione di un nuovo Vicario spesso comportava un cambiamento giurisdizionale del territorio: infatti un Vicario di famiglia ricca poteva pretendere di governare su un territorio di maggiore estensione. Ci troviamo dunque di fronte a un confine labile, che mal si presta a precise definizioni.
In particolare, il territorio di cui ci stiamo occupando si trovò all'intersezione tra due confini: quello fra Vicariato Annonario e Suburbicario e quello fra Emilia e Flaminia.
E' quindi necessario individuare le regioni che costituivano il Vicariato Annonario.
Per quanto riguarda il IV secolo, la maggior parte degli studiosi (15) è concorde nell'assegnare sia l'Emilia, sia la Flaminia, e anche una parte del Piceno (le Marche), al Vicariato Annonario: perciò Imola e Faenza si sarebbero trovate nel Vicariato Annonario, cioè sotto Milano. Altri (16) sostengono invece che la Flaminia faceva parte della Suburbicaria. Per i primi il confine meridionale della Annonaria era molto più a Sud dell'Emilia-Romagna, su una linea che andava dall' Esino, fiume marchigiano, all’Arno, il fiume di Firenze; quelli che invece assegnano la Flaminia alla Suburbicaria collocano il confine della Flaminia con l’Emilia fra Forlì e Forlimpopoli; secondo questa ipotesi - peraltro non suffragata da testimonianze antiche - le città di Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, e quindi, anche in questo caso, sotto Milano.
Le testimonianze antiche su cui si fondano le due ipotesi sono alcuni cataloghi di province in cui la voce Italia sembrerebbe corrispondere al Vicariato Annonario. Così al Concilio di Sardica del 343 i vescovi firmatari si qualificarono in vari modi: quelli dell’Italia settentrionale, oltre alla loro sede, aggiungevano anche la voce Italia ( Protasio Milano Italia , Severo Ravenna Italia, ecc), mentre quelli dell' Italia centrale e meridionale aggiungevano al nome solo la provincia. La citazione Italia presente in questo documento sembra dimostrare che, a quella data, la regione Flaminia, la cui capitale era Ravenna, si trovava civilmente nel Vicariato Annonario. Altri documenti antichi lasciano intendere la stessa cosa.
Ma non mancano documenti, fra cui molti rescritti imperiali, come quelli elencati dal Giardina (17), in cui la voce Italia corrisponde indistintamente a qualsiasi parte del territorio italiano: dei 18 testi riportati, ben 12 applicano il termine a tutta la penisola, 3 sono dubbi, e solo 3 lo riferiscono al Vicariato Annonario. Di conseguenza non è possibile definire il confine civile fra il Vicariato Annonario e quello Suburbicario nel corso del IV secolo sull'unica base dei documenti antichi che riferiscono la voce Italia al primo.
Gli antichi cataloghi delle province presentano spunti interessanti, ma, come vedremo, non risolutivi. Intanto è bene precisare che nei testi di età romana per provincia si intende regione.
Si tratta di cataloghi scritti in varie epoche (dal IV all’VIII secolo), per lo più relativi alla situazione della seconda metà del IV, ma talora anche riferiti a situazioni molto più tarde.
Passiamo in rassegna gli elenchi di province più significativi iniziando dalla Notitia Dignitatum. Nell’elenco delle province descritte in questo catalogo, vengono ricordate, fra le altre, Flaminia et Picenum con l’aggiunta Annonaria, e, successivamente, il Piceno con l’aggiunta 'suburbicario'. Se ne dovrebbe dedurre che in un certo periodo la Flaminia e una parte del Piceno, e di conseguenza le città di Imola e Faenza, avrebbero fatto parte del Vicariato Annonario, sottoposto a Milano. Secondo alcuni la fonte non sarebbe affidabile, perché il catalogo era mancante di alcune pagine originarie, che sarebbero state interpolate arbitrariamente da uno studioso tedesco; tuttavia i più l'hanno ritenuta, nonostante tutto, attendibile e sulla base delle notizie riportate hanno ritenuto che il confine fra Vicariato Annonario e Vicariato Suburbicario fosse segnato dal corso dei fiumi Esino-Arno.
Da quanto mi risulta, questo catalogo e la già ricordata sottoscrizione dei vescovi al concilio di Sardica, sarebbero le uniche testimonianze antiche che, seppur non fornendo indicazioni precise sul confine civile fra i due Vicariati, lasciano arguire che in alcuni periodi del IV secolo la Flaminia abbia fatto parte del Vicariato Annonario.
La Notitia Dignitatum riporta una notizia utile alla nostra indagine: il confine orientale della regione Emilia è segnato dal corso del fiume Idex, "Idice". Se questo dato è esatto, Imola, Faenza, e anche Claterna, all’epoca del documento si trovavano in Flaminia.
Vi sono poi testimonianze antiche che attestano l’appartenenza di Ravenna e della Flaminia al Vicariato Suburbicario, per esempio due rescritti imperiali degli anni 364 e 365, (C.Th.IX.30, 1,3).
Il Latercolo di Polemio Silvio ed il Latercolo Veronese, due elenchi delle province all’epoca esistenti, citano le due province, ma non fanno riferimento ai confini.
Il cosiddetto Catalogo Madrileno, e quello di Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, sono due elenchi perfettamente identici, l'uno copia dell'altro: probabilmente il Catalogo Madrileno deriva dalla cronaca di Paolo Diacono. In essi sono menzionate anche le città delle varie regioni: e nell’elenco delle città dell’Emilia è riportata anche Imola. Questa informazione ha indotto alcuni ad assegnare senz'altro Imola all'Emilia e a ipotizzare di conseguenza che il confine fra Flaminia ed Emilia dovesse essere segnato o dal corso del fiume Santerno o da quello del Senio, e non dal Sillaro; ma altri dati contenuti nel testo rendono l'attribuzione problematica. Nell’elenco delle regioni in questi due cataloghi, e solo in questi due, compare la provincia delle Alpi Appennine. Non entriamo nel merito dell'esistenza di questa enigmatica provincia, su cui molto è stato scritto, e non chiediamoci neanche da dove Paolo Diacono abbia attinto notizie al riguardo: dal catalogo interpolato di Polemio Silvio? Dalla quasi contemporanea Descriptio Orbis Romani di Giorgio Ciprio? Da una raffigurazione geografica andata perduta? Quello che qui interessa è far presente che la dicitura Alpi Appennine compare solo in epoca bizantina: le Alpi Appennine non sarebbero altro che una linea difensiva creata dai bizantini per arginare l'avanzata longobarda. Se ne deduce che questi due cataloghi non descrivono la situazione della fine del IV secolo, bensì la situazione relativa ad alcuni secoli successivi. Di conseguenza le città ivi ricordate, Imola compresa, sono semplicemente quelle conquistate dai Longobardi.
La Cosmografia dell’Anonimo Ravennate è anch'essa un elenco di province, da cui si apprende che la Flaminia, qui detta Provincia Ravennatis (IV 29), con le città di Imola e Faenza, faceva parte del Vicariato Annonario.
Ma a questo proposito è necessario rilevare un particolare molto significativo: quest'opera, scritta nella seconda metà del settimo secolo a Ravenna, era stata commissionata dalla curia arcivescovile ravennate. Come è noto, all’epoca dell’arcivescovo Mauro la chiesa ravennate era riuscita a conquistare la cosiddetta autocefalia, cioè l'indipendenza dalla chiesa romana, e quindi tutta una serie di privilegi, alcuni dei quali sono documentati nella “epigrafe dei privilegi” depositata nella basilica di S. Apollinare in Classe. Per raggiungere tale scopo, la curia arcivescovile fece ricorso a mezzi di ogni tipo, non esclusa la falsificazione di documenti. Uno di questi fu la Passio Sancti Apollinaris, finalizzata a dimostrare che la chiesa di Ravenna era di origine apostolica, cioè fondata nel primo secolo direttamente da un Apostolo (18); un altro è il tristemente famoso “Diploma di Valentiniano III”, un elenco falso di chiese che da tempi immemorabili sarebbero state dipendenti alla chiesa ravennate. La Passio Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi et Ursicini (BHL3514) divenne lo strumento per dimostrare che questa chiesa non era da meno di Milano, dato che anch'essa poteva vantare dei martiri (19); e appunto alla categoria dei falsi appartiene anche la Cosmografia dell’Anonimo Ravennate, elaborata per dimostrare che la chiesa ravennate non dipendeva da Roma.
Non si può dunque escludere che la compilazione fosse stata stilata con spirito capzioso. Anche il Mazzarino, commentando il documento, non esclude la possibilità che fosse stato scritto appositamente per la “dignitas episcopalis ecc.” (20), il che inficia la credibilità del testo.
Da questa breve scorsa delle fonti è lecito dedurre che il supporto delle testimonianze antiche non è sufficiente a determinare con esattezza i confini civili nel IV secolo.
E' quindi opportuno cercar di ottenere altre indicazioni dal confronto con le fonti ecclesiastiche.

4. La Chiesa nel IV secolo

Per una serie di eventi il IV secolo fu uno dei più importanti nella storia della chiesa: Costantino conferiva alla religione cristiana il rango di religione di stato, favorendo così l'evangelizzazione di tutto il territorio, sia cittadino che rurale; nello stesso secolo svolgevano la loro attività pastorale i tre più grandi padri della chiesa ( S. Ambrogio, S. Gerolamo e Sant’Agostino) e alcuni vescovi di eccezionale levatura (Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Ilario di Poitiers e Atanasio di Alessandria); venivano indetti due concili ecumenici (Nicea nel 325 e Costantinopoli nel 381) ed alcune centinaia di concili provinciali, alcuni dei quali destinati ad avere vasta risonanza, come quelli di Arles (314), Sardica (344), Rimini (359). Non a caso nel corso di detti sinodi e concili furono prese decisioni determinanti, e valide ancor oggi, in merito alla liturgia e al primato papale; e, per quanto riguarda specificamente la nostra indagine, in questo secolo venivano poste le basi per le future metropoli ecclesiastiche.
E' forse opportuno qualche cenno sulla diffusione del cristianesimo: a parere degli studiosi, i punti di irradiazione di questa religione verso l'Emilia-Romagna furono fondamentalmente tre: da Classe, grazie anche al porto romano che metteva in comunicazione l’alto Adriatico con le terre del Medio Oriente; da Milano lungo la via Emilia; da Roma attraverso l’Umbria.
E' probabile che quest’ultima direttiva sia stata prevalente, dato che, come si è già osservato, l'Umbria si è sempre rivelata la via di transito abituale per varie popolazioni provenienti dal Lazio; e del resto a questa origine riconducono i santi venerati in Romagna.
Sempre in tema di evangelizzazione, sarebbe utile alla nostra ricerca stabilire la provenienza della liturgia "siriaca", cioè l'antichissima liturgia praticata in tutte le chiese dell’Italia settentrionale; anche in questo caso ne sono rimaste tracce in Romagna nel culto dei santi, ma non è chiaro se sia arrivata da Milano, da Ravenna, oppure da Roma attraverso l’Umbria (21) ma l'argomento esula dai limiti di questa trattazione.
Anche l'incidenza e la diffusione dell'arianesimo potrebbe aiutare a far luce su alcuni punti controversi, in particolare riguardo alle numerose sedi vescovili emiliano-romagnole per lunghi periodi sprovviste di vescovi. Ilario di Poitiers ha tramandato una lista di vescovi ariani che avevano partecipato al concilio riminese del 359 (22): non si può infatti escludere che alcuni di questi fossero romagnoli. Una conoscenza più approfondita su questo punto consentirebbe anche di individuare l'identità del metropolita ortodosso dell’Italia settentrionale, forse S. Eusebio di Vercelli.
Senza dubbio l'eresia ariana fu una delle più diffuse nel corso della bimillenaria storia della chiesa, come attesta la situazione che si era venuta a creare ad opera dell'imperatore Costante, che aveva insediato vescovi ariani in ogni sede episcopale. Così durante il secolo IV, dalla seconda metà degli anni 50 alla prima metà degli anni 70, anche le sedi più importanti, comprese quelle di Milano e di Roma, erano occupate da vescovi ariani.

5. Milano metropoli?

Tralasciando altre considerazioni sull'argomento, passiamo a considerare uno dei punti centrali di questa ricerca, cioè la metropoli milanese, con particolare riguardo al periodo ambrosiano.
Intanto è opportuno precisare le prerogative delle metropoli ecclesiastiche. Nonostante qualche parere discorde, in generale si assume che al metropolita spettasse il compito di consacrare i vescovi della sua giurisdizione, di indire sinodi e di svolgere attività pastorale su tutto il territorio di sua competenza. Un punto resta controverso: se l’autorità del metropolita fosse parziale (sopra di lui il Papa), o totale, cioè nessuno sopra di lui.
Con questa premessa, prendiamo in esame l’episcopato di S. Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397, ma alla data della sua elezione già da quattro anni governatore civile di alcune regioni, fra cui l’Emilia. S. Ambrogio è giustamente ritenuto uno dei massimi Padri della Chiesa, tanto che quello del suo apostolato è definito "periodo ambrosiano"; la liturgia ambrosiana è del resto tuttora vigente nel territorio milanese, e le sue opere sono ancora apprezzate. Fra i molti interrogativi di questo periodo che meritano indagini più approfondite, due in particolare interessano il nostro discorso: lo statuto di metropoli attribuito a Milano e la dipendenza di Imola e Faenza da detta, per ora ipotetica, metropoli.
Questi problemi, a lungo e variamente dibattuti, non hanno ancora trovato una soluzione definitiva; con questo breve excursus ci proponiamo almeno di delinearne i termini.
Per comodità di esposizione la trattazione dell'argomento è stata divisa in due parti, relative ai periodi preambrosiano e ambrosiano.

a) periodo preambrosiano
A parere di alcuni cronisti settecenteschi ed ottocenteschi, la Chiesa milanese sarebbe stata fondata nel I sec. dopo Cristo da S. Barnaba, o da S Antalone, cioè da uno dei 72 discepoli di Gesù; di conseguenza sarebbe stata insignita dal titolo di metropoli già dal momento della sua fondazione. Infatti, come si è già ricordato, le chiese che potevano vantare un'origine apostolica o sub-apostolica non erano soggette alla dipendenza dal papa, perciò, anche se in antico non erano espressamente chiamate ‘metropoli’, avevano di fatto poteri metropolitici.
Ma in realtà l’origine della chiesa milanese non risale a tempi così antichi. Il suo primo vescovo, S. Antalone, aveva occupato la cattedra solo verso la fine del II secolo, se non addirittura all’inizio del III. L’errore è dovuto a una antica cronaca, il De situ civitatis Mediolani (23), un'opera di data incerta, meglio conosciuta come Datiana Historia, e ad uno scritto di Paolo Diacono (24), il De Episcopis Mettersibus (VIII sec.) in cui effettivamente viene riportata la notizia che questi due discepoli sarebbero i fondatori di varie chiese, fra cui quella milanese. Ad aumentare la confusione contribuì anche l’anonimo scrittore greco che verso il VI secolo stilò il catalogo dei 72 discepoli, che egli scelse alla rinfusa dalle Sacre Scritture, attribuendo a ciascuno arbitrariamente una diocesi. Perciò l'antichità attribuita allo statuto metropolitico di Milano è senz'altro priva di sicuro fondamento.
Poco credibile è pure l’ipotesi che la Chiesa milanese sia diventata metropoli successivamente alla divisione civile dell’Italia in seguito alla riforma dell’imperatore Diocleziano, avvenuta nel 297: è ancora il periodo delle grandi persecuzioni, e un evento del genere appare del tutto improbabile.
Del pari poco plausibile è l'eventualità che la Chiesa milanese fosse metropoli.nei primi decenni del IV secolo. Lo attesterebbe uno scritto di S. Atanasio, che descrive le vicende del sinodo milanese del 355. Da lui si apprende che, a causa degli ariani, erano stati costretti all’esilio alcuni vescovi, che egli cita per nome: fra gli altri, Dionisio di Milano, Lucifero di Cagliari e Paolino di Treviri. E poiché al nome di questi tre vescovi S Atanasio aggiunge la dicitura Metropolis (25), alcuni studiosi hanno proposto di intendere “Metropoli Ecclesastica”; ma in realtà, come è stato definitivamente accertato, sia Paolino di Treviri che Lucifero di Cagliari non erano all’epoca metropoliti ecclesiastici, e, di conseguenza, per 'metropoli' non si deve intendere niente di più che l'istituzione civile.Gli studiosi che considerano Milano metropoli ecclesiastica anche prima del periodo ambrosiano, fondano la loro ipotesi sul fatto che in vari concili i primi firmatari furono vescovi milanesi. Effettivamente chi firmava per primo, oppure per secondo dopo il Papa, poteva essere considerato un metropolita; ma dai documenti risulta che questa regola fu valida solo verso la fine del IV secolo. Perciò se è vero che nel già ricordato Concilio di Milano del 355 il primo firmatario fu di fatto il vescovo di Milano Dionisio, è anche vero che nel Concilio di Sardica del 343 la firma di Protasio di Milano figura solo al sesto posto.
E del resto fino a tutto il IV secolo l’unico metropolita dell’occidente era considerato il Papa (26). Non mancano studiosi convinti che quando Milano divenne capitale dell’impero romano nel 286, acquisì ipso facto anche lo statuto di metropoli ecclesiastica. Non ci sono prove che dimostrino il contrario, ma certo non si trattava di una promozione automatica: infatti nel 402 anche Ravenna diventò capitale dell’impero romano, ma la sua Chiesa diventò metropoli solo trent’anni dopo.
Non esiste in realtà un solo documento che dimostri in modo inequivocabile che prima di Ambrogio la Chiesa milanese abbia usufruito dei diritti metropolitici.
Di fatto, il primo documento certo di Milano metropoli risale solo al 451 (27).

b) periodo ambrosiano.
Anche se per molti lo statuto di metropoli attribuito a Milano sotto Ambrogio appare una realtà indiscutibile, di fatto si tratta solo di un’ipotesi, fondata in sostanza su due elementi: una lettera che il santo avrebbe scritto alla chiesa di Vercelli, e la sua intensa attività pastorale.
La Lettera di S Ambrogio alla Chiesa di Vercelli (28) è una missiva senza data; l‘unico elemento indicativo in tal senso è il fatto che quando fu scritta la sede vescovile di Vercelli era vacante, perciò le date possibili sono due: fra il 370 e il 372, se fu inviata in seguito alla morte del vescovo Eusebio; nel 396, se in seguito alla morte del suo successore Limenio. Sull’argomento le ipotesi sono discordi: i più si esprimono a favore del 396, mentre lo Schepens (29), dopo approfondito esame, la colloca nel 372.
L’importanza del documento consiste nel fatto che si tratterebbe dell’unica lettera in cui Ambrogio fa menzione della metropoli milanese e ne definisce addirittura i confini. Infatti S Ambrogio, sempre che ne sia veramente l’autore, si lamenta con il clero vercellese del fatto che da tempo la sede vescovile di Vercelli è vacante, e che a causa di ciò non è stato possibile creare altri vescovi, con la grave conseguenza che molte altre chiese ne sono rimaste prive. Se ne può arguire che la chiesa di Vercelli era una “scuola” di vescovi. La lettera prosegue elencando le regioni in cui le chiese erano senza vescovo: Liguria, Emilia, Venezie, e le regioni confinanti. Fra le regioni confinanti vi era pure la Flaminia.
E’ evidente l’importanza di questi dati ai fini della nostra ricerca; ma esistono seri dubbi in merito all’autenticità del documento. Nei primi anni 90, in due articoli, Barbara Agosti ha infatti sollevato molti dubbi sulla “ambrosianita” di tale lettera (30). Varie sono le ragioni avanzate dalla studiosa: la lettera è stranamente firmata con la dicitura Servus Cristi, definizione con cui si designava un monaco, e pertanto un vescovo di origine monacale, il che escluderebbe S. Ambrogio, che monaco non era mai stato (31). Inoltre ai tempi di S. Ambrogio vi erano in Lombardia altri religiosi di nome Ambrogio: un Ambrogio vescovo, un Ambrogio monaco ed un Ambrogio martire, che spesso furono confusi con il vescovo di Milano (32). La Agosti aggiunge alla lista degli omonimi un vescovo Ambrogio, ricordato in una iscrizione della Basilica Apostolorum, e l’Ambrogio che partecipò al funerale di S. Martino, quando S. Ambrogio era morto da almeno 6 mesi. Quanto alla lettera alla Chiesa di Vercelli la studiosa nega che S. Ambrogio ne sia l'autore in base alle seguenti considerazioni: S. Ambrogio non può averla scritta nel 372, cioè durante il periodo in cui la chiesa di Vercelli era vacante dopo la morte di Eusebio, in quanto allora S. Ambrogio non era ancora stato eletto vescovo; e neppure nel 396, quando la cattedra episcopale era vacante in seguito alla morte di Limenio, in quanto S.Ambrogio non fa menzione di questo vescovo: eppure, come attesta un antico calendario di Vercelli, sarebbe stato quello che lo aveva consacrato. Per di più era impossibile per S. Ambrogio recarsi personalmente a Vercelli in quel periodo, perché era gravemente ammalato. Perciò anche la data del 396 appare inattendibile (33).
La Agosti, come lei stessa riconosce, non è stata la prima a rilevare incongruenze nell'attribuzione della paternità della lettera; cita infatti il biografo Paolino, che non ritenne opportuno inserirla fra quelle meritevoli di essere date alle stampe, e i padri Maurini, monaci dell’ordine di S.Mauro, che nel sedicesimo secolo pubblicarono tutte le opere di S. Ambrogio, ma sollevarono seri dubbi sulla paternità ambrosiana di tale lettera (34).
Condivide l'ipotesi della Agosti la Billanovich (35); ne prende atto con qualche perplessità il Savon (36), che però non tiene conto del secondo articolo della Agosti e si limita a mettere in discussione la non impossibile ambrosianità del “servus Cristi”. Al Savon rimandano Visonà (37), Lizzi (38) e Ruggini (39).
Anche se l'argomento non è stato oggetto di un più vasto dibattito (40), resta il fatto che l'attribuzione a S. Ambrogio della lettera ad Vercellensis non è più così pacifica; e di conseguenza non può essere assunta come prova del carattere metropolitico di Milano nel periodo ambrosiano.
L'altro argomento a favore di questa ipotesi è, come si è detto, l’intensa attività pastorale di S.Ambrogio durante il suo episcopato.
Di fatto il vescovo svolse attività infaticabile: consacrò vescovi, (Piacenza, Brescia, Aquilea, Ivrea, Novara ecc), indisse sinodi (381 ad Aquilea, 390 e 393 a Milano), scrisse un vasto epistolario, intervenne in varie dispute. Senza alcun dubbio quella di S. Ambrogio fu l'attività di pertinenza di un metropolita; ma c'è da notare che il suo raggio di azione si estese ben al di fuori dei confini della presunta metropoli lombarda: elesse vescovi a Nicomedia, altri ne depose, indisse il sinodo di Capua, scrisse ovunque missive, intervenne a dirimere conflitti in materia di religione, dottrina e liturgia nelle chiese di Gallia, Spagna, Africa, Siria, Grecia. E' evidente allora che il prestigio di S. Ambrogio non derivava dalla sua posizione nella gerarchia ecclesiastica, ma dalla sua eccezionale personalità, che giganteggiava nella generale mediocrità dell'epoca: per questo, come alcuni hanno osservato, molti si rivolgevano a S.Ambrogio non in quanto metropolita, ma in virtù delle sue straordinarie doti, dal momento che i Papi dell’epoca sarebbero stati “di scarsa levatura(41).
Se poi fosse realmente esistita una giurisdizione metropolitica milanese, questa prerogativa sarebbe stata ereditata anche dai successori di S. Ambrogio, cosa che invece non è accaduta: infatti a parte Simpliciano, suo immediato successore, e quindi erede diretto delle sue iniziative e del suo prestigio, il quale ebbe influenza internazionale (42), tutti gli altri vescovi, ad iniziare da Venerio (401-411), erano privi di qualsiasi autorità sugli altri colleghi.
E, in ogni caso, il primo documento certo del carattere metropolitico della chiesa milanese risale solo al 451 (43).
Tenendo conto di questi elementi, appare improbabile che all'epoca di S. Ambrogio Milano fosse metropoli; e su questo concordano anche il Carli (44) e il Cattaneo (45).


6. Posizione ecclesiastica di Imola e Faenza

Resta ora da definire, sulla base di questi dati, quale fosse la posizione ecclesiastica di Imola e Faenza, cioè se queste due città erano o non erano suffraganee di S. Ambrogio.
Dalle riflessioni fin qui esposte risulta per lo meno opinabile l'ipotesi da altri sostenuta che nell'ultimo quarto del IV secolo la Chiesa di Milano fosse metropoli, che S. Ambrogio fosse il vescovo metropolita, che l'Emilia facesse parte di tale presunta metropoli, e che Imola e Faenza si trovassero in territorio emiliano; resta da vedere se, per qualche altro aspetto, dipendevano da S. Ambrogio.
Ci sono vari fatti che lasciano supporre il contrario. Per non citarne che alcuni, nessun vescovo di Imola e di Faenza partecipò mai ai sinodi indetti dal vescovo milanese; nessun vescovo di Imola e Faenza fu consacrato da S Ambrogio o da altri metropoliti milanesi; e nell’elenco, compilato da S. Ambrogio, delle città esistenti sulla via Emilia,”semidirutarum urbium cadavera” (46), che alcuni considerano l’elenco delle città della sua giurisdizione, non figurano né Imola né Faenza (infatti l'elenco inizia da Claterna e finisce a Piacenza); S.Ambrogio non ricorda mai il martire imolese San Cassiano; a Faenza non è venerato nessun santo ambrosiano; nell’imolese una solo chiesa è titolata a S Ambrogio, ma si sa che tale titolazione non ha niente a che fare con la sua attività pastorale (47); e, infine, S. Ambrogio non ha mai fatto menzione della Flaminia, mentre ha ricordato più volte l'Emilia (48).
In base a questi dati, l'attribuzione a Imola e Faenza dello statuto di suffraganee di S. Ambrogio mi sembra discutibile
Peraltro, chi sostiene la tesi della dipendenza delle due città dalla Chiesa ambrosiana dispone di dati scarsi e scarsamente probanti, che in sostanza si riducono a due: nel 393 S. Ambrogio soggiornò per alcuni giorni a Faenza, e, quanto alla chiesa di Imola, S. Ambrogio ne fa menzione in una lettera.
Il primo evento si verificò nel 393, quando S. Ambrogio fu costretto a fuggire da Milano dove stava per arrivare l’usurpatore Eugenio. Per alcuni giorni si fermò a Bologna, poi proseguì lungo la via Emilia, forse con l'intenzione di andare a Roma, e infine si trattenne per un breve periodo a Faenza (49). I motivi non sono noti: forse si trattò di una sosta forzata a causa del maltempo. Non mi sembra però che da questo si possa dedurre che Faenza dipendeva dalla metropoli di Milano; infatti nel corso della stessa trasferta S. Ambrogio si trattenne per almeno un anno a Firenze, che certamente non faceva parte della metropoli milanese.
Quanto alla lettera in cui è menzionata la Chiesa imolese, si tratta di un documento ricco di spunti e di implicazioni, che pertanto merita una trattazione più approfondita.

7. Lettera di S. Ambrogio al vescovo Costanzo.

Nell'anno 379, un vescovo di nome Costanzo, di sede non specificata, ma sicuramente vicina alla chiesa Imolese, ricevette da S. Ambrogio l’invito a visitare saltuariamente la chiesa di Imola, in quanto in quel momento sprovvista di vescovo (50). E' opinione condivisa che l'attenzione di S. Ambrogio verso la chiesa di Imola, e l'autorità di cui appariva investito, basterebbero a dimostrare che tale chiesa era una sua suffraganea; ma, come già si è osservato, prima di diventare vescovo di Milano, S.Ambrogio era stato civilmente governatore di un territorio comprendete anche l'attuale Emilia, e pertanto è probabile che godesse ancora di una certa autorità anche sul piano ecclesiastico; inoltre nel corso della sua attività pastorale S. Ambrogio si era più volte preoccupato di chiese non sottoposte alla sua giurisdizione, e pertanto sarebbe azzardato attribuire valore probante alla semplice evidenza del suo interessamento.
Oltre a queste considerazioni generali, esistono fatti più specifici. Nel 378, cioè l’anno precedente l'invio della lettera al vescovo Costanzo, S. Ambrogio partecipò a un sinodo romano finalizzato tra l'altro a valutare la situazione venutasi a creare in seguito alla crisi ariana. Come si è ricordato, per ordine dell'imperatore erano stati imposti vescovi ariani in molte chiese dell'Italia Settentrionale (51) e forse in particolare nella Flaminia, dal momento che nel famoso Concilio di Rimini (359) gli ariani stravinsero. Con queste premesse, non sembra di poter escludere che anche la cattedra imolese fosse occupata da un vescovo ariano, e che questi, in seguito a scomunica papale, avesse abbandonato tale sede, lasciando, ovviamente, un clero di fede prevalentemente ariana. Tale eventualità spiegherebbe sia perché la sede era vacante, sia l'autorità con cui S.Ambrogio prendeva posizione nei confronti della chiesa imolese: lo faceva in forza di una delega papale. E' questa la tesi esposta nel 1787 dal Carli (52); e del resto non è forse casuale che la lettera di S.Ambrogio a Costanzo fosse incentrata sul problema degli ariani. Infatti S. Ambrogio si limita ad invitare Costanzo a visitare la chiesa di Imola finché non sia stato eletto un vescovo; non dice che prossimamente verrà lui ad eleggerlo o a consacrarlo, né sembra interessato a tale elezione: la sua preoccupazione sembra invece rivolta alla presenza in loco di "Illirici" di fede ariana. D'altra parte già altre volte S. Ambrogio, in seguito a delega papale, si era interessato ad una sede vescovile estranea alla sua giurisdizione, come nel 378, in occasione dell’elezione di Anemio vescovo di Sirmio (53). E comunque, a parte queste considerazioni, non era un fatto eccezionale che i vescovi dell'Italia settentrionale, considerata la grande distanza da Roma, prendessero decisioni arrogandosi prerogative metropolitiche, anche senza essere investiti dal papa di tale autorità; lo attestano le lettere con cui vari papi cercavano di riportarli nell'ambito delle loro competenze, o si lamentavano che avessero trasgredito le direttive sinodali. Così la lettera scritta nel 404 da Innocenzo I al vescovo di Rouen, o quelle scritte nel 417 dal suo successore Zozimo (54).
Più ricca di implicazioni ai fini del nostro assunto è l'identificazione della sede del vescovo Costanzo: infatti, se S.Ambrogio si sentiva autorizzato a impartirgli simili direttive, è legittimo supporre che la sede del vescovo Costanzo dovesse dipendere, in modo totale o parziale, dalla sede ambrosiana. Non si può escludere anzi che questo Costanzo fosse di scuola milanese, dato che Ambrogio lo chiama “figlio mio”. E' certo dunque che l'identificazione della sede di Costanzo fornirebbe un dato sicuro in merito all'estensione della giurisdizione ecclesiastica milanese. Sull'argomento sono state avanzate varie ipotesi; ma le più plausibili sono Faenza e Claterna, perché più vicine a Imola.
Il dibattito è ancora acceso.
Il Lanzoni afferma che Claterna è più vicina a Imola (55), mentre il Lucchesi e altri (56) affermano che invece le è più vicina Faenza; ma è chiaro che il criterio della distanza geografica, trattandosi di poche miglia, è poco indicativo. Su altre basi, il Lucchesi si schiera a favore di Faenza, in parte perché è convinto che le chiese di Imola e Faenza fossero suffraganee di S. Ambrogio, in parte perché non ci sarebbero prove del fatto che Claterna fosse una diocesi; invece il Palanque (57), il Pasini (58) e pochissimi altri identificano in Claterna la sede di Costanzo, benché non forniscano elementi atti a di dimostrare che si trattasse di una sede vescovile.
Oltre a queste possibili sedi c'era la diocesi di Bologna, i cui vescovi erano ben noti a S. Ambrogio; ma di fatto la lista episcopale bolognese non contiene nessun vescovo di nome Costanzo (59).
Escludendo Bologna, e poiché, per i motivi esposti sopra, appare improbabile che Faenza fosse suffraganea della chiesa milanese, l'ipotesi di Claterna come sede di Costanzo sembra la più plausibile. La mancanza di testimonianze documentarie che indichino Claterna come sede vescovile non può comunque costituire una prova del contrario; si tenga presenta che Claterna, a differenza di altre città, fu distrutta molto presto, e questa può essere una delle ragioni per cui con tale qualifica non è ricordata; e del resto tutte le città romane poste sulla via Emilia furono sedi vescovili: perché mai Claterna avrebbe dovuto essere esclusa da questo privilegio? Non è quindi fuori luogo ipotizzare che la sede del vescovo Costanzo fosse Claterna.
Se così fosse, questo Costanzo si potrebbe anche identificare con il destinatario di un'altra lettera che S.Ambrogio scrisse successivamente ad un vescovo di tale nome (59); e sarebbe probabilmente quello stesso Costanzo che presenziò al sinodo milanese del 393 indetto da S Ambrogio.





Conclusione

Le considerazioni fin qui esposte portano a concludere che in età romana Imola e Faenza appartenevano territorialmente alla provincia Flaminia, e che non dipendevano dal Vicariato Annonario, né erano suffraganee del vescovo di Milano.
Questa tesi si fonda su un assunto iniziale, che pone il Sillaro come confine tra l'Emilia e la Romagna: un fatto dimostrato da una serie congruente di elementi, in base ai quali risulta evidente che il suo corso contrassegna il limite fra due diverse aree geologiche e fra due diverse realtà di ordine antropologico, culturale, linguistico; diverse sono le pratiche e le culture agricole, diverse le tradizioni. Imola e Faenza, ubicate ad Est del Sillaro, trovano nel fiume il confine fisico, e, presumibilmente, anche politico e giuridico, che le destina a una diversa sfera di influenza.
Note
1 G. Sgubbi , Il Sillaro confine della Romagna, Faenza, 2003.
2 Per una panoramica delle varie ipotesi pubblicate sull'argomento, cfr. G. Sgubbi, Bibliografia Tardoantica, Faenza 2006.
3 Marziale, Epigrammi, traduzione G. Ceronetti. 1954
4 G. Susini, Storia e cultura nell’antico territorio lughese, in Storia di Lugo I. Dalla preistoria alla età moderna, luogo???1995, p. 86.
5 N. Alfieri , Alla ricerca della Flaminia “minor”, in "Rend. Accad.Sc.Ist.Bologna" 1975, pp.51-67.
6 G. Susini, Sulla via Flaminia II , in "Studi antichi in memoria di F. Grosso" luogo???1985, p. 603.
7 S. Faini e L Majoli (a cura di) La Romagna nella stampa dal Cinquecento all’Ottocento, Ravenna,1992, fig.16.
8 F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, p.767.
9 Memorie della chiesa cattedrale di Imola, Imola, 2005, p.415.
10 G. Sgubbi , Il Senio l’antico Tiberiaco?Faenza 2002
11 L'ipotesi è nota ma non universalmente condivisa; per es. la Cracco Ruggini (Economia e società della Italia Annonaria, Bari 1995 p. XXV) ringrazia per i suggerimenti ricevuti sia il Susini che il Tibiletti, ma non ne tiene conto.
12 G. Susini, Sulla via Flaminia II , cit. p. 604
13 G. Tibiletti, L’amministrazione romana, in Storia della Emilia-Romagna a cura di iniziale? Berselli luogo???1975, p.144.
14 A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’impero in "L’Italia Romana", Bari 2004 p. 273.
15 G. Cipolla, Giurisdizione metropolitica della sede milanese nella regione X, in "Ambrosiana", Milano, 1897, p. 71.
16 G.Violante, Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale nel medioevo luogo???1986 p.32
17 cfr.A. Giardina, L’Italia Romana luogo???, 2004, p. 274 .
18 Effettivamente, se una chiesa poteva vantare il privilegio di essere stata fondata direttamente da un Apostolo, oppure da un discepole di Cristo, poteva pretendere la completa indipendenza dalla chiesa romana, ma, come è stato ampiamente dimostrato, la fondazione della chiesa ravennate risale alla fine del II secolo, se non addirittura all’inizio del terzo. Quelli che inventarono la detta Passio sapevano che il vescovo ravennate S. Severo aveva partecipato al concilio di Sardica (343), e perciò occorreva inventare l'esistenza di vescovi che colmassero la lacuna di circa trecento anni che separava S. Severo dal periodo apostolico; per esempio san Procolo, cfr G. Sgubbi, Un enigma di Pieve Ponte: il titolare San Procolo, Faenza, 2003, p. 6.. In altri casi attribuirono ad alcuni vescovi pontificati incredibilmente lunghi: a S. Severo, 64 anni, e a S. Marcellino, 50.
19 Particolarmente interessante questa Passione in quanto potrebbe essere stata scritta da un Ambrogio ravennate, perciò le notizie riportate potrebbero essere fededegne e permetterebbero di rivedere alcuni aspetti riguardanti i primi tempi della chiesa ravennate.Le indagini al riguardo potrebbero essere indirizzate verso un tema di una certa importanza: mi riferisco alla possibilità che i martiri Gervasio e Protasio corrispondano ai Dioscuri. Considerato che nel ravennate vi sono molte testimonianze riguardanti i due gemelli protagonisti della Saga Argonautica, e che all’epoca della Passio vi erano in loco molti pagani di origine orientale, non si può escludere che questa sia pure servita al clero ravennate per facilitare il passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Il tema merita di essere approfondito: all’inizio del secolo scorso, è stato oggetto di un vivace dibattito, cfr. Rendel Harris, The Dioscuri in the Christian Legend, London,1903; Franchi De Cavalieri, I santi Gervasio e Protasio sono una imitazione di Castore e Polluce? In "Nuovo Bollettino di Archeologia Cristiana",1903; H.Delahaye, Castor et Pollux dans les Legendes Hagiographiques in "Anal. Boll." 1904; P . Saintyenes???, Les Saintes successeur des Dieux, 1907, e, recentemente, G. Sgubbi, Le radici della Romagna affondano nella saga Argonautica, Faenza, 2006.
20 S.Mazzarino, Da Lollianus et Arbetio al mosaico storico di S Apollinare in Classe, in "Studi Bizantini ed Neoellenici" 1965 pp. 109-114.
21 G. Sgubbi, Un enigma di Pieve Ponte il titolare S. Procolo, cit, p.3, e La provenienza Umbra del cristianesimo romagnolo, di prossima pubblicazione. Se diamo uno sguardo ai santi venerati in Umbria nei primi tempi del cristianesimo constateremo che alcuni di questi sono venerati anche in Romagna: S.Cassiano, S.Eustacchio, S.Valentino, S.Savino, ed alcuni si trovano pure nelle nostre liste episcopali, come S.Apollinare, S.Procolo e S.Orso. Su quest'ultimo, cfr. anche G. Gregoire, Il monachesimo in Umbria in "Ricerche sull’Umbria tardo Antica e Preromanica", Atti del II Convegno di Studi Umbri, Gubbio 1964 p. 268. Circa la liturgia siriaca, la via d'accesso dei suoi esponenti da Antiochia in Emilia-Romagna sarebbe stata un tragitto marittimo fino a Classe, oppure fino a Roma, con successivo percorso via terra.
22 Hilarius Fragmenta historica VIII. 1. Restitutus, Gregorius, Honoratus, Arthemius, Iginus, Priscus, Primus, Taurinus, Lucius, Mustacius, Urbanus, Honoratus, Solutor.
A questo elenco potremmo aggiungere anche una lista di vescovi che all’epoca del Baronio si trovavano nell’archivio della chiesa di Vercelli: Cacilianus, Valens, Ursacius, Saturninus, Eutiminus, Junior, Proculus, Martinianus, Probus, Gregorius, Victor, Vitalianus, Gaius, Paulus, Germinius, Evagrius, Epittetus, Leontius, Olympius, Trophon, Dionisius, Acatius, Eustatius, Rotanus, Olimpius, Stratolalus, Florents, Quintilius, Caprens. Esiste anche una lista di vescovi compilata da S Atanasio:Probatius, Viator, Facundinos, Joseph, Numedius, Sperantius, Severus, Heraclianus, Faustinus, Antoninus, Heraclius, Vitalius, Felix, Crispinus, Paulianus. Anche in queste due liste vi possono essere dei vescovi romagnoli.
23 P. Tomea, Qualche riflessione sulla epistola “de Civitatis Mediolani” in "Aevum" numero? 1989.
24 Paolo Diacono, De Ordine Episcoporum Mettensiu, Mon. Germ. Hist. II p. 261
25 G.Villa, Fasti della metropoli e del metropolita, Milano, 1830, p. 12
26 E.Cattaneo, Sant’Ambrogio e le costituzioni delle Province Ecclesiastiche dell’Italia settentrionale in "Ravennatensia", 1972, p. 472. Cfr. anche V. Grossi, Il Decretum Gelasianum. Nota in margine della chiesa di Roma alla fine del secolo V, in "Augustinianum", 2001, p. 241; lo pseudo Decretum gelasianum contiene una dichiarazione fatta “in un concilio tenuto sotto papa Damaso”, sicuramente quello del 382, dove si afferma che l’unico metropolita dell’occidente è il vescovo di Roma.
27 E. Cattaneo, op. cit. p. 483
28 Epist. Ad Vercellensis Maurini 63
29 P.Schepens, L’Ambosiastre et saint Eusèbe de Verceil in "Recherches de Science Religeuse" 37 (1950) p. 297.
30 B. Agosti, L’Epistola Ad Vercellensis di Ambrosius Servus Cristi in "Rivista Cistercense" 1990, pp 215-217.
Id.Alcuni Ambrosi a Milano alla fine del IV secolo e la Basilica Apostolorum in "Rivista Archeologica dell’Antica Provincia e Diocesi di Como", 1991, pp 5-35.
31 Effettivamente S. Ambrogio non si firmava mai “Servus Cristi”, come si apprende dando uno sguardo alle passioni a lui falsamente attribuite; quelle contrassegnate da questa sigla vennero infatti per ciò stesso considerate "Pseudo Ambrosiane”; cfr. Passio Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi Ursicini, BHL 3514; Atti S.Agnese PL XVII 813 ; le due Passio SS. Vitale ed Agricola; BHL 8690 e 8692; ecc.
32 P. Morigia, Historia dell’antichità di Milano 1592 p. 332; cfr.Bibliotheca Sanctorum s.v. S. Ambrogio
33 B. Agosti, Epist Ad Vercellensis cit. p. 217
34 ibid..
35 M.P.Billanovich, L’Autore dei tituli Ambrosiani: S Ambrogio o un vescovo di Pavia? in "Italia Medievale ed Umanistica", 1993, p. 51.
Id. Le circoscrizioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale tra tarda antichità e l’alto medioevo in "Italia Medievale ed Umanistica" 1991 p.23.
36 H. Savon, Ambrosie de Milan , Paris, 1997, pp 326-329.
37 G. Visona, Il cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini, Novara, 1999, pp 150.151
38 R.Lizzi Testa, Senatori, Popolo, e Papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari, 2004 p. 115.
39 Iniziali del nome? Cracco Ruggini, Vercelli e Milano nessi politici e rapporti ecclesiali nel IV secolo, in Eusebio di Vercelli ed il suo tempo 1997 Roma p. 100
40 Forse perché il secondo articolo è stato pubblicato in una rivista di non grande diffusione
41 “Figure di Papi scialbe” cfr. G.R. Palanque, Le metropoli ecclesiastiche alla fine del IV secolo in A.Fliche e V. Martin Storia della chiesa, Torino, 1940, p. 708
42. A lui ricorrono gli africani del concilio di Cartagine del 397, i vescovi della Gallia al concilio di Torino del 398 e i vescovi spagnoli del concilio di Toledo del 400, concili di fatto indetti dall’ancor vivente S.Ambrogio
43 E. Cattaneo, Sant’Ambrogio e le costituzioni delle Provincie Ecclesiastiche dell’Italia settentrionale, in "Ravennatensia" 1972, p. 483
44 G.R. Carli, Del diritto metropolitico della chiesa di Milano Milano 1786 pp 185-195.
45 E.Cattaneo, op. cit.
46 Epistola Maurini 39 sistemare corsivi e ordine dei numeri
47 La chiesa parrocchiale è stata intitolata a S.Ambrogio non perché tale territorio fosse di competenza di Milano, ma perché fu edificata da famiglie lombarde fuggite in seguito alle scorribande degli Unni (452) o dei Longobardi(568) cfr G.F. Cortini, Storia di Castel Del Rio, Imola,1933, p. 5.
48 Epistola 23 Maurini
49 Paulini , Vita S Ambrosii 27 in PL 14,38.

50 Epistola 2 maurini

(51) E anche dopo che gli ortodossi ebbero ripreso il sopravvento, alcuni vescovi ariani, come Urbano di Parma, nonostante la scomunica continuavano a detenere le loro sedi.
52 G.R. Carli, op. cit. p. 236
53 G. Menis, Le giurisdizioni metropolitiche di Aquilea e Milano nella tarda antichità in "AAAd" 1973 p.
54 E. Cattaneo, op.cit. p.481
55 F. Lanzoni, op. cit.p.772
56 G. Lucchesi, La diocesi di Faenza in Scritti minori, Faenza, 1983. p. 85. L'attribuzione apodittica di Imola all'antica provincia ecclesiastica milanese ha inibito ulteriori indagini sui vescovi di Milano; e gli studi di diverso orientamento sono stati di fatto ignorati o contestati: così, davanti ai dati esposti dall'Ugelli Italia Sacra t. II p. 623 e da M.Pierpaoli, Il libro di Andrea Agnello Ravenna 1988, p.72, sulla scorta dell'Agnello Ravennate e del Crisologo, Sermone 165, che sostengono che nell’anno 400 un Cornelio Imolese sarebbe stato consacrato dal Papa SOSTENGONO TUTTI LA STESSA COSA? IN CHE ORDINE CRONOLOGICO SI METTONO? alcuni studiosi, fra cui il Lucchesi (Stato attuale degli studi sui santi dell’antica provincia ravennate, in "Ravennatensia" 1, Cesena, 1969 pp. 78-81), hanno contestato tale testimonianza con la semplice motivazione che all’epoca a cui si riferisce il Crisologo ( inizio V secolo) Imola era suffraganea di Milano, perciò eventuali suoi vescovi non potevano essere consacrati dal Papa.
57 G.R.Palanque, op. cit. p. 691.
58 S. Pasini, Ambrogio da Milano, p. 203 luogo e data di pubblicazione???
59 F. Lanzoni, op. cit. p. 771
59 Epistola 72 Maurini.

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