GIUSEPPE SGUBBI
Note sulla
giurisdizione civile ed ecclesiastica di Imola e Faenza in età
romana
Introduzione
Questo lavoro ha come oggetto la
determinazione dei confini di Imola e Faenza e della loro posizione
giurisdizionale in età romana, un problema che è di fatto ancora
aperto, anche se altri studiosi hanno creduto di averne proposto
soluzioni definitive.
La disamina prende le mosse da una mia
recente ricognizione sui confini fra l'Emilia e la Romagna (1). Nel
corso della ricerca avevo notato che non esistevano lavori recenti
relativi al periodo romano; il vuoto storiografico mi era apparso
ingiustificabile, dal momento che testimonianze antiche dimostravano
invece che l'argomento era stato oggetto di un vivace dibattito.
Ho creduto quindi opportuno contribuire
a colmare la lacuna esaminando la situazione dei confini appunto in
questo periodo, e in particolare nel IV secolo d.C., quando, in
seguito alla riforma dell'imperatore Diocleziano (circa anno 397
d.C.), l'Italia si era trovata divisa in due Vicariati: Vicariato
Annonario con capitale Milano, e Vicariato Suburbicario con capitale
Roma, i quali amministravano le varie regioni (chiamate dai Romani
provinciae) in cui già da almeno un secolo era
articolata la penisola: fra queste, insieme alla Liguria, l'Emilia,
il Piceno, la Campania ecc., c'era la Flaminia, il cui territorio
corrispondeva più meno all'attuale Romagna.
Mi propongo pertanto i seguenti
obiettivi:
- determinare il confine tra Emilia e Flaminia, e quindi l'appartenenza territoriale di Imola e Faenza;
- individuare l'ubicazione del confine tra Vicariato Annonario e Vicariato Suburbicario
- stabilire se le due città appartenevano al Vicariato Annonario
tenendo conto che nel corso del IV
secolo accanto a questi confini civili esistevano anche alcuni
confini ecclesiastici.
1. Il Sillaro, confine fra l'Emilia e la Flaminia
Data la scarsità, la frammentarietà e
la contraddittorietà delle fonti, gli studiosi sono stati costretti
a sopperire alle carenze del materiale documentario affidandosi a
vari criteri di ricostruzione storica (2); per quanto mi riguarda, mi
sono attenuto a un principio fondamentale, frutto di ripetute
esperienze: un confine naturale, contrassegnato, fin da tempi remoti,
dalla contrapposizione di diverse culture ed etnie, tende a rimanere
inalterato nel corso del tempo, perché finisce per costituire uno
schema radicato nella mente della popolazione.
Come ho avuto occasione di dimostrare
nella mia pubblicazione sopra citata, alla quale rimando, fra Emilia
e Flaminia esiste un unico confine con queste caratteristiche: il
fiume Sillaro, che, rispetto alla precarietà dei confini segnati da
altri fiumi romagnoli in epoca romana o medievale, ha tracciato nei
millenni una linea di demarcazione costante.
Già solo come confine naturale il
Sillaro non appare secondo a nessun fiume emiliano-romagnolo: infatti
costituisce una precisa discriminante sia dal punto di vista
geologico (per esempio, i gessi si trovano solo sulla sua riva
destra) che da quello della fauna e della flora: un centinaio di
specie di piante e di animali sono introvabili ad ovest del Sillaro.
Ma questo fiume rappresenta anche un
confine antropologico e culturale: già in epoca preistorica
demarcava i territori di popolazioni di varie etnie, come attesta la
diversità di indice cefalico emersa dai risultati delle indagini
antropologiche, e, successivamente, ha continuato ininterrottamente a
segnare un limite preciso: dapprima ha diviso villanoviani romagnoli
e villanoviani bolognesi, poi Galli ed Umbri, quindi ager
imolese e ager claternate, territorio imolese e territorio
bolognese, diocesi imolese e diocesi bolognese, Longobardia ed
Esarcato, ducato di Persiceto ed Esarcato, ducati e signorie, Romagna
ed Emilia.
Pertanto, data la costanza di questa
sua funzione di demarcatore naturale e culturale, è plausibile
ipotizzare che il Sillaro coincida con il confine tra Emilia e
Flaminia, tra il Vicariato Annonario e quello Suburbicario, e con
ogni altro eventuale confine presente nelle stesse zone.
Sulla base di queste e altre
considerazioni, sono quindi giunto alla conclusione che Imola e
Faenza, ubicate entrambe ad Est del Sillaro, appartengono alla
Flaminia.
Mi propongo ora di dimostrare che in
età romana Imola e Faenza non dipendevano da Milano.
2.
Aemilia
e Flaminia in
età imperiale (dal I sec. a. C. al III sec. d.C.)
Esistevano di fatto in età imperiale
due regioni denominate Aemilia e Flaminia, territorialmente
corrispondenti alle regioni Emilia e Romagna?
Come è noto, dai primi tempi della
Repubblica fino all’epoca di Augusto, il territorio corrispondente
all'attuale regione Emilia-Romagna, pur essendo con vari nomi spesso
ricordato, (Cispadana, Ager Boicus, Gallia Togata,
Provincia Ariminum), non aveva confini ben definiti.
In seguito alla divisione in regioni
voluta da Augusto, il territorio attualmente corrispondente alla
regione emiliano- romagnola venne a costituire la regione VIII; il
nome Aemilia le sarebbe stato assegnato nel corso del I secolo
d.C., come alcuni sostengono sulla scorta dell'epigramma III, 4 di
Marco Valerio Marziale, composto verso l' 88 d.C. mentre il
poeta si trovava a Forum Corneli (Imola). Il passo è quello
in cui il poeta licenzia il libro con il verso: “vai a Roma, mio
libro; se donde tu venga ti chiedono, dalla regione dirai, che la via
Emilia attraversa.” (3). In
realtà però in questo passo il poeta afferma semplicemente di
trovarsi in quel periodo in una regione - non dice quale -
attraversata dalla via chiamata Emilia; e, anche a voler
concedere al linguaggio poetico valenze polisemiche, un significato
diverso attribuito al testo sembra a dir poco congetturale. Se
Marziale fosse stato in una città dell'Umbria e avesse detto di
trovarsi in una regione attraversata dalla Via Flaminia, avremmo
forse dedotto che tutta quella regione si chiamava Flaminia? A
questa stregua, anche la Toscana, attraversata dalla Via Claudia,
dovrebbe chiamarsi Claudia; il che non è.
Altri passi di Marziale offrono però
spunti più significativi, come nella commemorazione della morte di
Rufo, un suo amico bolognese: “Lacrime versa o Bologna, orbata
ahimè del tuo Rufo, e per tutta l’Emilia il cordoglio risuona.”
( VI 85, 6). L'accenno all'Emilia si ritrova nel saluto all'amico
Domizio, in procinto di partire per un viaggio: “Tu per le terre
dell’Emilia andrai“ (X 12,1).
In questi ultimi due epigrammi il nome
Emilia potrebbe sottintendere il termine regione, ma
non si può neanche escludere che sottintenda via. Insomma, in
Marziale compaiono più volte la parola Emilia e la parola
regione, ma non compare mai un'espressione inequivocabile come
“la regione chiamata Emilia". Alla luce di queste note è
piuttosto azzardato considerare i passi di Marziale come sicura
testimonianza del fatto che già nel I secolo d.C. tutto l’attuale
territorio della regione emiliano-romagnola era chiamato Emilia. Del
resto un decennio prima Plinio il Vecchio (Hist. Nat. III
115), nella sua pur accurata descrizione della VIII regione Augustea
(città, fiumi, ecc), omette di riferire che tale regione aveva preso
il nome Emilia; data la sua acribia di storico, se così fosse stato
non avrebbe certo mancato di ricordarlo.
Queste considerazioni portano a dedurre
che in età romana la regione Aemilia non corrispondesse
all'intero territorio dell'Emilia-Romagna. In realtà, quando appare
per la prima volta il nome di una regione detta Aemilia,
contemporaneamente appare anche una regione chiamata Flaminia;
di conseguenza per Aemilia è legittimo intendere
solamente il territorio da Bologna in su, e per Flaminia da
Imola in giù. E' quindi opportuno cercar di datare con maggiore
sicurezza la nascita delle due regioni denominate Emilia e
Flaminia.
Nel corso del II secolo d.C., con ogni
probabilità fra il 160 e il 170, le due regioni sono citate in
alcune iscrizioni, in relazione a governatori di province o regioni;
uno di questi magistrati verso il 166 governava Aemilia et
Flaminia, (C.I.L.VIII, 5354), un altro governava Flaminia
et Umbria (C.I.L. XI 377). Da queste iscrizioni si
apprende che un'ampia zona era stata fatta oggetto di una divisione
amministrativa che aveva determinato la nascita di alcune regioni fra
cui l'Emilia e la Flaminia.
E' assai probabile che entrambe le
regioni abbiano tratto la loro denominazione dalla via che le
attraversava. Il Susini (4) è convinto che anticamente una via che
convenzionalmente chiama Flaminia II proseguisse da Rimini
verso il cuore della pianura, valicasse il Rubicone nei pressi del
Compito, e raggiungesse Pisignano, San Pietro in Vincoli, San
Pancrazio, Russi, Bagnacavallo, Lugo, Massa Lombarda ed il Delta
Padano. Nereo Alfieri (5) attribuisce al console Flaminio la
costruzione, nel 187 a.C., di una via Flaminia detta
Flaminia minor, che da Arezzo, tenendo il crinale fra il
Sillaro e l’Idice, arrivava a sud di Claterna. Per il
Susini (6) questa Flaminia minor proseguiva il suo percorso
verso il guado del Po di Primaro congiungendosi alla Flaminia II
proveniente da Rimini. Nella carta geografica che il Coronelli diede
alle stampe nel 1707 (7), appare chiaramente evidenziato il tracciato
di una via chiamata Flaminia che, partendo poco a ovest di
Imola, arriva al mare Adriatico. Peraltro anche qualche tratto
romagnolo della via Emilia era detto Flaminia, come si deduce
da un documento riportato dal Lanzoni (8) riguardante la città di
Forlì (in liviensis
??? foris non longe per Flaminiam viam) e da alcune cronache
imolesi del diciottesimo secolo (9). Da queste notizie si ricava che
l'antica regione Flaminia era interessata dai vari percorsi di una
strada chiamata Flaminia; e pertanto è plausibile che il nome della
regione derivi da detta via. Non si può comunque neanche escludere
che il nome Flaminia sia stato assegnato da popolazioni provenienti
dalla valle Tiberina, poi trapiantate in Umbria e infine stanziatesi
in Romagna in età romana e preromana, le quali, memori dell'antica
origine, avrebbero fra l’altro attribuito al fiume Senio il nome
Tiberiaco (10).
Come credo di aver dimostrato, il
confine fra l'Emilia e la Flaminia era segnato dal corso del fiume
Sillaro; questa tesi è condivisa da due autorevoli studiosi
dell’epoca romana, Susini e Tibiletti (11). Il Susini, descrivendo
il tracciato verso il mare della via Flaminia minor, afferma
che si dirige verso il mare “quasi a costituire un autentico limes
settentrionale della nascente Romagna" (12). Il
Tibiletti, dopo aver elencato le divisioni amministrative di età
imperiale, osserva: “E' singolare che il confine fra la nuova,
ridotta Aemilia, e la Flaminia, richiami a grandi linee
quella che dopo millenni e dopo le vicende bizantine, longobarde e
medioevali, sarà la suddivisione fra la Romagna e i moderni ducati.
Indubbiamente è mera casualità, almeno secondo lo stato della
nostra conoscenza, tanto scarsa, delle più profonde leggi
storico-geografiche.” (13). Questo significa perciò che, in
seguito alla divisione amministrativa del 215, Faenza e Imola
facevano già civilmente parte della Flaminia. Si tratta ora di
vedere se tale situazione è rimasta tale e quale in età romana
anche in tempi successivi.
3. Vicariato
Annnonario e Vicariato Suburbicario
Come si è ricordato, in seguito a
varie suddivisioni succedutesi nel corso del II e III secolo, in
particolare quella dell’imperatore Diocleziano, l’Italia si trovò
divisa in due Vicariati: Annonario, con capitale Milano, e
Suburbicario, con capitale Roma. Non è chiaro se ai due Vicariati
fossero preposti due Vicari o uno solo, o se ci fosse un solo
Vicariato affidato a due Vicari; secondo alcuni studiosi (14) la
Diocesi Italicana, così era chiamato il territorio italiano,
era l’unica Diocesi dell’impero governata da due Vicari. Questo
significa che ogni Vicario poteva, se necessario, per esempio in caso
di carestia o per altre ragioni, sconfinare nel territorio dell'altro
Vicario. Inoltre l'elezione di un nuovo Vicario spesso comportava un
cambiamento giurisdizionale del territorio: infatti un Vicario di
famiglia ricca poteva pretendere di governare su un territorio di
maggiore estensione. Ci troviamo dunque di fronte a un confine
labile, che mal si presta a precise definizioni.
In particolare, il territorio di cui ci
stiamo occupando si trovò all'intersezione tra due confini: quello
fra Vicariato Annonario e Suburbicario e quello fra Emilia e
Flaminia.
E' quindi necessario individuare le
regioni che costituivano il Vicariato Annonario.
Per quanto riguarda il IV secolo, la
maggior parte degli studiosi (15) è concorde nell'assegnare sia
l'Emilia, sia la Flaminia, e anche una parte del Piceno (le Marche),
al Vicariato Annonario: perciò Imola e Faenza si sarebbero trovate
nel Vicariato Annonario, cioè sotto Milano. Altri (16) sostengono
invece che la Flaminia faceva parte della Suburbicaria. Per i primi
il confine meridionale della Annonaria era molto più a Sud
dell'Emilia-Romagna, su una linea che andava dall' Esino, fiume
marchigiano, all’Arno, il fiume di Firenze; quelli che invece
assegnano la Flaminia alla Suburbicaria collocano il confine della
Flaminia con l’Emilia fra Forlì e Forlimpopoli; secondo questa
ipotesi - peraltro non suffragata da testimonianze antiche - le città
di Imola e Faenza si sarebbero trovate in Emilia, e quindi, anche in
questo caso, sotto Milano.
Le
testimonianze antiche su cui si fondano le due ipotesi sono alcuni
cataloghi di province in cui la voce Italia
sembrerebbe corrispondere al Vicariato Annonario. Così al Concilio
di Sardica del 343 i vescovi firmatari si qualificarono in vari modi:
quelli dell’Italia settentrionale, oltre alla loro sede,
aggiungevano anche la voce Italia
( Protasio Milano Italia
, Severo
Ravenna Italia, ecc),
mentre quelli dell' Italia centrale e meridionale aggiungevano al
nome solo la provincia. La citazione Italia
presente in questo documento sembra dimostrare che, a quella data, la
regione Flaminia, la cui capitale era Ravenna, si trovava civilmente
nel Vicariato Annonario. Altri documenti antichi lasciano intendere
la stessa cosa.
Ma non mancano documenti, fra cui molti
rescritti imperiali, come quelli
elencati dal Giardina (17), in cui la voce Italia corrisponde
indistintamente a qualsiasi parte del territorio italiano: dei 18
testi riportati, ben 12 applicano il termine a tutta la penisola, 3
sono dubbi, e solo 3 lo riferiscono al Vicariato Annonario. Di
conseguenza non è possibile definire il confine civile fra il
Vicariato Annonario e quello Suburbicario nel corso del IV secolo
sull'unica base dei documenti antichi che riferiscono la voce Italia
al primo.
Gli antichi cataloghi delle province
presentano spunti interessanti, ma, come vedremo, non risolutivi.
Intanto è bene precisare che nei testi di età romana per provincia
si intende regione.
Si
tratta di cataloghi scritti in varie epoche (dal IV all’VIII
secolo), per lo più relativi alla situazione della seconda metà del
IV, ma talora anche riferiti a situazioni molto più tarde.
Passiamo
in rassegna gli elenchi di province più significativi iniziando
dalla Notitia
Dignitatum.
Nell’elenco delle province descritte in questo catalogo, vengono
ricordate, fra le altre, Flaminia
et Picenum con
l’aggiunta Annonaria,
e, successivamente, il Piceno
con l’aggiunta
'suburbicario'. Se ne dovrebbe dedurre che in un certo periodo la
Flaminia e una parte del Piceno, e di conseguenza le città di Imola
e Faenza, avrebbero fatto parte del Vicariato Annonario, sottoposto a
Milano. Secondo alcuni la fonte non sarebbe affidabile, perché il
catalogo era mancante di alcune pagine originarie, che sarebbero
state interpolate arbitrariamente da uno studioso tedesco; tuttavia i
più l'hanno ritenuta, nonostante tutto, attendibile e sulla base
delle notizie riportate hanno ritenuto che il confine fra Vicariato
Annonario e Vicariato Suburbicario fosse segnato dal corso dei fiumi
Esino-Arno.
Da
quanto mi risulta, questo catalogo e la già ricordata sottoscrizione
dei vescovi al concilio di Sardica, sarebbero le uniche testimonianze
antiche che, seppur non fornendo indicazioni precise sul confine
civile fra i due Vicariati, lasciano arguire che in alcuni periodi
del IV secolo la Flaminia abbia fatto parte del Vicariato Annonario.
La
Notitia Dignitatum
riporta una notizia utile alla nostra indagine: il confine orientale
della regione Emilia è segnato dal corso del fiume Idex,
"Idice".
Se questo dato è esatto, Imola,
Faenza, e anche Claterna,
all’epoca del documento si trovavano in Flaminia.
Vi
sono poi testimonianze antiche che attestano l’appartenenza di
Ravenna e della Flaminia al Vicariato Suburbicario, per esempio due
rescritti imperiali degli anni 364 e 365, (C.Th.IX.30,
1,3).
Il Latercolo di Polemio Silvio
ed il Latercolo Veronese, due elenchi delle province all’epoca
esistenti, citano le due province, ma non fanno riferimento ai
confini.
Il cosiddetto Catalogo
Madrileno, e quello di Paolo Diacono, lo storico dei
Longobardi, sono due elenchi perfettamente identici, l'uno copia
dell'altro: probabilmente il Catalogo Madrileno deriva dalla
cronaca di Paolo Diacono. In essi sono menzionate anche le città
delle varie regioni: e nell’elenco delle città dell’Emilia è
riportata anche Imola. Questa informazione ha indotto alcuni ad
assegnare senz'altro Imola all'Emilia e a ipotizzare di conseguenza
che il confine fra Flaminia ed Emilia dovesse essere segnato o dal
corso del fiume Santerno o da quello del Senio, e non dal Sillaro; ma
altri dati contenuti nel testo rendono l'attribuzione problematica.
Nell’elenco delle regioni in questi due cataloghi, e solo in questi
due, compare la provincia delle Alpi Appennine. Non entriamo
nel merito dell'esistenza di questa enigmatica provincia, su cui
molto è stato scritto, e non chiediamoci neanche da dove Paolo
Diacono abbia attinto notizie al riguardo: dal catalogo interpolato
di Polemio Silvio? Dalla quasi contemporanea Descriptio Orbis
Romani di Giorgio Ciprio? Da una raffigurazione geografica andata
perduta? Quello che qui interessa è far presente che la dicitura
Alpi Appennine compare solo in epoca bizantina: le Alpi
Appennine non sarebbero altro che una linea difensiva creata dai
bizantini per arginare l'avanzata longobarda. Se ne deduce che questi
due cataloghi non descrivono la situazione della fine del IV secolo,
bensì la situazione relativa ad alcuni secoli successivi. Di
conseguenza le città ivi ricordate, Imola compresa, sono
semplicemente quelle conquistate dai Longobardi.
La Cosmografia dell’Anonimo
Ravennate è anch'essa un elenco di province, da cui si apprende
che la Flaminia, qui detta Provincia Ravennatis (IV 29),
con le città di Imola e Faenza, faceva parte del Vicariato
Annonario.
Ma a questo proposito è necessario
rilevare un particolare molto significativo: quest'opera, scritta
nella seconda metà del settimo secolo a Ravenna, era stata
commissionata dalla curia arcivescovile ravennate. Come è noto,
all’epoca dell’arcivescovo Mauro la chiesa ravennate era riuscita
a conquistare la cosiddetta autocefalia, cioè l'indipendenza
dalla chiesa romana, e quindi tutta una serie di privilegi, alcuni
dei quali sono documentati nella “epigrafe dei privilegi”
depositata nella basilica di S. Apollinare in Classe. Per raggiungere
tale scopo, la curia arcivescovile fece ricorso a mezzi di ogni tipo,
non esclusa la falsificazione di documenti. Uno di questi fu la
Passio Sancti Apollinaris, finalizzata a dimostrare che
la chiesa di Ravenna era di origine apostolica, cioè fondata nel
primo secolo direttamente da un Apostolo (18); un altro è il
tristemente famoso “Diploma di Valentiniano III”, un
elenco falso di chiese che da tempi immemorabili sarebbero state
dipendenti alla chiesa ravennate. La Passio Sanctorum Vitalis
Valeriae Gervasi Protasi et Ursicini (BHL3514) divenne lo
strumento per dimostrare che questa chiesa non era da meno di Milano,
dato che anch'essa poteva vantare dei martiri (19); e appunto alla
categoria dei falsi appartiene anche la Cosmografia dell’Anonimo
Ravennate, elaborata per dimostrare che la chiesa ravennate
non dipendeva da Roma.
Non si può dunque escludere che la
compilazione fosse stata stilata con spirito capzioso. Anche il
Mazzarino, commentando il documento, non esclude la possibilità che
fosse stato scritto appositamente per la “dignitas episcopalis
ecc.” (20), il che inficia la credibilità del testo.
Da questa breve scorsa delle fonti è
lecito dedurre che il supporto delle testimonianze antiche non è
sufficiente a determinare con esattezza i confini civili nel IV
secolo.
E' quindi opportuno cercar di ottenere
altre indicazioni dal confronto con le fonti ecclesiastiche.
4. La Chiesa
nel IV secolo
Per una serie di eventi il IV secolo fu
uno dei più importanti nella storia della chiesa: Costantino
conferiva alla religione cristiana il rango di religione di stato,
favorendo così l'evangelizzazione di tutto il territorio, sia
cittadino che rurale; nello stesso secolo svolgevano la loro attività
pastorale i tre più grandi padri della chiesa ( S. Ambrogio, S.
Gerolamo e Sant’Agostino) e alcuni vescovi di eccezionale levatura
(Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Ilario di Poitiers e
Atanasio di Alessandria); venivano indetti due concili ecumenici
(Nicea nel 325 e Costantinopoli nel 381) ed alcune centinaia di
concili provinciali, alcuni dei quali destinati ad avere vasta
risonanza, come quelli di Arles (314), Sardica (344), Rimini (359).
Non a caso nel corso di detti sinodi e concili furono prese decisioni
determinanti, e valide ancor oggi, in merito alla liturgia e al
primato papale; e, per quanto riguarda specificamente la nostra
indagine, in questo secolo venivano poste le basi per le future
metropoli ecclesiastiche.
E' forse opportuno qualche cenno sulla
diffusione del cristianesimo: a parere degli studiosi, i punti di
irradiazione di questa religione verso l'Emilia-Romagna furono
fondamentalmente tre: da Classe, grazie anche al porto romano che
metteva in comunicazione l’alto Adriatico con le terre del Medio
Oriente; da Milano lungo la via Emilia; da Roma attraverso l’Umbria.
E' probabile che quest’ultima
direttiva sia stata prevalente, dato che, come si è già osservato,
l'Umbria si è sempre rivelata la via di transito abituale per varie
popolazioni provenienti dal Lazio; e del resto a questa origine
riconducono i santi venerati in Romagna.
Sempre in tema di evangelizzazione,
sarebbe utile alla nostra ricerca stabilire la provenienza della
liturgia "siriaca", cioè l'antichissima liturgia praticata
in tutte le chiese dell’Italia settentrionale; anche in questo caso
ne sono rimaste tracce in Romagna nel culto dei santi, ma non è
chiaro se sia arrivata da Milano, da Ravenna, oppure da Roma
attraverso l’Umbria (21) ma l'argomento esula dai limiti di questa
trattazione.
Anche l'incidenza e la diffusione
dell'arianesimo potrebbe aiutare a far luce su alcuni punti
controversi, in particolare riguardo alle numerose sedi vescovili
emiliano-romagnole per lunghi periodi sprovviste di vescovi. Ilario
di Poitiers ha tramandato una lista di vescovi ariani che avevano
partecipato al concilio riminese del 359 (22): non si può infatti
escludere che alcuni di questi fossero romagnoli.
Una conoscenza più approfondita su questo punto consentirebbe
anche di individuare l'identità del metropolita ortodosso
dell’Italia settentrionale, forse S. Eusebio di Vercelli.
Senza dubbio l'eresia ariana fu una
delle più diffuse nel corso della bimillenaria storia della chiesa,
come attesta la situazione che si era venuta a creare ad opera
dell'imperatore Costante, che aveva insediato vescovi ariani in ogni
sede episcopale. Così durante il secolo IV, dalla seconda metà
degli anni 50 alla prima metà degli anni 70, anche le sedi più
importanti, comprese quelle di Milano e di Roma, erano occupate da
vescovi ariani.
5. Milano
metropoli?
Tralasciando altre considerazioni
sull'argomento, passiamo a considerare uno dei punti centrali di
questa ricerca, cioè la metropoli milanese, con particolare riguardo
al periodo ambrosiano.
Intanto è opportuno precisare le
prerogative delle metropoli ecclesiastiche. Nonostante qualche
parere discorde, in generale si assume che al metropolita spettasse
il compito di consacrare i vescovi della sua giurisdizione, di indire
sinodi e di svolgere attività pastorale su tutto il territorio di
sua competenza. Un punto resta controverso: se l’autorità del
metropolita fosse parziale (sopra di lui il Papa), o totale,
cioè nessuno sopra di lui.
Con questa premessa, prendiamo in esame
l’episcopato di S. Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397, ma
alla data della sua elezione già da quattro anni governatore civile
di alcune regioni, fra cui l’Emilia. S. Ambrogio è giustamente
ritenuto uno dei massimi Padri della Chiesa, tanto che quello del suo
apostolato è definito "periodo ambrosiano"; la liturgia
ambrosiana è del resto tuttora vigente nel territorio
milanese, e le sue opere sono ancora apprezzate. Fra i molti
interrogativi di questo periodo che meritano indagini più
approfondite, due in particolare interessano il nostro discorso: lo
statuto di metropoli attribuito a Milano e la dipendenza di Imola e
Faenza da detta, per ora ipotetica, metropoli.
Questi problemi, a lungo e variamente
dibattuti, non hanno ancora trovato una soluzione definitiva; con
questo breve excursus ci proponiamo almeno di delinearne i termini.
Per comodità di esposizione la
trattazione dell'argomento è stata divisa in due parti, relative ai
periodi preambrosiano e ambrosiano.
a) periodo
preambrosiano
A parere di alcuni cronisti
settecenteschi ed ottocenteschi, la Chiesa milanese sarebbe stata
fondata nel I sec. dopo Cristo da S. Barnaba, o da S Antalone, cioè
da uno dei 72 discepoli di Gesù; di conseguenza sarebbe stata
insignita dal titolo di metropoli già dal momento della sua
fondazione. Infatti, come si è già ricordato, le chiese che
potevano vantare un'origine apostolica o sub-apostolica non erano
soggette alla dipendenza dal papa, perciò, anche se in antico non
erano espressamente chiamate ‘metropoli’, avevano di fatto
poteri metropolitici.
Ma in realtà l’origine della chiesa
milanese non risale a tempi così antichi. Il suo primo vescovo, S.
Antalone, aveva occupato la cattedra solo verso la fine del II
secolo, se non addirittura all’inizio del III. L’errore è dovuto
a una antica cronaca, il De situ civitatis Mediolani (23),
un'opera di data incerta, meglio conosciuta come Datiana Historia,
e ad uno scritto di Paolo Diacono (24), il De Episcopis
Mettersibus (VIII sec.) in cui effettivamente viene riportata la
notizia che questi due discepoli sarebbero i fondatori di varie
chiese, fra cui quella milanese. Ad aumentare la confusione contribuì
anche l’anonimo scrittore greco che verso il VI secolo stilò il
catalogo dei 72 discepoli, che egli scelse alla rinfusa dalle Sacre
Scritture, attribuendo a ciascuno arbitrariamente una diocesi. Perciò
l'antichità attribuita allo statuto metropolitico di Milano è
senz'altro priva di sicuro fondamento.
Poco credibile è pure l’ipotesi che
la Chiesa milanese sia diventata metropoli successivamente alla
divisione civile dell’Italia in seguito alla riforma
dell’imperatore Diocleziano, avvenuta nel 297: è ancora il periodo
delle grandi persecuzioni, e un evento del genere appare del tutto
improbabile.
Del pari poco plausibile è
l'eventualità che la Chiesa milanese fosse metropoli.nei primi
decenni del IV secolo. Lo attesterebbe uno scritto di S. Atanasio,
che descrive le vicende del sinodo milanese del 355. Da lui si
apprende che, a causa degli ariani, erano stati costretti all’esilio
alcuni vescovi, che egli cita per nome: fra gli altri, Dionisio di
Milano, Lucifero di Cagliari e Paolino di Treviri. E poiché al nome
di questi tre vescovi S Atanasio aggiunge la dicitura Metropolis
(25), alcuni studiosi hanno proposto di intendere “Metropoli
Ecclesastica”; ma in realtà, come è stato definitivamente
accertato, sia Paolino di Treviri che Lucifero di Cagliari non erano
all’epoca metropoliti ecclesiastici, e, di conseguenza, per
'metropoli' non si deve intendere niente di più che l'istituzione
civile.Gli studiosi che considerano Milano metropoli ecclesiastica
anche prima del periodo ambrosiano, fondano la loro ipotesi sul fatto
che in vari concili i primi firmatari furono vescovi milanesi.
Effettivamente chi firmava per primo, oppure per secondo dopo il
Papa, poteva essere considerato un metropolita; ma dai documenti
risulta che questa regola fu valida solo verso la fine del IV secolo.
Perciò se è vero che nel già ricordato Concilio di Milano del 355
il primo firmatario fu di fatto il vescovo di Milano Dionisio, è
anche vero che nel Concilio di Sardica del 343 la firma di Protasio
di Milano figura solo al sesto posto.
E del resto fino a tutto il IV secolo
l’unico metropolita dell’occidente era considerato il Papa (26).
Non mancano studiosi convinti che quando Milano divenne capitale
dell’impero romano nel 286, acquisì ipso facto anche lo
statuto di metropoli ecclesiastica. Non ci sono prove che dimostrino
il contrario, ma certo non si trattava di una promozione automatica:
infatti nel 402 anche Ravenna diventò capitale dell’impero romano,
ma la sua Chiesa diventò metropoli solo trent’anni dopo.
Non esiste in realtà un solo documento
che dimostri in modo inequivocabile che prima di Ambrogio la Chiesa
milanese abbia usufruito dei diritti metropolitici.
Di fatto, il primo documento certo di
Milano metropoli risale solo al 451 (27).
b) periodo
ambrosiano.
Anche se per molti lo statuto di
metropoli attribuito a Milano sotto Ambrogio appare una realtà
indiscutibile, di fatto si tratta solo di un’ipotesi, fondata in
sostanza su due elementi: una lettera che il santo avrebbe scritto
alla chiesa di Vercelli, e la sua intensa attività pastorale.
La Lettera di S Ambrogio alla Chiesa
di Vercelli (28) è una missiva senza data; l‘unico elemento
indicativo in tal senso è il fatto che quando fu scritta la sede
vescovile di Vercelli era vacante, perciò le date possibili sono
due: fra il 370 e il 372, se fu inviata in seguito alla morte del
vescovo Eusebio; nel 396, se in seguito alla morte del suo successore
Limenio. Sull’argomento le ipotesi sono discordi: i più si
esprimono a favore del 396, mentre lo Schepens (29), dopo
approfondito esame, la colloca nel 372.
L’importanza del documento consiste
nel fatto che si tratterebbe dell’unica lettera in cui Ambrogio fa
menzione della metropoli milanese e ne definisce addirittura i
confini. Infatti S Ambrogio, sempre che ne sia veramente l’autore,
si lamenta con il clero vercellese del fatto che da tempo la sede
vescovile di Vercelli è vacante, e che a causa di ciò non è stato
possibile creare altri vescovi, con la grave conseguenza che molte
altre chiese ne sono rimaste prive. Se ne può arguire che la chiesa
di Vercelli era una “scuola” di vescovi. La lettera prosegue
elencando le regioni in cui le chiese erano senza vescovo: Liguria,
Emilia, Venezie, e le regioni confinanti. Fra le regioni
confinanti vi era pure la Flaminia.
E’ evidente l’importanza di questi
dati ai fini della nostra ricerca; ma esistono seri dubbi in merito
all’autenticità del documento. Nei primi anni 90, in due articoli,
Barbara Agosti ha infatti sollevato molti dubbi sulla “ambrosianita”
di tale lettera (30). Varie sono le ragioni avanzate dalla studiosa:
la lettera è stranamente firmata con la dicitura Servus Cristi,
definizione con cui si designava un monaco, e pertanto un vescovo
di origine monacale, il che escluderebbe S. Ambrogio, che monaco non
era mai stato (31). Inoltre ai tempi di S. Ambrogio vi erano in
Lombardia altri religiosi di nome Ambrogio: un Ambrogio vescovo, un
Ambrogio monaco ed un Ambrogio martire, che spesso furono confusi con
il vescovo di Milano (32). La Agosti aggiunge alla lista degli
omonimi un vescovo Ambrogio, ricordato in una iscrizione della
Basilica Apostolorum, e l’Ambrogio che partecipò al funerale di S.
Martino, quando S. Ambrogio era morto da almeno 6 mesi. Quanto alla
lettera alla Chiesa di Vercelli la studiosa nega che S. Ambrogio ne
sia l'autore in base alle seguenti considerazioni: S. Ambrogio non
può averla scritta nel 372, cioè durante il periodo in cui la
chiesa di Vercelli era vacante dopo la morte di Eusebio, in quanto
allora S. Ambrogio non era ancora stato eletto vescovo; e neppure nel
396, quando la cattedra episcopale era vacante in seguito alla morte
di Limenio, in quanto S.Ambrogio non fa menzione di questo vescovo:
eppure, come attesta un antico calendario di Vercelli, sarebbe stato
quello che lo aveva consacrato. Per di più era impossibile per S.
Ambrogio recarsi personalmente a Vercelli in quel periodo, perché
era gravemente ammalato. Perciò anche la data del 396 appare
inattendibile (33).
La
Agosti, come lei stessa riconosce, non è stata la prima a rilevare
incongruenze nell'attribuzione della paternità della lettera; cita
infatti il biografo Paolino, che non ritenne opportuno inserirla fra
quelle meritevoli di essere date alle stampe, e i padri Maurini,
monaci dell’ordine di S.Mauro, che nel sedicesimo secolo
pubblicarono tutte le opere di S. Ambrogio, ma sollevarono seri dubbi
sulla paternità ambrosiana di tale lettera (34).
Condivide
l'ipotesi della Agosti la Billanovich (35); ne prende atto con
qualche perplessità il Savon (36), che però non tiene conto del
secondo articolo della Agosti e si limita a mettere in discussione la
non impossibile ambrosianità del “servus
Cristi”. Al Savon
rimandano Visonà (37), Lizzi (38) e Ruggini (39).
Anche
se l'argomento non è stato oggetto di un più vasto dibattito (40),
resta il fatto che l'attribuzione a S. Ambrogio della lettera ad
Vercellensis non è più
così pacifica; e di conseguenza non può essere assunta come prova
del carattere metropolitico di Milano nel periodo ambrosiano.
L'altro argomento a favore di questa
ipotesi è, come si è detto, l’intensa attività pastorale di
S.Ambrogio durante il suo episcopato.
Di fatto il vescovo svolse attività
infaticabile: consacrò vescovi, (Piacenza, Brescia, Aquilea, Ivrea,
Novara ecc), indisse sinodi (381 ad Aquilea, 390 e 393 a Milano),
scrisse un vasto epistolario, intervenne in varie dispute. Senza
alcun dubbio quella di S. Ambrogio fu l'attività di pertinenza di un
metropolita; ma c'è da notare che il suo raggio di azione si estese
ben al di fuori dei confini della presunta metropoli lombarda: elesse
vescovi a Nicomedia, altri ne depose, indisse il sinodo di Capua,
scrisse ovunque missive, intervenne a dirimere conflitti in materia
di religione, dottrina e liturgia nelle chiese di Gallia, Spagna,
Africa, Siria, Grecia. E' evidente allora che il prestigio di S.
Ambrogio non derivava dalla sua posizione nella gerarchia
ecclesiastica, ma dalla sua eccezionale personalità, che
giganteggiava nella generale mediocrità dell'epoca: per questo, come
alcuni hanno osservato, molti si rivolgevano a S.Ambrogio non in
quanto metropolita, ma in virtù delle sue straordinarie doti, dal
momento che i Papi dell’epoca sarebbero stati “di scarsa
levatura” (41).
Se poi fosse realmente esistita una
giurisdizione metropolitica milanese, questa prerogativa sarebbe
stata ereditata anche dai successori di S. Ambrogio, cosa che invece
non è accaduta: infatti a parte Simpliciano, suo immediato
successore, e quindi erede diretto delle sue iniziative e del suo
prestigio, il quale ebbe influenza internazionale (42),
tutti gli altri vescovi, ad iniziare da Venerio (401-411),
erano privi di qualsiasi autorità sugli altri colleghi.
E, in ogni caso, il primo documento
certo del carattere metropolitico della chiesa milanese risale solo
al 451 (43).
Tenendo conto di questi elementi,
appare improbabile che all'epoca di S. Ambrogio Milano fosse
metropoli; e su questo concordano anche il Carli (44) e il Cattaneo
(45).
6. Posizione
ecclesiastica di Imola e Faenza
Resta ora da definire, sulla base di
questi dati, quale fosse la posizione ecclesiastica di Imola e
Faenza, cioè se queste due città erano o non erano suffraganee di
S. Ambrogio.
Dalle riflessioni fin qui esposte
risulta per lo meno opinabile l'ipotesi da altri sostenuta che
nell'ultimo quarto del IV secolo la Chiesa di Milano fosse metropoli,
che S. Ambrogio fosse il vescovo metropolita, che l'Emilia facesse
parte di tale presunta metropoli, e che Imola e Faenza si trovassero
in territorio emiliano; resta da vedere se, per qualche altro
aspetto, dipendevano da S. Ambrogio.
Ci sono vari fatti che lasciano
supporre il contrario. Per non citarne che alcuni, nessun vescovo di
Imola e di Faenza partecipò mai ai sinodi indetti dal vescovo
milanese; nessun vescovo di Imola e Faenza fu consacrato da S
Ambrogio o da altri metropoliti milanesi; e nell’elenco, compilato
da S. Ambrogio, delle città esistenti sulla via
Emilia,”semidirutarum urbium cadavera” (46), che alcuni
considerano l’elenco delle città della sua giurisdizione, non
figurano né Imola né Faenza (infatti l'elenco inizia da Claterna e
finisce a Piacenza); S.Ambrogio non ricorda mai il martire imolese
San Cassiano; a Faenza non è venerato nessun santo ambrosiano;
nell’imolese una solo chiesa è titolata a S Ambrogio, ma si sa che
tale titolazione non ha niente a che fare con la sua attività
pastorale (47); e, infine, S. Ambrogio non ha mai fatto menzione
della Flaminia, mentre ha ricordato più volte l'Emilia (48).
In base a questi dati, l'attribuzione a
Imola e Faenza dello statuto di suffraganee di S. Ambrogio mi sembra
discutibile
Peraltro, chi sostiene la tesi della
dipendenza delle due città dalla Chiesa ambrosiana dispone di dati
scarsi e scarsamente probanti, che in sostanza si riducono a due: nel
393 S. Ambrogio soggiornò per alcuni giorni a Faenza, e, quanto alla
chiesa di Imola, S. Ambrogio ne fa menzione in una lettera.
Il
primo evento si verificò nel 393, quando S. Ambrogio fu costretto a
fuggire da Milano dove stava per arrivare l’usurpatore Eugenio. Per
alcuni giorni si fermò a Bologna, poi proseguì lungo la via Emilia,
forse con l'intenzione di andare a Roma, e infine si trattenne per un
breve periodo a Faenza (49). I motivi non sono noti: forse si trattò
di una sosta forzata a causa del maltempo. Non mi sembra però che da
questo si possa dedurre che Faenza dipendeva dalla metropoli di
Milano; infatti nel corso della stessa trasferta S. Ambrogio si
trattenne per almeno un anno a Firenze, che certamente non faceva
parte della metropoli milanese.
Quanto
alla lettera in cui è menzionata la Chiesa imolese, si tratta di un
documento ricco di spunti e di implicazioni, che pertanto merita una
trattazione più approfondita.
7. Lettera di
S. Ambrogio al vescovo Costanzo.
Nell'anno 379, un vescovo di nome
Costanzo, di sede non specificata, ma sicuramente vicina alla chiesa
Imolese, ricevette da S. Ambrogio l’invito a visitare
saltuariamente la chiesa di Imola, in quanto in quel momento
sprovvista di vescovo (50). E' opinione condivisa che l'attenzione di
S. Ambrogio verso la chiesa di Imola, e l'autorità di cui appariva
investito, basterebbero a dimostrare che tale chiesa era una sua
suffraganea; ma, come già si è osservato, prima di diventare
vescovo di Milano, S.Ambrogio era stato civilmente governatore di un
territorio comprendete anche l'attuale Emilia, e pertanto è
probabile che godesse ancora di una certa autorità anche sul piano
ecclesiastico; inoltre nel corso della sua attività pastorale S.
Ambrogio si era più volte preoccupato di chiese non sottoposte alla
sua giurisdizione, e pertanto sarebbe azzardato attribuire valore
probante alla semplice evidenza del suo interessamento.
Oltre a queste considerazioni generali,
esistono fatti più specifici. Nel 378, cioè l’anno precedente
l'invio della lettera al vescovo Costanzo, S. Ambrogio partecipò a
un sinodo romano finalizzato tra l'altro a valutare la situazione
venutasi a creare in seguito alla crisi ariana. Come si è ricordato,
per ordine dell'imperatore erano stati imposti vescovi ariani in
molte chiese dell'Italia Settentrionale (51)
e forse in particolare nella Flaminia, dal momento che
nel famoso Concilio di Rimini (359) gli ariani stravinsero. Con
queste premesse, non sembra di poter escludere che anche la cattedra
imolese fosse occupata da un vescovo ariano, e che questi, in seguito
a scomunica papale, avesse abbandonato tale sede, lasciando,
ovviamente, un clero di fede prevalentemente ariana. Tale eventualità
spiegherebbe sia perché la sede era vacante, sia l'autorità con cui
S.Ambrogio prendeva posizione nei confronti della chiesa imolese: lo
faceva in forza di una delega papale. E' questa la tesi esposta nel
1787 dal Carli (52); e del resto non è forse casuale che la lettera
di S.Ambrogio a Costanzo fosse incentrata sul problema degli ariani.
Infatti S. Ambrogio si limita ad invitare Costanzo a visitare la
chiesa di Imola finché non sia stato eletto un vescovo; non dice che
prossimamente verrà lui ad eleggerlo o a consacrarlo, né sembra
interessato a tale elezione: la sua preoccupazione sembra invece
rivolta alla presenza in loco di "Illirici" di fede ariana.
D'altra parte già altre volte S. Ambrogio, in
seguito a delega papale, si era interessato ad una sede vescovile
estranea alla sua giurisdizione, come nel 378, in occasione
dell’elezione di Anemio vescovo di Sirmio
(53). E comunque, a parte queste considerazioni, non era un fatto
eccezionale che i vescovi dell'Italia settentrionale, considerata la
grande distanza da Roma, prendessero decisioni arrogandosi
prerogative metropolitiche, anche senza essere investiti dal
papa di tale autorità; lo attestano le lettere con cui vari papi
cercavano di riportarli nell'ambito delle loro competenze, o si
lamentavano che avessero trasgredito le direttive sinodali. Così la
lettera scritta nel 404 da Innocenzo I al vescovo di Rouen, o quelle
scritte nel 417 dal suo successore Zozimo (54).
Più
ricca di implicazioni ai fini del nostro assunto è l'identificazione
della sede del vescovo Costanzo: infatti, se S.Ambrogio si sentiva
autorizzato a impartirgli simili direttive, è legittimo supporre che
la sede del vescovo Costanzo dovesse dipendere, in modo totale o
parziale, dalla sede ambrosiana. Non si può escludere anzi che
questo Costanzo fosse di scuola milanese, dato che Ambrogio lo chiama
“figlio mio”. E' certo dunque che l'identificazione della sede di
Costanzo fornirebbe un dato sicuro in merito all'estensione della
giurisdizione ecclesiastica milanese. Sull'argomento sono state
avanzate varie ipotesi; ma le più plausibili sono Faenza e Claterna,
perché più vicine a Imola.
Il dibattito è ancora acceso.
Il Lanzoni afferma che Claterna è più
vicina a Imola (55), mentre il Lucchesi e altri (56) affermano che
invece le è più vicina Faenza; ma è chiaro che il criterio della
distanza geografica, trattandosi di poche miglia, è poco indicativo.
Su altre basi, il Lucchesi si schiera a favore di Faenza, in parte
perché è convinto che le chiese di Imola e Faenza fossero
suffraganee di S. Ambrogio, in parte perché non ci sarebbero prove
del fatto che Claterna fosse una diocesi; invece il Palanque (57), il
Pasini (58) e pochissimi altri identificano in Claterna la sede di
Costanzo, benché non forniscano elementi atti a di dimostrare che si
trattasse di una sede vescovile.
Oltre a queste possibili sedi c'era la
diocesi di Bologna, i cui vescovi erano ben noti a S. Ambrogio; ma di
fatto la lista episcopale bolognese non contiene nessun vescovo di
nome Costanzo (59).
Escludendo Bologna, e poiché, per i
motivi esposti sopra, appare improbabile che Faenza fosse suffraganea
della chiesa milanese, l'ipotesi di Claterna come sede di Costanzo
sembra la più plausibile. La mancanza di testimonianze documentarie
che indichino Claterna come sede vescovile non può comunque
costituire una prova del contrario; si tenga presenta che Claterna, a
differenza di altre città, fu distrutta molto presto, e questa può
essere una delle ragioni per cui con tale qualifica non è ricordata;
e del resto tutte le città romane poste sulla via Emilia furono sedi
vescovili: perché mai Claterna avrebbe dovuto essere esclusa da
questo privilegio? Non è quindi fuori luogo ipotizzare che la sede
del vescovo Costanzo fosse Claterna.
Se così fosse, questo Costanzo si
potrebbe anche identificare con il destinatario di un'altra lettera
che S.Ambrogio scrisse successivamente ad un vescovo di tale nome
(59); e sarebbe probabilmente quello stesso Costanzo che presenziò
al sinodo milanese del 393 indetto da S Ambrogio.
Conclusione
Le considerazioni fin qui esposte
portano a concludere che in età romana Imola e Faenza appartenevano
territorialmente alla provincia Flaminia, e che non
dipendevano dal Vicariato Annonario, né erano suffraganee del
vescovo di Milano.
Questa tesi si fonda su un assunto
iniziale, che pone il Sillaro come confine tra l'Emilia e la Romagna:
un fatto dimostrato da una serie congruente di elementi, in base ai
quali risulta evidente che il suo corso contrassegna il limite fra
due diverse aree geologiche e fra due diverse realtà di ordine
antropologico, culturale, linguistico; diverse sono le pratiche e le
culture agricole, diverse le tradizioni. Imola e Faenza, ubicate ad
Est del Sillaro, trovano nel fiume il confine fisico, e,
presumibilmente, anche politico e giuridico, che le destina a una
diversa sfera di influenza.
Note
1
G. Sgubbi , Il Sillaro
confine della Romagna,
Faenza, 2003.
2
Per una panoramica delle varie ipotesi pubblicate sull'argomento,
cfr. G. Sgubbi, Bibliografia
Tardoantica, Faenza
2006.
3
Marziale, Epigrammi,
traduzione G. Ceronetti. 1954
4
G. Susini, Storia e
cultura nell’antico territorio lughese,
in Storia di Lugo I.
Dalla preistoria alla età moderna,
luogo???1995,
p. 86.
5
N. Alfieri , Alla
ricerca della Flaminia “minor”,
in "Rend. Accad.Sc.Ist.Bologna" 1975, pp.51-67.
6
G. Susini, Sulla via
Flaminia II , in
"Studi antichi in memoria di F. Grosso" luogo???1985,
p. 603.
7
S. Faini e L Majoli (a cura di)
La Romagna nella stampa dal Cinquecento all’Ottocento,
Ravenna,1992, fig.16.
8
F. Lanzoni, Le diocesi
d’Italia dalle origini al principio del secolo VII,
Faenza 1927, p.767.
9
Memorie della chiesa
cattedrale di Imola, Imola,
2005, p.415.
10
G. Sgubbi , Il Senio
l’antico Tiberiaco?Faenza
2002
11
L'ipotesi è nota ma non universalmente condivisa; per es. la Cracco
Ruggini (Economia
e società della
Italia Annonaria,
Bari 1995 p. XXV) ringrazia per i suggerimenti ricevuti sia il Susini
che il Tibiletti, ma non ne tiene conto.
12
G. Susini, Sulla via
Flaminia II , cit.
p. 604
13
G. Tibiletti, L’amministrazione
romana, in Storia
della Emilia-Romagna
a cura di iniziale?
Berselli
luogo???1975,
p.144.
14
A. Giardina, Le due
Italie nella forma tarda dell’impero
in "L’Italia Romana", Bari 2004 p. 273.
15
G. Cipolla, Giurisdizione
metropolitica della sede milanese nella regione X,
in "Ambrosiana", Milano, 1897, p. 71.
16
G.Violante, Ricerche
sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia settentrionale nel
medioevo luogo???1986
p.32
17
cfr.A. Giardina, L’Italia
Romana luogo???,
2004, p. 274 .
18
Effettivamente, se una chiesa poteva vantare il privilegio di essere
stata fondata direttamente da un Apostolo, oppure da un discepole di
Cristo, poteva pretendere la completa indipendenza dalla chiesa
romana, ma, come è stato ampiamente dimostrato, la fondazione della
chiesa ravennate risale alla fine del II secolo, se non addirittura
all’inizio del terzo. Quelli che inventarono la detta Passio
sapevano che il vescovo ravennate S. Severo aveva partecipato al
concilio di Sardica (343), e perciò occorreva inventare l'esistenza
di vescovi che colmassero la lacuna di circa trecento anni che
separava S. Severo dal periodo apostolico; per esempio san Procolo,
cfr G. Sgubbi, Un
enigma di Pieve Ponte: il titolare San Procolo, Faenza,
2003, p. 6.. In altri casi attribuirono ad alcuni vescovi pontificati
incredibilmente lunghi: a S. Severo, 64 anni, e a S. Marcellino, 50.
19
Particolarmente interessante questa Passione in quanto potrebbe
essere stata scritta da un Ambrogio ravennate, perciò le notizie
riportate potrebbero essere fededegne e permetterebbero di rivedere
alcuni aspetti riguardanti i primi tempi della chiesa ravennate.Le
indagini al riguardo potrebbero essere indirizzate verso un tema di
una certa importanza: mi riferisco alla possibilità che i martiri
Gervasio e Protasio corrispondano ai Dioscuri. Considerato che nel
ravennate vi sono molte testimonianze riguardanti i due gemelli
protagonisti della Saga Argonautica, e che all’epoca della Passio
vi erano in loco molti pagani di origine orientale, non si può
escludere che questa sia pure servita al clero ravennate per
facilitare il passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Il tema
merita di essere approfondito: all’inizio del secolo scorso, è
stato oggetto di un vivace dibattito, cfr. Rendel Harris, The
Dioscuri in the Christian Legend,
London,1903; Franchi De Cavalieri, I
santi Gervasio e Protasio sono una imitazione di Castore e Polluce?
In "Nuovo Bollettino di Archeologia Cristiana",1903;
H.Delahaye, Castor et
Pollux dans les Legendes Hagiographiques
in "Anal. Boll." 1904; P . Saintyenes???,
Les
Saintes
successeur
des Dieux, 1907, e,
recentemente, G. Sgubbi, Le
radici della
Romagna affondano nella saga Argonautica,
Faenza, 2006.
20
S.Mazzarino, Da
Lollianus et Arbetio
al mosaico storico di S Apollinare in Classe,
in "Studi Bizantini ed Neoellenici" 1965 pp. 109-114.
21
G. Sgubbi, Un enigma
di Pieve Ponte il titolare S. Procolo,
cit, p.3, e La
provenienza Umbra del
cristianesimo
romagnolo, di
prossima pubblicazione. Se
diamo uno sguardo ai santi venerati in Umbria nei primi tempi del
cristianesimo constateremo che alcuni di questi sono venerati anche
in Romagna: S.Cassiano, S.Eustacchio, S.Valentino, S.Savino, ed
alcuni si trovano pure nelle nostre liste episcopali, come
S.Apollinare, S.Procolo e S.Orso. Su quest'ultimo, cfr. anche G.
Gregoire, Il
monachesimo in Umbria
in "Ricerche sull’Umbria tardo Antica e Preromanica",
Atti del II Convegno di Studi Umbri, Gubbio 1964 p. 268. Circa la
liturgia siriaca,
la via d'accesso dei suoi esponenti da Antiochia in Emilia-Romagna
sarebbe stata un tragitto marittimo fino a Classe, oppure fino a
Roma, con successivo percorso via terra.
22
Hilarius Fragmenta
historica
VIII. 1. Restitutus,
Gregorius, Honoratus, Arthemius, Iginus, Priscus, Primus,
Taurinus,
Lucius, Mustacius, Urbanus, Honoratus, Solutor.
A
questo elenco potremmo aggiungere anche una lista di vescovi che
all’epoca del Baronio si trovavano nell’archivio della chiesa di
Vercelli: Cacilianus,
Valens, Ursacius, Saturninus, Eutiminus, Junior, Proculus,
Martinianus, Probus, Gregorius, Victor, Vitalianus, Gaius, Paulus,
Germinius, Evagrius, Epittetus, Leontius, Olympius, Trophon,
Dionisius, Acatius, Eustatius, Rotanus, Olimpius, Stratolalus,
Florents,
Quintilius, Caprens.
Esiste
anche
una lista di vescovi compilata da S Atanasio:Probatius,
Viator, Facundinos,
Joseph, Numedius, Sperantius, Severus, Heraclianus, Faustinus,
Antoninus, Heraclius, Vitalius, Felix, Crispinus, Paulianus.
Anche in queste
due liste vi possono essere dei vescovi romagnoli.
23
P. Tomea, Qualche
riflessione sulla epistola “de Civitatis Mediolani”
in "Aevum" numero?
1989.
24
Paolo Diacono, De
Ordine Episcoporum Mettensiu,
Mon.
Germ. Hist.
II p. 261
25
G.Villa, Fasti della
metropoli e del metropolita,
Milano, 1830, p. 12
26
E.Cattaneo, Sant’Ambrogio
e le costituzioni delle Province Ecclesiastiche dell’Italia
settentrionale in
"Ravennatensia", 1972, p. 472. Cfr. anche V.
Grossi, Il
Decretum Gelasianum.
Nota in margine della chiesa di Roma alla fine del secolo V,
in "Augustinianum", 2001, p. 241; lo pseudo Decretum
gelasianum contiene
una dichiarazione fatta “in un concilio tenuto sotto papa Damaso”,
sicuramente quello
del 382, dove si afferma che l’unico metropolita dell’occidente è
il vescovo di Roma.
27
E. Cattaneo, op. cit.
p. 483
28
Epist.
Ad Vercellensis
Maurini 63
29
P.Schepens, L’Ambosiastre
et saint Eusèbe de Verceil
in "Recherches de Science Religeuse" 37 (1950) p. 297.
30
B. Agosti, L’Epistola
Ad Vercellensis di Ambrosius Servus Cristi
in "Rivista Cistercense" 1990, pp 215-217.
Id.Alcuni
Ambrosi a Milano alla fine del IV secolo e la Basilica Apostolorum
in "Rivista Archeologica dell’Antica Provincia e Diocesi di
Como", 1991, pp 5-35.
31
Effettivamente S. Ambrogio non si firmava mai “Servus Cristi”,
come si apprende dando uno sguardo alle passioni a lui falsamente
attribuite; quelle contrassegnate da questa sigla vennero infatti per
ciò stesso considerate "Pseudo Ambrosiane”; cfr. Passio
Sanctorum Vitalis Valeriae Gervasi Protasi Ursicini,
BHL 3514; Atti
S.Agnese PL XVII 813
; le due Passio SS.
Vitale ed Agricola;
BHL 8690 e 8692; ecc.
32
P. Morigia, Historia
dell’antichità di Milano
1592 p. 332; cfr.Bibliotheca
Sanctorum s.v. S.
Ambrogio
33
B. Agosti, Epist
Ad Vercellensis
cit. p. 217
34
ibid..
35
M.P.Billanovich,
L’Autore dei tituli
Ambrosiani: S Ambrogio
o un vescovo di Pavia?
in "Italia Medievale ed Umanistica", 1993, p. 51.
Id.
Le circoscrizioni
ecclesiastiche dell’Italia settentrionale tra tarda antichità e
l’alto medioevo
in "Italia Medievale ed Umanistica" 1991 p.23.
36
H. Savon, Ambrosie de
Milan , Paris, 1997,
pp 326-329.
37
G. Visona, Il
cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini,
Novara,
1999, pp 150.151
38
R.Lizzi Testa, Senatori,
Popolo, e Papi: il governo di Roma al tempo dei Valentiniani,
Bari, 2004 p. 115.
39
Iniziali
del nome? Cracco
Ruggini, Vercelli e
Milano nessi politici e rapporti ecclesiali nel IV secolo,
in Eusebio di Vercelli
ed il suo tempo 1997
Roma p. 100
40
Forse perché il secondo articolo è stato pubblicato in una rivista
di non grande diffusione
41
“Figure di Papi
scialbe” cfr. G.R.
Palanque, Le metropoli
ecclesiastiche alla fine del IV secolo
in A.Fliche e V. Martin Storia
della chiesa, Torino,
1940, p. 708
42.
A lui ricorrono gli africani del concilio di Cartagine del 397, i
vescovi della Gallia al concilio di Torino del 398 e i vescovi
spagnoli del concilio di Toledo del 400, concili di fatto indetti
dall’ancor vivente S.Ambrogio
43 E. Cattaneo, Sant’Ambrogio
e le costituzioni
delle Provincie Ecclesiastiche dell’Italia
settentrionale, in "Ravennatensia" 1972, p. 483
44
G.R. Carli, Del diritto metropolitico della chiesa di
Milano Milano 1786 pp 185-195.
45
E.Cattaneo, op. cit.
46
Epistola
Maurini
39
sistemare corsivi e ordine dei numeri
47
La chiesa parrocchiale è stata intitolata a S.Ambrogio non perché
tale territorio fosse di competenza di Milano, ma perché fu
edificata da famiglie lombarde fuggite in seguito alle scorribande
degli Unni (452) o dei
Longobardi(568) cfr G.F. Cortini, Storia
di Castel Del Rio,
Imola,1933, p. 5.
48
Epistola
23
Maurini
49
Paulini , Vita S
Ambrosii 27 in PL
14,38.
50 Epistola 2 maurini
(51)
E anche dopo che gli ortodossi ebbero ripreso il sopravvento, alcuni
vescovi ariani, come Urbano di Parma, nonostante la scomunica
continuavano a detenere le loro sedi.
52
G.R. Carli, op. cit.
p. 236
53
G. Menis, Le
giurisdizioni metropolitiche di Aquilea e Milano nella tarda
antichità in "AAAd"
1973 p.
54
E. Cattaneo, op.cit. p.481
55
F. Lanzoni, op.
cit.p.772
56
G. Lucchesi, La
diocesi di Faenza in
Scritti minori,
Faenza, 1983. p. 85. L'attribuzione apodittica di Imola all'antica
provincia ecclesiastica milanese ha inibito ulteriori indagini sui
vescovi di Milano; e gli studi di diverso orientamento sono stati di
fatto ignorati o contestati: così, davanti ai dati esposti
dall'Ugelli Italia
Sacra
t. II p. 623 e da M.Pierpaoli, Il
libro di Andrea Agnello
Ravenna 1988, p.72, sulla scorta dell'Agnello Ravennate
e del Crisologo,
Sermone
165,
che sostengono che nell’anno 400 un Cornelio
Imolese
sarebbe stato consacrato dal Papa SOSTENGONO TUTTI LA STESSA COSA? IN
CHE ORDINE CRONOLOGICO SI
METTONO? alcuni
studiosi, fra cui il Lucchesi (Stato
attuale degli studi sui santi dell’antica provincia ravennate,
in "Ravennatensia" 1, Cesena, 1969 pp. 78-81), hanno
contestato tale testimonianza con la semplice motivazione che
all’epoca a cui si
riferisce il Crisologo ( inizio V secolo) Imola era suffraganea di
Milano, perciò eventuali suoi vescovi non potevano essere consacrati
dal Papa.
57
G.R.Palanque, op. cit.
p. 691.
58
S. Pasini, Ambrogio
da Milano,
p. 203 luogo e data di pubblicazione???
59
F. Lanzoni, op. cit.
p. 771
59
Epistola
72 Maurini.
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